Il presidente Obama al momento della firma di una legge. “Power Wars: Inside Obama’s Post-9/11 Presidency” è il titolo dell’ultimo libro di Charlie Savage

L'avvocato Obama

Analisi delle “forzature” costituzionali ai tempi del terrorismo Come le scelte cavillose del presidente danno ragione a Bush

Charlie Savage è un giornalista del New York Times che porta pochi meme virali e molte notizie “fit to print”. Savage lavora nella zona grigia fra legge, sicurezza nazionale e policy, i suoi scoop di rado sono fulminanti mangiaclic, piuttosto storie ad alta complessità che s’appoggiano su documenti legali riservati che richiedono buone fonti per essere reperiti, tempo e perizia per essere digeriti, verificati, spolpati fino all’osso e poi ricostruiti in modo comprensibile per il lettore, titolare unico del giudizio finale. Si occupa, come dice lui, dello “spazio indistinto fra ciò che deve essere fatto e ciò che può essere fatto”. Non scrive articoli elettrizzanti e che suscitano empatia, ma fa ricognizioni decisive per capire il funzionamento del potere e per mettere in prospettiva evoluzioni e cambiamenti che definiscono i caratteri non di una nazione fra le altre, ma della più grande potenza della storia umana. Questo quarantenne originario dell’Indiana è una delle buone ragioni per comprare il Times. Fra le altre ci sono David Sanger, Eric Schmitt, Peter Baker, Scott Shane e Mark Mazzetti, la brigata che opera sul confine poroso fra sicurezza nazionale e politica, colleghi con premi Pulitzer in bacheca con cui spesso Savage condivide firma e fama. Savage ha il curriculum e il pedigree ideologico tipico del giornalista scomodo del New York Times: ottime scuole, titoli ad Harvard e Yale, frequentazioni nell’establishment e vita corporativa washingtoniana. Con la moglie Luiza, caporedattrice del magazine Maclean’s, forma una delle più ammirate “media couple” della capitale. E’ un tipo di liberal colto e di buone letture, puntiglioso come dev’esserlo uno che si occupa a quei livelli di argomentazioni legali sull’antiterrorismo, uno caldamente osannato dagli avvocati dei diritti civili, dalle colombe dell’Amministrazione, da Glenn Greenwald e dalla ghenga di attivisti che vorrebbe abbattere i sistemi di sorveglianza del governo americano prima che tutto precipiti in un libro di Orwell (anzi, secondo la ghenga siamo già in un libro di Orwell, ma il narratore, astuto, ha escogitato stratagemmi per farci credere che siamo in un libro sulla misericordia di Papa Francesco).

 

