Pablo Picasso, “Madre con bambino”, 1902 (Cambridge, Massachusetts, Fogg Art Museum)

Perché rinunciamo a fare figli

Annalena Benini
Madri da paura. Oltre le statistiche ci sono le domande sul futuro, gli egoismi, le ansie, gli ingorghi del femminismo e le irresponsabilità dei padri. Fra punture, camici bianchi e ostinazioni. Un’indagine – di Annalena Benini

E adesso che puoi avere tutto, cosa c’è che non va? Adesso che puoi decidere, puoi vivere, puoi dire no, puoi chiedere aiuto, puoi diventare chi sei. Adesso che non devi liberarti da un’oppressione. Ora che puoi correre incontro ai tuoi desideri. Fare un po’ come ti pare, abbracciare il caos. Non dirmi che hai paura, adesso. Paura di perdere qualcosa, paura di non avere abbastanza cose. Paura di non essere brava come scrivono nei libri. Paura di annoiarti. Paura di diventare cattiva. Paura di amarlo poco, di amarlo male. Paura di soffocare gli altri desideri. Paura di dire: voglio un figlio, e se tu amore invece non lo vuoi, se te ne stai lì sulla porta a dire no, è presto, è tardi, non so, allora però adesso spostati, che mi stai bloccando il traffico.

 

Paura, adesso che sai bene il mondo che cos’è, di farne ricominciare un altro, però sconosciuto: insieme alla vita di un figlio viene alla vita, sempre, nuovamente, anche il mondo, ricomincia da capo. E’ uno sconvolgimento, una sovversione, non è vero che è soltanto un fatto naturale. Non lo è. Per lui che nasce, ma anche per te che torni nuovamente a nascere, questa volta come madre, che metti una vita a disposizione della vita, tiri un calcio al sé immutabile e fai entrare nei pensieri e negli incubi la baby-sitter, le malattie, le cadute dal quarto piano, gli orsi affamati, le dimissioni in bianco, l’utero retroverso. Per il padre, che in sala parto, stravolto, si accorge per la prima volta di questo principio di alterità, e dell’incognita: non sapevamo, non abbiamo mai saputo e non sapremo mai, nonostante quindici ecografie anche tridimensionali, chi stavamo aspettando. E per tutti quelli che stanno intorno a guardare, e sentono un’energia potentissima che arriva addosso ed è la vita nuova. Per il mondo, che da quel momento accoglie l’uomo in più, così somigliante a tutti eppure totalmente diverso. Così simile a te, o con quel modo di muovere le mani che riconosci eppure nessuno gli ha mai insegnato, somigliante ma sconosciuto, misterioso, un altro. E’ uscito da te, ma non sei tu, è altro sangue, nuovi desideri, e il bisogno carnale che ha di te. Ti guarda e piange, ti guarda e aspetta, lo guardi e sì, adesso lo vedi quanta paura, quanta voglia avevi.

 

Il 2015 è stato in Italia un anno senza figli. Poche nascite, un minimo storico continuamente superato da nuovi minimi storici. Meno di cinquecentomila bambini, meno del 2014, meno del 2013, meno dell’anno precedente e così via. Decine di migliaia di figli che non sono venuti al mondo, molti mondi in meno da far ricominciare. E’ brutto anche solo scriverlo, sembra un film distopico in cui l’umanità si estingue e i cani randagi vanno a caccia di bambini, ma nascono meno persone di quante ne muoiono, ed è da più di vent’anni una tendenza piuttosto continua, salvo un piccolo boom nel 2006 (gli statistici dicono: grazie agli immigrati) che però non ha spostato la media nazionale: un figlio virgola tre per coppia, adorato, viziato, analizzato, conteso, sulle spalle del quale far pesare tutto il mondo nuovo, tutti questi anziani (e i loro diritti alle pensioni) che lo osservano, lo studiano, scrivono manuali su come crescerlo nel modo migliore, come giocare con le costruzioni e avere successo nella vita, come sbagliare e avere successo, come colorare fuori dagli spazi e avere successo, come usare l’iPad e avere successo, come fare a botte e non farsi sgridare, come rassicurare la madre sul fatto che è la migliore del mondo: madre elicottero tigre orso libellula chioccia riccio (senza parlare della terribile madre coccodrillo), per ogni bambino cento manuali, per ogni manuale un tipo di madre diversa ma concentrata nel tirare fuori il meglio e vincere la gara, e tutti gli anziani in cerchio, molto preoccupati, molto ansiosi, fissano da sotto gli occhiali il bambino con l’abito d’oro e gli dicono: hai paura vero, adesso che tocca a te? Perché se i bambini diminuiscono, se ogni nascita è un evento sociale, una prova di coraggio, il figlio che viene al mondo porta con sé quel che resta dell’idea di futuro. E’ lui stesso, la sua esistenza, o il sogno di lui, la prova di una speranza, di un desiderio ingovernabile che si fa largo in mezzo ad altri desideri, ad altri bisogni, che supera le opposizioni, i discorsi sull’opportunità, sulla precarietà, e che sgomita e lavora dentro e prende spazio, e una notte fa dire a un ragazzo dentro un letto, sopra un divano, su una spiaggia o dentro un’automobile: proviamoci dai, che ci importa, e sull’onda di quel “che ci importa” (che ha dentro l’amore, l’abbandono, la libertà) può arrivare la sorpresa, l’incertezza di una vita certissima che sovverte ogni equilibrio, manda all’aria tutti i programmi e fa vincere, sopra questo mondo teso all’eliminazione di ogni incognita, la tenerezza insieme allo sgomento.

