Il dodicesimo capo del Mossad, Yossi Cohen, fresco di nomina da parte del premier Benjamin Netanyahu, che ha già servito come consigliere per la sicurezza nazionale

Il maratoneta

Giulio Meotti
Yossi Cohen, la prima kippah alla guida del Mossad. La super spia “arrivata da un altro pianeta” ha gli occhi puntati su Teheran. Camicia bianca, curato alla perfezione, è il contrario di Tamir Pardo, l’uomo che l’ha preceduto: schivo, introverso, pallido.

La prima cosa che ha fatto Yossi Cohen non appena è stato nominato dodicesimo capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, è stato ringraziare uno dei quattro figli: “Yonatan è, ai miei occhi, il vero guerriero”. Una storia familiare drammatica. Yonatan ha sofferto per una paralisi cerebrale durante il parto prematuro ed è oggi costretto su una sedia a rotelle. Eppure, questo non gli ha impedito di servire in una unità di intelligence informatica dell’esercito israeliano.

 

Il padre di Yossi Cohen era un combattente dell’Irgun, la milizia di destra attiva prima delle nascita di Israele nel 1948, foriera di un nazionalismo che nulla aveva a che fare con l’umanismo tolstoiano, nell’accezione rural-populista del pioniere ebraico Gordon, né dal marxismo teorizzato da Borochov, cui si ispireranno i kibbutz. La madre di Cohen, Mina, è una insegnante la cui famiglia affonda le proprie radici a Hebron, la città dove sono sepolti Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe e le loro mogli Rebecca e Lea. La famiglia di Cohen è fra i fondatori anche del quartiere di Mea Shearim, l’enclave ulrtaortodossa di Gerusalemme.

 

Scelto questa settimana dal premier Benjamin Netanyahu, Cohen prende il posto di Tamir Pardo alla guida delle spie israeliane e non potrebbero essere più diversi i due. Schivo, paziente, fumatore incallito,  appassionato di cyberintelligence, ebreo laico figlio di una famiglia originaria della Turchia e dei Balcani, Tamir Pardo: quando è stato nominato da Netanyahu capo del Mossad nel 2012, i suoi vicini di casa nel moshav Nir ne ignoravano perfino l’esistenza. “Nessuno sapeva quello che stava facendo”, diranno. Di Cohen, oltre alla kippah, non passa inosservata neppure la cravatta, in un ambiente da sempre informale come Israele, anche al vertice della sua sicurezza, e il fisico prestante, tanto da essersi guadagnato il soprannome di “maratoneta”. Uno spymaster con una reputazione per l’attivazione e la gestione di agenti segreti in tutto il mondo, compresi i lunghi sforzi tesi a sabotare il programma nucleare iraniano tramite operazioni clandestine.

 

“Un funzionario che si presenta in giacca e cravatta, la camicia bianca stirata, curato alla perfezione, come un visitatore da un altro pianeta”, lo ha definito Haaretz. Soprannominato “il modello” per l’aspetto e l’acconciatura, Cohen parla un arabo perfetto. E, forse ancora più importante, è riuscito a forgiare un linguaggio comune con il primo ministro israeliano, una caratteristica mancata spesso al suo predecessore, per non parlare dell’altro capo del Mossad prima di lui, Meir Dagan, che contro Netanyahu aveva avviato una battaglia pubblica e politica. I critici, che abbondano sempre sulla stampa israeliano, accusano Cohen di essere troppo legato a Netanyahu e perfino alla moglie, Sara: “Cohen è intelligente, affascinante ed è un reclutatore leggendario di agenti, ma i suoi orizzonti sono limitati”, ha scritto Ben Caspit, un commentatore per il quotidiano Maariv. “Questo è esattamente ciò che Netanyahu ha voluto come capo del Mossad: qualcuno che sa come identificare la volontà del suo padrone”. Esagerato, visto che anche Pardo era stato nominato da Netanyahu e gli ha dato non pochi mal di testa.

 

Come consigliere per la sicurezza nazionale, Cohen ha avuto il grande merito di tenere aperta una linea di comunicazione costante con l’Amministrazione Obama proprio mentre le relazioni fra Washington e Gerusalemme erano ai minimi storici. Annunciando la nomina di Cohen, Netanyahu ha detto che si aspetta che il Mossad continui ad assisterlo “nello sforzo di sviluppare rapporti diplomatici in tutto il mondo, anche con gli stati arabi e islamici”. Un riferimento importante, visto che Cohen dovrà curare in particolar modo i legami con gli stati arabi islamici avversi all’egemonia iraniana e alla sua fame di energia nucleare. Non a caso nei giorni scorsi anche i media turchi hanno salutato con favore la nomina di Cohen, perché in passato aveva cercato di riportare alla normalità i rapporti fra i due paesi dopo l’incidente sulla Mavi Marmara del 2010.

