Boratto per Fellini. Oltre ad aver curato la mostra in corso alla Galleria Angelica, a Roma, la figlia Marina Ceratto ha appena pubblicato il libro “Caterina Boratto, la donna che visse tre volte”

Tre volte diva

Sandra Petrignani
Caterina Boratto, dai telefoni bianchi a Fellini. Il sogno di Hollywood spezzato dalla guerra. Una mostra a Roma (ma senza i suoi cappelli). Una grazia specialissima le toglieva carne e sangue per farne un simbolo di purezza, donna angelicata, desiderio irraggiungibile.

L’altra notte ho sognato mamma che mi rimbrottava: ‘Hai messo su una mostra in mio onore e non c’è nemmeno un cappello!’”, racconta con qualche apprensione Marina Ceratto, figlia dell’attrice torinese Caterina Boratto, scomparsa a novantacinque anni cinque anni fa e di cui questo è l’anno centenario della nascita (15 marzo 1915). Marina è ferita dalla materna apparizione notturna: “Non la sognavo da tanto tempo ed ecco che ricompare per rimproverarmi!”. In effetti è quasi impossibile separare la grande Caterina del cinema italiano dai suoi maestosi cappelli. Primi fra tutti quelli larghi e ondeggianti che le volle in testa Fellini in “Giulietta degli Spiriti”, “sombreri” elegantissimi carichi di fiori e di tulle multicolore, che non passavano per le porte, ma pure la più sobria cloche che le vediamo in “Amici miei. Atto III” ha sui suoi capelli chiari e sui suoi lineamenti delicati una grazia speciale, anche se era già il 1985 e Caterina Boratto di anni ne aveva settanta (in gran parte invisibili). Poi c’è tutta la collezione di calottine, turbanti, colbacchi che non mancava di indossare ogni volta che usciva di casa, quando la si incontrava nel suo quartiere romano di sempre, i Parioli, o quando risaliva alta e regale per via del Tritone dopo aver fatto un’abituale capatina alla Rinascente di via del Corso o alla Standa di via Borgognona e andava a prendersi l’autobus, il 56 degli anni 60 e 70. L’infanzia a Torino con gli inverni rigidi e innevati erano lontanissimi, la splendida figlia di un industriale dalla grande passione per la musica, morto troppo presto, e della erede di una famiglia di commercianti in stoffe, capace di riciclarsi pellicciaia una volta rimasta vedova, era ormai una diva carismatica.

 

Chi l’ha conosciuta vecchia, racconta quanto fosse ancora, a ottant’anni, di bellezza abbagliante e ricorda la sua conversazione briosa, mai sciocca o autoriferita.

 

E allora che ne è dei suoi cappelli? Marina si dispera. Dice che non glien’è rimasto che qualche esemplare sparuto e spelacchiato, improponibile per una mostra. Il tempo passa e i cappelli si rovinano, giacciono impolverati e inservibili, o scompaiono, regalati, sottratti, dimenticati. Ma poi i cappelli c’entrano e non c’entrano: è principalmente una mostra fotografica quella che si è aperta alla Galleria Angelica di via Sant’Agostino, a Roma, mercoledì scorso, visitabile fino al 9 gennaio: “Caterina Boratto, la donna che visse tre volte”, per la cura della figlia Marina, appunto, e di suo marito, il linguista e semiologo Fabio Sposini. Anche se qualche costume di scena c’è, messo a disposizione dalla Sartoria Tirelli e dalla Maison Gattinoni: gli abiti del film storico “Il Mondo Nuovo” di Ettore Scola del 1982; quello bianco leggerissimo che in “Fellini 8 e mezzo” (1963) la rendeva un’apparizione, una dea; quello teatrale, nero e argento, dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Giuseppe Patroni Griffi del 1988, in cui interpretò il ruolo di Madama Pace. Elegantissimi i due Gattinoni, uno nero, l’altro verde acqua che Caterina ordinò senza mai passare a ritirarli, chissà perché. Forse perché non erano viola e lilla, i colori che lei adorava. Sì, proprio i colori che a teatro gli attori evitano come la peste sostenendo che portano sfortuna. Il suo grande amico Vittorio De Sica, superstiziosissimo, l’accusava scherzando che se loro due, Vittorio e Caterina, “si erano ridotti così” la ragione andava cercata proprio in quell’ostinarsi di lei a vestire di viola. E “si erano ridotti così” perchè avevano accettato di girare insieme un filmetto da niente, buono solo a far ridere. Era il 1938 e il film s’intitolava “Hanno rapito un uomo” (la regia era di Gennaro Righelli), una storia spumeggiante destinata col tempo a essere rivalutata, in cui la Boratto cantava. Aveva una bella voce da mezzo soprano leggero, ma la rigidezza di un’educanda mista a una grazia specialissima che le toglieva carne e sangue per farne un simbolo di purezza, donna angelicata, desiderio irraggiungibile. Non ci sono cappelli alla mostra, ma c’è in compenso un oggetto affascinante, di quelli che oggi non si usano proprio più: un prezioso portacipria, regalo di Giulietta Masina, che di Boratto gelosa non fu mai. Nemmeno l’eterno innamorato di tutte le donne, Federico, riusciva a desiderare nella concretezza della carne, la sovrumana bellezza dell’attrice torinese.

