Enzo Ferrari esordì nel 1920 alla guida di un’Alfa Romeo. Quando nel 1951 la Scuderia Ferrari vinse la sua prima gara di F1ai danni dell’Alfa disse: “Ho ucciso mia madre”

Non solo Ferrari

Stefano Cingolani
Marchionne ora sogna di portare in Formula 1 l’eroica Alfa. Che fu la madre del Cavallino rampante. Per le due case storie parallele, divergenti e poi convergenti, storie di quando l’Italia era una potenza industriale (la quinta).

Ferrari? Non solo. Nel cuore e nella mente di Sergio Marchionne corre anche l’Alfa Romeo. Il ritorno sui circuiti della Formula 1 con una propria scuderia forse non è imminente, ma il Biscione striscia già accanto al Cavallino rampante. Intanto, il marchio dell’azienda milanese è comparso sulla Ferrari nel Grand Prix d’Australia nel 2015 e poi quest’anno debutta una casa americana, la Haas, che avrà il pieno supporto tecnico di Maranello, motori compresi. Ma l’idea è di rifornirla con nuovi propulsori Alfa, una volta che la Giulia verrà finalmente messa sul mercato e comincerà anche il rilancio della Maserati. Un ingresso per interposta persona, insomma, perché procedere passo dopo passo è quasi inevitabile. Le corse sono fondamentali, sono laboratori a cielo aperto, formidabili tecnicamente quanto spettacolari, però sono costosissime.

 

L’Alfa in pista, a competere di nuovo, rievoca tempi eroici. Enzo Ferrari cominciò proprio alla guida di un’Alfa Romeo, una di quelle al cui cospetto Henry Ford si levava il cappello. Poi ne ha risucchiato quasi tutto, compreso il colore rosso. Per qualche tempo le due case hanno continuato a sfidarsi finché Ferrari non è caduta nelle braccia della Fiat e l’Alfa è stata trascinata nel gorgo delle partecipazioni statali e venduta nel 1986 alla grande nemica. Storie parallele, divergenti e poi convergenti, storie di quando l’Italia era una potenza industriale (la quinta).

 

E pensare che la Fiat aveva rifiutato di assumere il giovane Enzo Ferrari, gettandolo sull’orlo della disperazione. Racconterà egli stesso in tarda età: “Era l’inverno 1918-1919, rigidissimo, lo ricordo con grande pena. Mi ritrovai per strada, i vestiti mi si gelavano addosso. Attraversando il Parco del Valentino, dopo aver spazzato la neve con la mano, mi lasciai cadere su una panchina. Ero solo, mio padre e mio fratello non c’erano più. Lo sconforto mi vinse e piansi”. L’idea che il Drake (come sir Francis, il famoso corsaro della regina Elisabetta, ma anche come drago) possa giacere sul lastrico è lontana dall’immagine che ha contribuito ad alimentare, anche grazie a biografie sportivo-militaresche tra le quali spicca quella di Enzo Biagi. Comunque non si perse d’animo, prese a fare lo sfasciacarrozze in una officina che recuperava vecchie auto, le smontava e le ricomponeva. A forza di collaudarle gli venne voglia di correre e, dopo una sfortunata Targa Florio nel corso della quale fu bloccato dalle manifestazioni di protesta (il diciannovismo si faceva sentire in Sicilia) nel 1920 esordì alla guida dell’Alfa Romeo. Ci vorranno altri nove anni poi riuscirà ad aprire una propria scuderia pur sempre collegata all’Alfa.

 

 

La Anonima Lombarda Fabbrica Automobili era diventata Alfa Romeo nel 1918 quando venne presa dall’ingegner Nicola Romeo da Sant’Antimo, piccolo comune del napoletano. Fu un esempio di management buyout (anche se allora non si chiamava così) perché Romeo era il direttore dello stabilimento del Portello, nominato nel 1915 per convertire l’azienda in produzioni belliche. Poi, a conflitto finito, l’ingegnere non solo tornò alle automobili, ma prese il controllo dell’azienda. E i quattrini? Ci pensava la Banca di Sconto (nulla di nuovo sotto il sole dell’italico capitalismo) che però fallì nel 1921, venne salvata dalla Banca d’Italia insieme a tutte le imprese controllate, attraverso la sua emanazione, la Banca nazionale di credito. Siccome, lo diceva sempre Enrico Cuccia, vale “l’articolo quinto, cioè chi ha i soldi ha vinto”, anche il baffutissimo Romeo venne estromesso nel 1925 mentre l’Alfa cominciava a mietere i primi successi sportivi, soprattutto grazie al progettista Vittorio Jano che Enzo Ferrari aveva strappato alla Fiat.

