Altre banche a rischio oltre alle quattro commissariate (Etruria, Ferrara, Pesaro e Chieti) e alle popolari oggi nel mirino della Banca d’Italia

Banche grandi, giochi grandi

Stefano Cingolani
Altro che Etruria. Ecco le operazioni ad alto rischio tentate spesso e volentieri anche dai grossi istituti

Scena prima interno giorno. Un Bed & Breakfast tra Siena e Arezzo all’ora di colazione. Entra un omone piacente che parla con un amico: “E bisogna essere proprio un grullo per prendersi queste schifezze: opzioni subordinate… e che non si sa come vanno a finire?”. Gli va incontro la signora Lina che gestisce il B & B: “Il caffellatte l’è pronto, te l’offre questa grullina qua”. “O Lina anche te…”. “Si c’ho perso 300 euro, non è poi tanto; ma ci ho guadagnato anche, perché se prendevo le obbligazioni mi estendevano il prestito, e poi la carta di credito gratis, il telefonino”. “Specchietti pe’ le allodole, anzi pe’ i polli”. “Forse, ma va’ a pensare che fallisse, sembrava ben protetta, siamo in un ventre di vacca, diceva il promotore finanziario che gliel’aveva detto il direttore della filiale…”.

 

Tutti gabbati canterebbe Falstaff; anzi tutti truffati? La Banca dell’Etruria ha preso per il naso i suoi clienti, ignari risparmiatori? Anche, ma non solo. Le cose sono più complicate, perché esistevano delle contropartite, piccoli vantaggi per i piccoli, grandi vantaggi per gli amici degli amici. Le quattro banche commissariate (Etruria, Ferrara, Pesaro e Chieti) o le popolari oggi nel mirino della Banca d’Italia (quella di Vicenza e Veneto banca), non sono le sole. Intanto, secondo la vigilanza di Via Nazionale ce ne sono altre 12 a rischio crac nelle quali a partire da ieri in caso di salvataggio si applica il bail-in, cioè pagano azionisti e investitori. Quel gioco di scambio che oggi le ha messe in crisi, è stato l’anima di un modello creditizio che sembrava a rischio zero.

 

I clienti-soci godono di condizioni di favore rispetto agli altri. Basta una brochure per conoscere i vantaggi più immediati: affidamento in conto corrente a condizioni agevolate, riduzione del tasso sui prestiti personali, spese di istruttoria ridotte o azzerate sui mutui, agevolazioni sul leasing strumentale, coperture assicurative, servizi extrabancari. Alcune banche offrono benefici mirati a chi ha partecipato a una data assemblea, come sconti sul conto corrente o sul conto titoli. Non occorre grande familiarità con la finanza per capire che l’acquisto di azioni e l’iscrizione a libro soci conviene molto anche perché i titoli della banca possono garantire il fido stesso, con un meccanismo che tutela anche gli altri soci dell’istituto.

 

Tutto ciò è più che legittimo, è previsto dagli statuti, fa parte della natura di queste macchine del consenso. Dai loro cento ingranaggi cola il grasso; chi è potente ne riceve di più, ma ce n’era un po’ per tutti: associazioni parasindacali di dipendenti come gli ex Amici della Bipiemme (Banca Popolare di Milano), comitati-partito come la Bper Futura di Gianpiero Samorì, l’avvocato modenese che voleva sfidare Silvio Berlusconi con i Moderati in rivoluzione e ha cercato di scalare la Popolare dell’Emilia Romagna, oppure formazioni radicate sul territorio, per esempio l’Associazione Banca Lombarda e Piemontese e gli Amici di Ubi Banca. Proprio queste ultime sono cadute sotto la mannaia della procura di Bergamo che ha ravvisato una sorta di patto occulto, anche se in una cooperativa simili accordi sono difficili da dimostrare. Simili logge di azionisti, onnipresenti nelle popolari, esercitano un’influenza, diretta o indiretta, sui destini delle banche di riferimento.