 

Dopo “Hanno rapito un uomo”, Caterina si apprestava a partire per Hollywood. Vestita di viola o no, aveva avuto subito al primo film il successo internazionale nella parte della giovane Paola accanto al leggendario Tito Schipa in “Vivere!” di Guido Brignone. Schipa s’era innamorato perdutamente di lei e incantava le folle con le canzoni del film, “Vivere” e “Torna piccina”: “Vivere, senza malinconia. / Vivere, senza più gelosia… / Ridere, sempre così giocando. / Ridere, delle follie del mondo”. La trama raccontava della figlia di un celebre tenore, molto poco paterno, che si lasciava sedurre da uno scapestrato e scappava con lui rischiando la vita in un incidente automobilistico. Il padre, tornato consapevole delle proprie responsabilità e affranto per la paura di perderla, le cantava attraverso la radio: “Torna piccina mia, torna dal tuo papà… / torna che il tuo papà la ninna-nanna, ancora, ti canterà”. Col suo metro e settantacinque d’altezza, Caterina Boratto non era esattamente “piccina”, ma – si sa – al cinema vince l’illusione e l’illusione che la sua immagine eterea e perfetta, algida e statuaria sapeva evocare mandò in visibilio anche il duro ambiente hollywoodiano. La misero sotto contratto per due anni per prepararla a un debutto che sarebbe stato planetario: lezioni di inglese, di dizione, di recitazione, di canto, e intanto feste, follie, divertimento, incroci, innamoramenti, amicizie con i divi più inaccostabili del momento da Spenser Tracy a Marlene Dietrich, da Clark Gable a Joan Crawford e con scrittori che ancora non sapevano cosa avrebbero rappresentato per i lettori di mezzo mondo di lì a poco: Hemingway, Scott Fitzgerald, Dorothy Parker.

 

In America però non farà in tempo a mantenere le promesse che lo star-system più oleato della terra aveva imbandito per lei. La guerra s’incarica d’interromperne il sogno. Caterina non ce la fa a restare lontana dai suoi in pericolo, a restare avvolta in una nuvola rosa, mentre i suoi fratelli rischiano la vita, mentre Torino viene pesantemente bombardata. In modo pericoloso e rocambolesco torna in patria e qui comincia la sua seconda vita, quella di un’eroina da romanzo drammatico in ansia costante per le sorti di un fratello partigiano, mentre l’altro veniva ucciso dai militari tedeschi nell’eccidio di Cefalonia, dopo il “tradimento” italiano dell’8 settembre. Si era intanto innamorata sul serio (e per sempre, ha raccontato) di un aviatore eroico, il bellissimo conte Guido Guidi – e qui si entra in un romanzo di Liala – morto in un incidente aereo durante i conflitti. “Sì, lo ha rimpianto per tutta la vita”, conferma Marina Ceratto, “per lei era l’uomo del destino. Forse l’ha mitizzato; forse, se fosse tornato dalla guerra e si fossero potuti amare, le cose non sarebbero andate come in un sogno. Mamma aveva la crudeltà delle troppo belle. Mi raccontava che lo faceva aspettare ore nella neve per mettere alla prova il suo affetto!”. Marina dice anche, con un po’ di imbarazzo, che la vita sessuale di sua madre è per lei un mistero. Ha il sospetto che soffrisse di una qualche forma di frigidità e che avesse avuto in realtà molti meno uomini di quelli che le furono attribuiti. La storia con Schipa, per dire. Non si trattò mai di amore ricambiato. Il grande tenore fu molto innamorato di Caterina, per sette anni la prese sotto la sua ala, la indirizzò, la promosse. “Si era in qualche modo impossessato di lei, ma non ne fu mai riamato. E mio padre raccontava quanto gli era stato lungo e difficile conquistarla…”.