 

Oppure succede qualcos’altro, in un’altra notte dentro una stanza d’albergo, un ventilatore sulla testa perché a Ho Chi Minh d’estate si muore di caldo, e un’amica chiede all’altra, alla fine di un lungo aggiornamento sui tumulti sentimentali, per questi fidanzati sofferenti, tormentati, coetanei infinitamente ragazzini, “ma tu tra dieci anni come vedi la tua vita?”. Questa domanda non era un giudizio, era una curiosità, un modo per addormentarsi chiacchierando sotto il ventilatore, ma a lei è arrivata addosso come un vento freddo, dentro il caldo che faceva lì: a trentaquattro anni, con tutto quello che voglio, con questo desiderio di mondo e di amore e di bellezza e anche con queste teste di cazzo di cui mi innamoro, io però che cosa voglio, adesso che tengo gli occhi fissi su quel ventilatore e non posso più dormire, lo so: voglio un figlio. A Ho Chi Minh di notte il desiderio ha preso il sopravvento, e al ritorno a Roma lei ha detto a lui: spostati, la mia vita deve passare da qui, o vieni dentro o te ne vai fuori. “Il desiderio della madre – ha scritto lo psicoanalista Massimo Recalcati in “Le mani della madre” (Feltrinelli) – non può essere ridotto al ‘voler avere un figlio’; non è ricerca spasmodicamente attiva del figlio, ma disposizione all’attesa… E’ necessario un ‘sì’ radicale”. Questa disposizione all’attesa, questa disposizione alla sorpresa, all’incertezza, al futuro, e questa voglia che brucia nello stomaco, a un certo punto, che fa cambiare strada, cambiare sguardo, che si fa largo fra altre mille cose anche bellissime, e supera terrori e disastri e calcoli matematici, e dentro grida “sì” (e riguarda però non soltanto le donne al cospetto della possibilità di una vita nuova, riguarda anche gli uomini, riguarda i genitori che verranno), sta drammaticamente diminuendo in Italia, ogni mese un po’ di più, ogni mese meno mondo da scoprire, e ogni anno si alza ancora un po’ l’età media in cui una donna ha il primo figlio. Siamo a trentun anni e mezzo, e ai corsi preparto per ogni ventottenne terrorizzata ci sono almeno tre trentanovenni in preda al panico. Sembra sempre troppo presto, anche quando è un po’ tardi, e questa lotta tra la biologia e la paura, tra la biologia e la razionalità, tra la biologia e il controllo, tra l’amore e la programmazione (anche tra l’amore e i fidanzati stronzi), ha creato, a poco a poco, nuove possibilità, molta tecnologia, conquistata con le unghie e con i denti, lotte durissime e scontri culturali e ideologici, amicizie infrante in nome degli embrioni (chi sarebbe pronto a usarli per farsi ricrescere i capelli, chi li chiama ciascuno per nome e li iscrive all’università), convinzione a intermittenza che il congelamento degli ovuli salverà le nostre vite e le carriere e guarirà i disastri sentimentali di tutte le splendide quarantenni, ma il risultato non cambia: i nuovi nati non aumentano in alcun posto del mondo, le donne che fanno figli diminuiscono anche in Francia e mercoledì scorso il Figaro ha dedicato quattro pagine a questa “chute inquiétante”, della natalità: uno virgola novantasei figli per donna, per la prima volta da quasi vent’anni, “simbolo inquietante per il rinnovamento delle generazioni”, e ha accusato Hollande, e in generale la gauche, “di avere sacrificato la famiglia sull’altare di una solidarietà non equa” (il matrimonio per tutti, scrive il Figaro, è stato la priorità, e la famiglia è stata privata da questa politica incoerente di tre miliardi di euro).