 

E che dire di manager e amministratori con i loro stipendi gonfiati e i paracadute dorati (la Banca dell’Etruria ha concesso 335 mila euro ai dipendenti in pensione a fronte di più o meno vere collaborazioni)? Ci sono poi i clienti eccellenti, i vip agganciati, i politici finanziati direttamente o per via traversa (o meglio creditizia). Così dalla banca di Ferrara spunta persino Dario Franceschini. Il terzo livello, senza dubbio il più importante, riguarda gli amici nel consiglio di amministrazione. Il padre della Boschi è solo un esempio piccolo, locale, ma basta scorrere i nomi cooptati anche nelle grandi banche quotate in Borsa, per avere un’idea di come funziona quello che gli inglesi chiamano “crony capitalism”, quel “capitalismo di relazione” difeso da Giovanni Bazoli (un faro per i lupetti della finanza cattolica), con argomenti alti che, quando scendono in basso, diventano la variante bancaria del vecchio clientelismo.

 

Il vantaggio di avere una banca o quanto meno una poltrona in banca, è strettamente legato al mestiere principale: fare credito. Il favore non è tanto pagare interessi inferiori a quelli di mercato, ma non richiedere indietro i prestiti scrivendo in bilancio che prima o poi verranno restituiti. Prendiamo le ispezioni condotte dalla Vigilanza nella Banca dell’Etruria. I funzionari di Via Nazionale trovano “significative carenze nella gestione documentale delle partite deteriorate”. L’ internal audit ha sottoposto a verifica un campione di sofferenze di importo inferiore a 50mila euro e di “incagli”. E’ emerso che, “con riferimento alle sofferenze, 307 posizioni su un totale di 539 non risultavano allineate alla politica aziendale di svalutazione in vigore fino al 29 dicembre 2014; per quel che riguarda gli incagli, 53 rapporti su 264 erano da riclassificare a sofferenza mentre, con riguardo alle rettifiche di valore, il 37 per cento non risultava allineato alle regole interne”. Il linguaggio è ostico e burocratico, ma in italiano corrente vuol dire che gli amministratori continuavano a fare il bello e il cattivo tempo, nonostante la stessa banca centrale avesse messo in evidenza i punti neri del bilancio invitando a recuperare i prestiti rischiosi.

 

La Banca d’Italia punta il dito contro la mancanza di qualsiasi verbalizzazione dell’attività della “Commissione informale” di cui facevano parte il presidente Lorenzo Rosi e i vice presidenti Alfredo Berni e Pierluigi Boschi. Altro che informale, era il centro reale di decisioni poi fatte passare all’interno del consiglio di amministrazione che – scrivono gli ispettori – “ha per lo più ratificato scelte e decisioni che sono state assunte in altre sedi”.

 

L’opacità, il gioco dei favori, i rapporti sulfurei anche se talvolta persino necessari, non appartengono solo al piccolo mondo antico della provincia. Prendiamo la prima banca italiana, Unicredit, e l’inchiesta che ha coinvolto il suo vicepresidente Fabrizio Palenzona. I magistrati inquirenti di Firenze hanno stretto una morsa intorno all’imprenditore Andrea Bulgarella, perché lo ritengono vicino al boss latitante Matteo Messina Denaro. Secondo i grandi inquisitori, Palenzona avrebbe incontrato Bulgarella e lo avrebbe aiutato a gestire senza danni la sua ingente esposizione bancaria (60 milioni di euro). In più i pm hanno messo nel mirino Roberto Mercuri, lo storico braccio destro di Palenzona, anche lui indagato, che ha un ufficio nel grattacielo milanese della banca, ma prende lo stipendio dagli Aeroporti di Roma, società della quale Palenzona è presidente.