 

Gli allori non riuscirono a rimettere in sesto i conti della società che nel 1933 venne rilevata dall’Iri. Fu Mussolini in persona a incaricare Ugo Gobbato di rilanciare l’azienda. Il Duce viaggiava sulla più istituzionale Lancia, aveva con la Fiat di Giovanni Agnelli un rapporto altalenante tra burrasca e volontà di potenza, ma voleva assolutamente che le vittorie del Biscione fossero tante medaglie sul petto del regime soprattutto in quegli anni Trenta in cui la 6C e la 8C divoravano le polverose strade. Antonio Ascari, Giuseppe Campari e Tazio Nuvolari erano i tre moschettieri che il mondo invidiava all’Italia “proletaria e fascista”.

 

 

La crisi aveva sospeso per quattro anni, dal 1933 al 1937, la partecipazione alle corse. Poco dopo il rientro, quando ormai incombe il Secondo conflitto mondiale, Ferrari si mette in proprio con la Auto Avio Costruzioni di Modena che nel 1950 diventa la Scuderia Ferrari con l’emblema del Cavallino rampante che era appartenuto a Francesco Baracca, l’asso dell’aviazione nella Prima guerra mondiale. Un anno dopo, arriva la prima vittoria in Formula 1 al Gran Premio di Gran Bretagna, sbaragliando proprio lo squadrone dell’Alfa Romeo. “Piansi di gioia – ricorderà ancora il tenero Drago – ma mescolai alle lacrime di entusiasmo lacrime di dolore perché in quel giorno pensai: ho ucciso mia madre”. La casa del Biscione vinse il mondiale, ma l’anno dopo mollò le corse. Conquistò il titolo la Ferrari (alla guida c’era Ascari), il primo di una lunga serie: 15 piloti e 16 costruttori.

 

Ma la legge bronzea del profitto vuole che madre e figlio finiscano entrambi nelle braccia degli Agnelli. Per la Ferrari la data fatidica è il 1969 mentre scoppia l’autunno caldo. Il Drake è alla frutta, le auto di lusso vendute non bastano certo a finanziare le corse. Intanto la Fiat, saldamente nelle mani dei due fratelli Gianni e Umberto, dopo l’uscita di scena e la morte di Vittorio Valletta, è impegnata in una espansione nell’auto (acquista l’Autobianchi e la Lancia da Carlo Pesenti pagandola una lira) e un po’ ovunque, dalle costruzioni edili ai giornali, all’insegna della diversificazione, il mantra che si recita quando vanno male gli affari nel mestiere principale.

 

L’Alfa, dopo alterne vicende finanziarie e successi produttivi come la mitica Duetto, la Giulia, la Giulietta, finisce sommersa dai debiti e la Finmeccanica la vende nel 1986. Si fa avanti la Ford. Apriti cielo, il sistema Italia preferisce Agnelli, a cominciare dal governo guidato dal socialista Bettino Craxi per finire con Romano Prodi presidente dell’Iri. La Fiat sborsa mille e 50 miliardi di lire in cinque anni, ma si prende tutto, debiti compresi. La Ford può pagare subito, però vuole che l’Iri resti nell’azionariato attraverso Finmeccanica. E’ storia nota ed è ormai ammesso da tutti, anche dagli uomini di Torino, che il marchio del Biscione non ha trovato nella Fiat la sua casa ideale. Al contrario del Cavallino rampante. La chiave del successo è nell’estro e nel lustro: l’estro industriale del fondatore e l’autonomia che il Drake ha saputo mantenere fino alla morte, arrivata nel 1988, ma anche il lustro al quale teneva l’Avvocato che si definiva il primo dei tifosi, quasi come per la Juventus.