 

[**Video_box_2**]Perché, ognuno al proprio posto, dal proprio punto di vista, pensa di avere la spiegazione, il colpevole, lo sbaglio occidentale (per Emil Cioran sarebbe semplicemente questo: “Quando un popolo ama la vita, rinuncia implicitamente alla sua continuazione”), qualcosa che spieghi lo stupore, e anche il sospetto, che proviamo nel guardare le famiglie numerose (due genitori atei di quattro figli raccontano che la prima domanda è sempre: siete molto religiosi?, siete contrari alla contraccezione?, ma loro non sono contrari a niente, nemmeno alle domande sceme: per anni avevano provato ad avere un figlio, e non succedeva, avevano deciso di non decidere niente, di non pensarci più, poi non pensandoci più lei è rimasta incinta quattro volte in dieci anni, e però “abbiamo fatto qualche figlio, non degli attentati”). Mio nonno, che aveva fatto i figli negli anni Cinquanta e poi nei Sessanta, mi diceva quando ero bambina: tu non sposarti mai eh, non fare figli, i figli sono una schiavitù, lo diceva ridendo ma un po’ serio, lui che amava andare in giro per le campagne, portarmi gatti in regalo, abbracciare gli alberi anche, e forse tornare a casa la sera, dentro un appartamento di città da cui si vedeva il fiume ma solo dalla finestra, non era sempre esaltante. Mio padre e mia madre, che studiavano a Bologna nei primi anni Settanta e avevano venticinque anni quando sono nata io, mi dicevano ugualmente: non fare figli, non sposarti, e intanto si tiravano qualche piatto, mia madre ogni tanto lanciava delle magliette dentro una borsa di pelle e mi diceva mettiti la giacca che ce ne andiamo, ma non andavamo mai via davvero, e nel frattempo hanno fatto mia sorella, e le dicevano: mi raccomando, non fare figli. Non li abbiamo mai ascoltati, né loro né mio nonno, non abbiamo mai pensato che volessero dire qualcosa di terribile come: peccato che siete nate, piccole e pesanti catene alla caviglia che hanno impedito ai genitori di realizzarsi e andare liberi in giro per il mondo, e sono sicura di no, era solo un modo di sentirsi un po’ speciali, disincantati, ideologici negli anni in cui fare figli era totalmente ovvio ma cominciava a sbattere contro le esigenze di libertà femminile, contro “la fine della dedizione assoluta”, come l’ha definita la filosofa femminista francese Elisabeth Badinter in un suo libro importante, “L’amore in più, storia dell’amore materno” (Fandango), e a un certo punto, dentro le lotte e le sigarette e la ribellione, quasi tutte le ragazze indossavano dei camicioni sotto cui si intravedeva la pancia (mia nonna nemmeno si era accorta di essere incinta, andava a insegnare in una scuola di campagna in motorino, con il cane che le correva dietro, però un giorno non le si chiudeva più la gonna e allora le è venuto un dubbio). Loro prima di noi non erano più ricchi, più preparati, più sicuri, ben serviti, mantenuti o accuditi dallo stato, i loro genitori avevano visto la guerra, avuto fame e paura e tormento, probabilmente non erano nemmeno più solidamente innamorati, erano però più disposti a fare spazio, anche a farlo prima, ad abbandonarsi con fiducia incosciente a una promessa di futuro che sarebbe arrivato sotto forma di bambino rosa e di nuove paure di povertà e sofferenza, ma un bambino in fondo non aveva bisogno di chissà quale dispiegamento di forze e di oggetti e allora, come ha scritto Natalia Ginzburg in un racconto del 1962, “baderò che i miei figli abbiano i piedi sempre asciutti e caldi, perché so che così dev’essere se appena è possibile, almeno nell’infanzia. Forse anzi per imparare poi a camminare con le scarpe rotte, è bene avere i piedi asciutti e caldi quando si è bambini”.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.