Il suo Pulitzer Savage lo ha vinto nel 2007, a trentadue anni, per il lavoro, diligente ai limiti dell’ossessivo, sui “signing statement” di George W. Bush, le postille che il presidente allega alle leggi appena firmate e che talvolta possono cadere fatalmente in contraddizione con altre leggi, con la Costituzione o con alcune sue interpretazioni. Allora lavorava per il Boston Globe. Bush, com’è noto, ha usato generosamente questo controverso strumento a disposizione del presidente. Con intensità minore avevano fatto lo stesso anche Ronald Reagan e Bill Clinton, ma con Bush questi statement convergevano tendenzialmente verso la sicurezza nazionale, ambito in cui la guerra al terrore aveva aperto la necessità di creare una architettura legale d’emergenza. L’urgenza del momento richiedeva un decisionismo presidenziale che la Costituzione prevede e permette, ma una volta superata la fesa emergenziale si dovrebbe imporre nuovamente il sistema di “check and balance”, che tende a tollerare le eccezioni necessarie soltanto per periodi limitati. Franklin Delano Roosevelt aveva fatto internare tutti gli americani di origine giapponese sulla west coast dopo Pearl Harbor per proteggere l’America, le leggi speciali le ha praticamente inventate e messe in pratica George Washington. Poi i giapponesi sono stati liberati, e le leggi speciali rimesse in naftalina. Con la guerra al terrore è più complicato, per via della natura liquida e apocalittica di un nemico-idra, della sua dislocazione transnazionale e della sua resilienza, della sua capacità di colpire l’occidente e perfino la fortezza americana, difesa da due oceani. Queste caratteristiche hanno reso necessarie una serie di misure, dal carcere speciale di Guantanamo ai “black sites” della Cia, dal Patriot Act ai bombardamenti con i droni, dai sistemi di sorveglianza agli interrogatori “enhanced”, che richiedono altrettante leggi, regolamenti, ordini esecutivi, memo e pezze d’appoggio più o meno convenzionali per essere praticati e istituzionalizzati. In “Takeover: The Return of the Imperial Presidency & the Subversion of American Democracy”, del 2007, Savage ha ripreso nientemeno che la nozione di “presidenza imperiale” formulata ai tempi di Nixon da Arthur Schlesinger, lo storico della corte di Camelot, per applicarla alla diarchia Bush-Cheney, i sovvertitori dell’ordine democratico con le loro intercettazioni a strascico e lo sbilanciamento dell’asse legale verso la sicurezza, a discapito della libertà. Era un libro che dava alla gente che piace imprescindibili fonti documentali per sostenere tesi di cui già era convinta. Come tutti i cronisti, anche Savage lavora nel settore del pregiudizio e della manipolazione. Il suo ultimo libro, “Power Wars: Inside Obama’s Post-9/11 Presidency”, dà alla gente che piace imprescindibili fonti documentali per sostenere che le tesi che applicavano a Bush s’applicano anche a Obama. Il problema, come aveva osservato Schlesinger, non è fare leggi speciali per fronteggiare un’emergenza, ma smantellarle quando l’emergenza è finita. Durante la Seconda guerra mondiale, ad esempio, gli Stati Uniti avevano inaugurato un processo di militarizzazione dell’intelligence e della polizia che poi, una volta conclusa la minaccia, non è mai stato rimosso. Savage negli ultimi otto anni non ha modificato la sua inflessione critica sulle politiche usate dagli Stati Uniti per garantire la sicurezza, semplicemente sostiene che il cambio della guardia alla Casa Bianca non ha cambiato la sostanza quando si parla di antiterrorismo, sorveglianza, droni e altro. La differenza, formale e stilistica più che fattiva, è che il presidente guerriero è stato succeduto da un presidente avvocato, uno che lavora con cavillosa precisione per giustificare a posteriori l’esistente, mentre al pubblico promette cambiamento. Il cowboy del Texas e il costituzionalista di Harvard non vengono da pianeti diversi. Savage non sostiene la pressoché perfetta continuità fra Bush e Obama con un pamphlet corsivato, di natura polemico-ideologica, ma con un tomo di 784 pagine in cui mette pazientemente in fila tutti gli indizi e le prove, consegnando al pubblico un libro straordinario e straordinariamente noioso. Non potrebbe essere altrimenti, data la natura del soggetto, ma libri del genere permettono ai contemporanei e permetteranno ai posteri di farsi un’idea dettagliata e documentata dell’arco ideologico tracciato da due Amministrazioni in un periodo incredibilmente “consequential” della storia americana. Non è poco.

 

A ben vedere – e questo Savage lo vede bene – ci sono soltanto due differenze specifiche, fattive, fra le misure antiterrorismo adottate da Bush e quelle confermate o messe in piedi da Obama. La prima è il ripudio obamiano degli interrogatori duri, classificati come tortura, certificato da un ordine esecutivo firmato il secondo giorno della presidenza. La seconda è la decisione di Obama di scovare e uccidere con i droni cittadini americani associati a gruppi terroristici, cosa che Bush non aveva mai fatto. Fra le differenze ci sarebbe anche la posizione su Guantanamo, ma trattasi di differenza puramente teorica, dal momento che Obama, dopo vari tentativi finiti goffamente a vuoto, ha accettato di lasciare aperto il carcere speciale sull’isola di Cuba. A chi invoca la diminuzione dei detenuti sotto la presidenza democratica come prova della volontà politica di Obama è bene ricordare che il trend dei trasferimenti va avanti costantemente dall’inizio del 2004. Nel primo anno di governo, quello in cui aveva promesso di chiudere il carcere, Obama ha trasferito a paesi terzi la metà – la metà – dei detenuti che Bush ha trasferito fra il 2004 e il 2005. Fra i vari momenti decisivi in cui Obama ha mostrato di essere un commander in chief duro e un avvocato durissimo, Savage ricorda uno dei primi incontri con tutto il team della sicurezza nazionale, nel febbraio del 2009. L’incontro aveva lo scopo di informare il presidente dell’esistenza e dell’entità dei sistemi di sorveglianza segreti della National Security Agency e di altre agenzie, cose che Obama sapeva soltanto in parte, per via dei leak alla stampa qualche anno prima e di alcuni briefing a cui aveva partecipato da senatore. Il presidente doveva sapere che si trattava più di pesca a strascico che di inchieste mirate. Una volta terminata la presentazione, Obama, per nulla scosso, sentenzia: “Mi sta bene quello che dite, ma voglio che i miei avvocati diano un’occhiata”. E indica il procuratore generale, Eric Holder, e l’avvocato della Casa Bianca, Greg Craig, simbolicamente seduti alla sua destra e alla sua sinistra. “Per il team di Obama – scrive Savage – la questione era come conciliare il programma di sorveglianza con le regole, non se chiudere o meno il programma”. Todd Hinnen, uno dei consiglieri legali di Joe Biden che in quell’incontro era presente, ricorda: “Alla fine il nostro lavoro non era stabilire di che cosa la comunità d’intelligence aveva bisogno. Il nostro compito era fare in modo che gli strumenti di cui dicevano di avere bisogno si conformassero alla legge”. E’ la giustificazione legale di pratiche necessarie e politicamente controverse il tratto dominante della gestione del potere obamiano, nella convinzione, appena ovvia per un giurista di Chicago, che c’è sempre un avvocato abbastanza scaltro da convincere la giuria che è dritto ciò che in realtà è storto. C’è da domandarsi se abbia vietato gli interrogatori duri perché li riteneva moralmente inaccettabili, oppure perché i suoi legali non sarebbero riusciti a sostenerne la legalità in modo abbastanza sofisticato e convincente. Non era comunque questa l’interpretazione che i suoi tifosi avevano dato a una frase pronunciata nel 2007, durante la campagna elettorale: “L’Amministrazione Bush offre una falsa alternativa fra le libertà che esaltiamo e la sicurezza che chiediamo. Darò alla nostra intelligence e alle forze dell’ordine gli strumenti di cui hanno bisogno per rintracciare ed eliminare i terroristi senza violare la Costituzione”.