 

La drammatica crisi in cui precipita la Fiat nella prima metà degli anni Novanta e poi con la morte dei due fratelli Agnelli tra il 2003 e il 2004, lambisce soltanto la Ferrari nella quale è tornato nel 1991 come presidente e amministratore delegato un fido esponente della famiglia (sia pur acquisito), Luca Cordero di Montezemolo. E’ il periodo d’oro di Jean Todt e Michael Schumacher, che replica le vittorie di vent’anni prima con Niki Lauda. Nel 2006 Montezemolo lascia la guida operativa e nel 2014 anche la presidenza nelle mani di Sergio Marchionne che non lo ha mai amato; lo ha accettato al vertice della Fiat nel 2004 mentre a lui toccava il ruolo di top manager solo per deferenza nei confronti degli Agnelli, in particolare le sorelle dell’Avvocato che vedevano in “Luchino” il pegno della continuità familiare, data la giovane età di Jaki Elkann.

 

Adesso Marchionne ha deposto il gioiello nello scrigno del sovrano. La Ferrari è nel mondo dell’auto l’equivalente del diamante Koh-i-Noor, la “montagna di luce”. L’uscita dalla Fiat-Chrysler è un enorme vantaggio per i suoi azionisti, ma non per il gruppo automobilistico italo-americano, anche se ne riduce un po’ i debiti (circa due miliardi di euro). E’ un fatto che le azioni Fca non vadano bene (a marzo un pezzo arrivava a dieci euro ora viaggia su 7,59) nonostante il buon risultato di vendite; gli analisti di Borsa sono convinti che siano “sottoperformanti” (come dicono con orrendo anglicismo) cioè potrebbero fare meglio, molto meglio. Quotata a Milano lunedì 4 gennaio, la Ferrari vale 8,4 miliardi di euro. Ma gli investitori hanno penalizzato sia Exor sia Fca.

 

Marchionne resta al vertice, però sulla Ferrari comanderà la finanziaria guidata da John “Jaki” Elkann che ha il 23,5 per cento del capitale e il 33,4 per cento dei diritti di voto, senza contare il 10 per cento di Piero Ferrari (il figlio di Enzo) legato da un patto di sindacato. Nulla fa pensare che ci siano divergenze tra il manager e l’azionista, tuttavia in qualche modo Super Sergio rientra nei ranghi, come hanno sottolineato i fiatologi italiani e stranieri. Adesso dovrà fare il car guy (così ha scritto l’agenzia Bloomberg). Si deve occupare degli ambiziosi obiettivi produttivi di Fca: sette milioni di auto vendute nel 2018, mentre il 2015 si è chiuso a 4,8 milioni. E deve portare a casa un’alleanza annunciata come inevitabile nell’aprile scorso con il documento che ha fatto scalpore fin dal titolo: “Confessions of a Capital Junkie” (Confessioni di un drogato di capitale). Anche in questo caso, sarà Elkann a prendere in mano il dossier, lo ha già fatto capire, tuttavia spetta a Marchionne ridurre i debiti, aumentare la produzione, sostenere i profitti e mantenere Fca al massimo della forma. E Ferrari?

 

Da quando ha defenestrato Montezemolo, Super Sergio ha trascorso molto tempo a Maranello, ha messo alla guida un uomo di fiducia come Maurizio Arrivabene che ha esperienza soprattutto nel marketing (viene dalla Philip Morris di Losanna) anche se in Ferrari è di famiglia: la moglie Stefania Boschi lavora all’ufficio stampa e la Marlboro sponsorizza la scuderia. Marchionne si è gettato a corpo morto con l’entusiasmo di un neofita e con tutta la sua proverbiale energia. Le cose sono migliorate dopo i sette anni di vacche magrissime, ma il bicchiere è ancora mezzo vuoto e il salvatore della Fiat non ha vinto nessun campionato mondiale, un risultato che gli manca e si sente.