 

I magistrati parlano di pressioni esercitate su funzionari e dirigenti Unicredit a ogni livello, per arrivare alla ristrutturazione del debito dell’azienda di costruzioni nata a Trapani nel 1902 e poi trasferitasi in quel di Pisa “per sfuggire alla mafia”. Contatti, telefonate, email, incontri al vertice, conference call per sistemare i conti di un gruppo inaffidabile, a detta degli stessi funzionari di Unicredit. Ne escono le soluzioni più strampalate. Dalle intercettazioni risulta che la situazione di Bulgarella è ormai disperata. A fine 2014 in cassa non c’è liquidità nemmeno per pagare l’advisor Kpmg incaricato di redigere un nuovo piano da sottoporre alle banche, dopo che una prima versione è stata bocciata (verrà definita “carta da culo”). Il conto è sconfinato di 200 mila euro, ma spunta l’ipotesi di aumentare lo scoperto e consentire così i pagamenti.

 

Non se ne farà niente, Unicredit segue saggiamente le indicazioni di Bankitalia, e Palenzona ottiene dal tribunale del riesame che venga annullato il sequestro dei suoi documenti. Non esistono prove dei rapporti tra Bulgarella e la mafia, anche questo teorema dei magistrati inquirenti rischia di essere un colabrodo. Ma il punto non è questo, la vicenda rivela che la banca, anche la più internazionale con il suo improbabile inglese, diventa un universo discrezionale, nel quale il confine tra il chiaro e l’oscuro è un filo troppo sottile per essere tirato. Prima ancora che a recuperare i denari provenienti in ultima istanza dalla gente che li ha depositati, si cerca di salvare i clienti eccellenti, magari trasformando i debiti in azioni. Il progetto lo lanciò Guido Carli negli anni Settanta. Ed è passato attraverso cento prove: il salvataggio della Fiat, le varie vicende Alitalia, l’immobiliarista Zunino, fino alle aziende elettriche di De Benedetti, per citare alcuni dei casi più noti dall’inizio di questo secolo. Tutto secondo le regole, ma le regole sono in regola? Non proprio, infatti si continua a discutere sui limiti operativi da imporre alle banche ordinarie che non usano i quattrini dei soci, ma quelli affidati da risparmiatori i quali non hanno nessuna intenzione di fare gli azionisti né direttamente né indirettamente.

 

Il gioco si fa particolarmente duro se per salvare una banca o per liquidarla bisogna vendere i suoi attivi. Quando negli anni Novanta del secolo scorso si vide che il Banco di Sicilia non stava più in piedi (venne poi incorporato in Capitalia), fu messa in liquidazione la sua società (Sgas) che vantava il fior fiore dell’hotellerie isolana: il Grand Hotel Villa Igiea, il Grand Hotel et Des Palmes e Hotel Excelsior di Palermo; l’Excelsior Grand Hotel di Catania; l’Hotel Des Etrangers & Spa di Siracusa; il San Domenico Palace di Taormina. Se li aggiudicò il gruppo Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone grazie a una serie di magheggi finanziari tra i quali un mutuo dello stesso Banco di Sicilia. Con l’Acqua Marcia sommersa dai debiti, i cinque grandi alberghi sono di nuovo in vendita e su di loro ha messo gli occhi il fondo sovrano del Qatar, lo stesso che ha acquistato i grattacieli di Porta Nuova a Milano.

 

Anche sulla cessione delle case possedute dal fondo pensioni di Sicilcassa si è aperto un contenzioso finito in Parlamento tre anni fa. Si tratta di 52 cespiti tra Roma e la Sicilia che nel 2010 il fondo ha tentato di collocare in blocco dopo il crac della banca, ricorrendo a trattative private rimaste coperte dal segreto e affidate a Mediobanca. Sulle stranezze della gara del 2010, è stato presentato nel 2011 un esposto alla Procura della Repubblica di Palermo da parte di un consigliere del fondo pensioni. Per tirarsi fuori dai pasticci, è cambiato il consiglio di amministrazione e si è deciso di vendere gli immobili separatamente.
Gli advisor hanno dato un avviso sbagliato o forse compiacente? Tanto, trattano i compensi in anticipo e per loro va sempre bene anche quando gli affari si concludono male. Proprio Mediobanca ha stimato quanto avevano fruttato le privatizzazioni delle banche e delle imprese pubbliche negli anni Novanta ai consulenti, due terzi dei quali stranieri (si tratta di 2.100 miliardi di lire, circa un miliardo e 100 milioni di euro). Un calcolo che nasconde una certa perfidia. “Noi sul Britannia non c’eravamo”, disse Vincenzo Maranghi più per sfida che con rammarico. Sul mitico yacht della regina Elisabetta il 2 giugno del 1992, quando Mario Draghi allora direttore generale del Tesoro presentò la grande smobilitazione del capitalismo di stato, erano state invitate per lo più banche d’affari anglo-americane, rappresentate in Italia da brillanti finanzieri con solidi legami politici, a destra, ma anche a sinistra, con Romano Prodi o con la cosiddetta merchant bank di Massimo D’Alema. Veleni, cattiverie? Forse, ma soprattutto crony capitalism che in banca trova il suo brodo di coltura.