 

[**Video_box_2**]“Questo tipo di diplomazia segreta è tradizionalmente il dominio del Mossad”, ha dichiarato Yossi Alpher, ex direttore del Centro per gli studi strategici Jaffee e lui stesso un ex agente del Mossad. “Ogni paese arabo sunnita che come Israele percepisce il doppio pericolo di militanti sunniti e militanti sciiti è un candidato per questo tipo di rapporti”. Cohen ha contestato il discorso controverso di Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti, alla vigilia delle elezioni in Israele, e ha fatto del suo meglio per evitare un’escalation nel confronto con l’Amministrazione Obama . Il successo e l’influenza sono stati parziali, ma non insignificanti. Mentre l’ambasciatore a Washington, Ron Dermer, è stato considerato spesso non gradito alla Casa Bianca come “agente repubblicano”, Cohen ha sempre tenuto un canale aperto con il sottosegretario di stato Wendy Sherman, che ha condotto i negoziati degli Stati Uniti con l’Iran, e con Susan Rice, consigliere per la sicurezza nazionale. L’agenzia del Mossad ha avuto in precedenza soltanto undici capi nei settant’anni di storia israeliana: sei agenti del Mossad che hanno fatto carriera attraverso i ranghi e cinque generali dell’esercito. Yossi Cohen ha vinto la corsa alla guida del Mossad sugli altri due candidati di maggior peso: l’ex vice capo del Mossad, Ram Ben-Barak, che oggi è il direttore generale del ministero dell’Intelligence di Israele, e l’attuale vice capo del Mossad, di cui si conosce soltanto l’iniziale del nome “N”, perché la sua identità è secretata. Cohen aveva l’esperienza necessaria in tutte le tre aree che Netanyahu ha discusso: in campo diplomatico, per via del suo lavoro come vice capo del Mossad sotto Tamir Pardo, e anche dal suo incarico come capo del Consiglio di sicurezza nazionale; nel campo dell’intelligence, in quanto ha diretto il ramo più importante del Mossad, “pane e burro” dell’organizzazione, ovvero la “Tzomet” (intersezione), la divisione responsabile nella individuazione, arruolamento e attivazione degli agenti; e in terzo luogo, l’aspetto operativo, in cui Cohen ha un’abbondante esperienza di trent’anni. Nel presentarlo al pubblico, Netanyahu ha ricordato che “i suoi agenti hanno lavorato ventiquattro ore su ventiquattro temerariamente e talvolta con grande rischio personale, al fine di garantire la sicurezza di Israele”.

 

Yossi Cohen ha due record alle spalle. Il primo quando a ventidue anni, nel 1984, venne ammesso al corso di ufficiali del servizio segreto israeliano. Era la prima kippah a entrare nei suoi quadri. Cohen era appena uscito da una yeshiva, una accademia religiosa, quella del rabbino Haim Druckman, oggi popolarissimo fra il pubblico nazionalreligioso in Israele. Il secondo record Cohen lo ha stabilito questa settimana, diventando la prima kippah a guidare il Mossad. Cohen non la indossa tutti i giorni, ma durante le feste e ogni Shabbath. Fa parte, infatti, della corrente ebraica Masorti, i tradizionalisti religiosi, e ha legami importanti con il mondo ultraortodosso. Il giorno prima della nomina, Cohen era con il leader del partito sefardita Shas, Aryeh Deri, e insieme sono andati a incontrare Menahem Gescheid, uno dei capi della politica ultraortodossa in Israele.

 

La nomina di Cohen è il compimento di una rivoluzione culturale in Israele: i tre funzionari più alti in grado nella sicurezza dello stato ebraico sono oggi tutti religiosi. Non era mai successo prima. Oltre a Yossi Cohen, si tratta di Yoram Cohen e Roni Alsheich, rispettivamente capi del servizio segreto interno (Shin Bet) e della polizia israeliana. Il primo indossa ogni giorno il copricapo religioso e viene da una famiglia poverissima dell’Afghanistan. Il secondo è stato appena nominato capo della polizia, sfoggia anche lui la kippah, è figlio di ebrei yemeniti e ha vissuto per molti anni in un insediamento in Cisgiordania. Nell’ambiente della sicurezza era noto come “the fox”, la volpe.

 

Secondo Ronen Bergman, esperto di Mossad e giornalista di intelligence militare, corrispondente per il più grande giornale israeliano, Yediot Ahronot, “Cohen ha bisogno di essere in grado di aprire la strada non solo per la guerra, ma anche per la pace. I nemici sono sempre più sofisticati”. Secondo Bergman, la priorità per il Mossad di Cohen sarà il progetto nucleare iraniano, seguito da “obiettivi classici” come la “rete estera di Hamas” negli stati del Golfo e e in Iran, così come Hezbollah in Libano e Siria. Uri Dromi, portavoce per i governi Rabin e Peres, ha detto che per essere un capo del Mossad, si deve avere la capacità di prendere decisioni che mettono a rischio delle vite umane per raggiungere gli interessi dello stato, il coraggio di alzarsi in piedi di fronte a un primo ministro e una prospettiva geostrategica. “Il fatto che sia riuscito a ottenere la fiducia di Netanyahu ha dato a Cohen un vantaggio importante sugli altri due candidati, soprattutto se Netanyahu prevede il rilancio dell’opzione militare contro l’Iran nucleare, cui gli ex capi del Mossad si erano opposti”, ha detto Dromi. Oltre alle sigarette, resta da vedere se Cohen sarà diverso da Pardo. “E’ più appassionato di operazioni aggressive di Pardo”, dice Dromi. “Ma solo il tempo lo dirà”. Intanto, Teheran è avvertita.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.