 

Se è vero che la strategia della Exor è di creare attorno al marchio Ferrari un polo del lusso, come ha fatto a suo tempo Bernard Arnault con Louis Vuitton, è anche vero che la Rossa non è una valigia, ma una macchina da corsa, quindi deve competere e deve vincere. Ferrari ha glamour, ed è simpatica, piace anche se perde, a differenza della Mercedes che ha bisogno del successo per attirare le folle (parola dello zar Bernie Ecclestone). Nel 2014, per la seconda volta consecutiva, il marchio del Cavallino viene riconosciuto come brand più influente al mondo in assoluto (superando di nuovo Coca-Cola) secondo l’annuale classifica di Brand-finance, con una valutazione che s’aggira sui quattro miliardi di dollari. Ma per alimentarsi ha fame di vittorie, perché alla fine della fiera, quanto vale il blasone di una eterna seconda?

 

Su Montezemolo è calata la damnatio memoriae, lui se ne è risentito e non ha mancato di farlo sapere attraverso la sua vasta rete mediatica. Una ferita all’orgoglio, un destino per molti versi ingiusto, perché ha vinto molto ai tempi di Niki Lauda e Michael Schumacher, anche se dopo non ne ha più azzeccata una. Che cosa non va in Ferrari? Secondo Mauro Forghieri, mostro sacro della Formula 1, l’ingegnere modenese sempre al fianco di Enzo Ferrari dal 1963, quando vinse il primo di 17 titoli mondiali tra F1 e sport prototipi, la vera differenza la fa il motore. Quello della Mercedes è superiore, mentre la Ferrari ha avuto problemi a gestire “quella brutta bestia che è l’iniezione diretta nei propulsori sovralimentati”. Nel 2014 non riusciva nemmeno ad avvicinarsi alla Mercedes soprattutto per la scarsa efficienza della parte ibrida che non recuperava abbastanza potenza dai gas di scarico. C’era poi anche un problema di trazione. Molti miglioramenti sono stati apportati, in particolare al motore, ma ci vorrà ancora tempo. Le prime gare del 2015 avevano fatto ben sperare, poi il gap con la Mercedes è di nuovo aumentato. Non solo, si sono fatte avanti anche le Williams. Il nuovo direttore tecnico James Allison finora ha corretto il progetto dei suoi predecessori, quest’inverno ha cominciato a mettere mano al suo. Secondo le indiscrezioni, la nuova vettura ha recuperato mezzo secondo alla diretta concorrente tedesca: per vincere, non basta anche perché gli altri non stanno fermi.

 

Forghieri apprezza la svolta al vertice, a cominciare dal team tecnico per finire alla coppia di piloti Vettel-Raikkonen, voluta da Marchionne, ed è convinto che gran parte dei guai degli anni scorsi è colpa di Fernando Alonso ingaggiato da Montezemolo insieme alla sponsorizzazione del Banco Santander di Emilio Botín, con un pacchetto unico. “E’ un gran pilota, non c’è dubbio, ma dovunque è andato non ha mai saputo portare il buonumore. Con Nicholas Tombazis e Pat Fry avevano creato una squadra nella squadra, finché non ha cominciato a gettare tutta la colpa sui tecnici. Mentre chi sta al volante resta pur sempre l’uomo chiave, è lui il solo a conoscere davvero la macchina”.

 

Anche l’ingegnere ottantenne ha una parte del cuore che batte con l’Alfa Romeo. Il padre Reclus era un tecnico al seguito di Luigi Bazzi che nel 1935 aveva progettato l’Alfa Bimotore facendo man bassa di vittorie con al volante Tazio Nuvolari. Mentre tra i suoi maestri un ruolo di primo piano spetta a Vittorio Jano che ha realizzato le migliori Alfa di sempre. Il ritorno in F1, insomma, fa sognare il mondo dei motori. E può dare a Marchionne maggiori margini di manovra, oltre che più potere nel circo dove schiocca la frusta, a 85 anni suonati, quel bel tomo di Bernard Charles Ecclestone, un piccoletto biancochiomato, superenergetico e spietato. “Bernie deve trovare un suo successore”, ha detto Marchionne coprendo di lodi il despota della F1. E se fosse questo il futuro di Sergio dopo il 2018, quando, secondo i reiterati annunci, lascerà Fiat-Chrysler e John Elkann al loro diverso destino?