 

[**Video_box_2**]Le relazioni hanno un ruolo determinante ogni volta che si decidono fusioni, acquisizioni, nuovi assetti del capitale. E’ accaduto con la nascita di Intesa Sanpaolo benedetta dal governo Prodi. E’ successo in modo eclatante con Unicredit e con il Monte dei Paschi di Siena. Tra il settembre e l’ottobre del 2008, subito dopo il fallimento della Lehman Brothers, la speculazione mette sotto tiro Unicredit. Mediobanca, allora presieduta da Cesare Geronzi, studia una “pazza idea” per blindare l’assetto della prima banca italiana: una fusione con le Assicurazioni Generali e con la stessa banca d’affari. Una “operazione di sistema”, ma gli equilibri proprietari sarebbero cambiati (tra gli azionisti forti c’erano Vincent Bolloré, la Pirelli di Tronchetti Provera che controllava ancora Telecom Italia o la stessa Fininvest di Berlusconi allora presidente del Consiglio). Non se ne fa nulla, prevalgono le fondazioni che s’impegnano ad aprire il portafoglio e il top manager Alessandro Profumo avvia il primo di una serie di aumenti di capitale. Nel frattempo la crisi consuma le fondazioni, costringendole a retrocedere in ordine sparso. E dalla porta principale entra lo sceicco di Abu Dhabi: Khalifa bin Zayed oggi possiede il 5 per cento attraverso il fondo Aabar e si fa curare gli interessi da Luca Montezemolo presidente di Alitalia, controllata da Etihad, la compagnia aerea dell’emirato. Un assetto che lascia molti dubbi, anche geopolitici. Quanto al Monte dei Paschi, è stato rovinato dal reticolo di rapporti eccellenti. Giuseppe Mussari voleva stare tra i grandi, ha comprato l’Antonveneta anche se non ne aveva le risorse, ha pagato un prezzo esoso al Banco di Santander di Emilio Botín che portava con sé una filiera più o meno legata all’Opus Dei, poi ha cercato di mascherare il tutto con operazioni in derivati truffaldine, trascinando con sé l’intero sistema senese.

 

Oggi c’è una nuova torta che fa gola a molti. Si tratta dei non performing loans (npl) cioè i prestiti che non verranno mai rimborsati al loro valore. In Italia ammontano almeno a 200 miliardi di euro, un quinto della massa nascosta in tutte le banche europee. In attesa che il governo faccia il suo repulisti con la bad bank, si fanno avanti gli spazzini privati come Prelios (già Milano Centrale e Pirelli Real Estate), o Davide Serra, il finanziere battistrada renziano oggi ai margini (si dice) del giglio magico. Con la monnezza dell’economia di carta si guadagna parecchio (del resto succede anche con quella ordinaria). Il denaro può puzzare, ma guai se sta fermo. Per troppo tempo è girato in un circolo chiuso, tra le mani degli amici degli amici. Chissà se anche in Italia nascerà mai un vero mercato che sarà pure il peggiore degli assetti economici possibili, salvo che finora nessuno ne ha trovato uno migliore.