 

Si erano conosciuti giovanissimi, quando lei a Torino gli capitava in casa come “fattorina” della pellicceria materna. Sì, la bella Caterina, che studiava canto e suonava il pianoforte, a tempo perso aiutava sua madre e portava a domicilio le pellicce acquistate dalle gran dame della città. Una di loro era la moglie del costruttore Martino Ceratto, abitava in una palazzina Liberty in via Galliano, ricco quartiere della Crocetta. Ad aprirle la porta veniva sempre il figlio dei Ceratto, Armando, “bello e bruno”, che si era innamorato di lei al primo sguardo, ma solo dopo molti anni riuscì a diventarne il marito quando, morto Guidi, Caterina andò a curarsi, per una fortissima depressione e per sfuggire ai tedeschi che non le perdonavano il fratello partigiano, nella sua lussuosissima clinica, la Sanatrix, sulle colline torinesi. Armando era un ingegnere, ricchissimo, colto e molto determinato.

 

[**Video_box_2**]Eccolo in uno dei ventiquattro pannelli della mostra che documentano la vita della diva e della donna, foto di scena e foto familiari. E’ davvero bello e bruno, con uno sguardo molto dolce e il volto tondeggiante. Mentre in un’altra foto Guido Guidi ha il profilo di un antico romano, sotto il cappello militare a visiera. Dicono che insieme, Guido e Caterina, fossero di una bellezza insostenibile. In un’altra foto lo sfortunato pilota appare a braccetto con Vittorio De Sica, sigaretta in bocca entrambi, alti, fatali, tenebrosissimi. Nel ’44, però, Boratto decide di chiudere il lutto (anche se, in parte, non lo farà mai) e sposa Armando, l’antico amico di giovinezza, che si presenta stavolta nel ruolo del salvatore, e non solo suo. Armando partecipa alla Resistenza, la sua clinica diventa rifugio per partigiani ed ebrei. E’ un miliardario dal cuore generoso, un imprenditore dalle idee innovative alla Adriano Olivetti che dilapiderà capitali in imprese impossibili. Ma ha un’idea tradizionale della famiglia e trasforma Caterina nella moglie ideale di un grande uomo d’affari: basta col cinema e simili frivolezze. E allora Caterina diventa (terza incarnazione) la regina di un castello, quello della prestigiosa, mastodontica clinica di fama internazionale dei Ceratto, dove vanno a curarsi i potenti e le celebrity dell’intero pianeta. E, come una regina, mette al mondo due figli, una femmina e un maschio, Marina e Paolo.

 

“Una regalità completa” (Daniela Piazza editore) s’intitola non a caso il libro illustrato in cui il figlio Paolo Ceratto, con Franco Prono, ha raccolto i giudizi dei tanti registi che hanno lavorato con la madre e i loro vezzi con lei: Pasolini non le faceva mai mancare le rose, Fellini la riempiva di meravigliose azalee. E se Fellini amava chiamarla “il mio confettone rosa”, era meno affettuosa Anna Magnani che la definì, nel suo stile inconfondibile, “carciofona”. Il giudizio si trova nel libro appena uscito “Caterina Boratto, la donna che visse tre volte”, di Marina Ceratto (AE/Edizioni Sabinae, 300 pagine, 18 euro): le tre vite appunto: “diva, moglie alto-borghese, donna impegnata dal cuore grande e generoso”.

 

Rimasta vedova, tornò al cinema alla grande: Fellini, ancora lui, incontrandola nei pressi di piazza San Silvestro, la riconobbe e la volle subito in “Otto e mezzo”. Da allora ha lavorato instancabilmente, per il cinema come per la tv, per Pier Paolo Pasolini (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”) come per la più leggera serie televisiva (“Villa Arzilla”). Racconta Marina Ceratto che, per sostenere la dura parte che il regista aveva pensato per lei, la sadica signora Castelli, che racconta nei dettagli, volgare e compiaciuta, le varianti di orrende torture riservate alla schiera di giovani vittime, Caterina ricorse, astemia com’era, all’aiuto dell’alcool: due bicchierini di Amaro Cora! Era il 1975, l’attrice aveva sessant’anni e il viso liscio, senza aiuto di bisturi, di una bellissima quarantenne dalla pelle risplendente come accesa di luce propria. Era proprio la grana unica della sua epidermide, probabilmente, a darle quel particolare fascino angelico, insieme ai sottili capelli molto biondi e agli occhi che potevano passare dal celeste al viola, come notò Fellini, adattandole fiori colorati sui famosi cappelli perché la sfumatura giusta le si riversasse nello sguardo.

 

Si è spenta dopo lunghi anni di malattia e invalidità, accudita dalla figlia, nel settembre del 2010, senza che la sua tempra, forte e spensierata, venisse intaccata. Come Rossella O’Hara e il suo celebre motto “Domani è un altro giorno”, anche Caterina Boratto, nei frangenti gravi della lunga, fiabesca esistenza sapeva reagire con spavalda leggerezza, e la frase cui ricorreva più spesso non avrebbe sfigurato in “Via col vento”: “Perché devo soffrire ora? Soffrirò domani!”.

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