 

Per non violare la Costituzione non ha cambiato gli strumenti antiterrorismo, ha assunto un esercito di avvocati. Quell’esercito che dopo il fallito “attentato delle mutande” nel giorno di Natale del 2009, su un volo diretto a Detroit, ha irrigidito enormemente la sua postura, finendo per abbracciare l’impostazione data da Bush e Cheney, puntellandola con argomenti legali invincibili. Il caso dell’attentatore di Natale, il giovane Umar Farouk Abdulmutallab, è particolarmente significativo anche perché dopo la cattura le autorità federali hanno deciso di leggere immediatamente i diritti al sospettato: una mossa politicamente vincente, dopo anni di polemiche sui diritti calpestati, ma tatticamente rischiosa, perché Obama aveva bisogno di sapere a quale anello del terrore Abdulmutallab era agganciato. Per un solenne colpo di fortuna, Abdulmutallab ha preso a parlare anche se aveva il diritto di restare in silenzio, ma agli avvocati è risultato chiaro che quel groviglio fra diritti ed esigenze di sicurezza andava risolto. Come? Allargando le maglie interpretative della legge, non retrocedendo con gli strumenti di sicurezza. Le parole di Abdulmutallab, ed è tutt’altro che un caso isolato, portavano dritte ad Anwar al Awlaki, l’imam americano di origine yemenita che ha ispirato o direttamente formato una generazione di terroristi “homegrown”. Awlaki è al centro di un altro precedente legale coniato da Obama, l’uccisione di cittadini americani. Nel 2011 un drone che sorvolava il governatorato di al Jawf, nello Yemen, ha ucciso lui e Samir Khan, un altro cittadino americano, direttore della rivista “Inspire”, efficace strumento di reclutamento per aspiranti jihadisti occidentali. La Cia aveva individuato Awlaki, ma lo strike è stato tenuto in sospeso per settimane nell’attesa che i legali mettessero a punto un documento di 41 pagine per difendere la legalità dell’operato. Caso di scuola: Obama ha ordinato di fare ciò che era necessario per la sicurezza, e nel frattempo ha trovato un modo per “renderlo” legale.

 

[**Video_box_2**]Chi si è opposto a questa logica, giudicandola cinica e pretestuosa, un gioco argomentativo scorretto verso il popolo e gli elettori, è stato accompagnato alla porta. E’ il caso di Craig, che all’inizio del 2009 sedeva alla sinistra di Obama, vegliando su tutti i dossier più delicati, e qualche mese più tardi era fuori dall’Amministrazione. Chi invece la logica leguleia l’ha abbracciata senza riserve ha fatto una carriera sfolgorante, basta pensare a Eric Holder, il procuratore generale, il vero pilastro dell’Amministrazione, che si è occupato di qualunque cosa, dal razzismo ai banchieri di Wall Street passando per la lotta allo Stato islamico. La figura di Holder aiuta a spiegare un’altra tendenza, che forse esemplifica l’osservazione più importante del libro di Savage, sintetizzata così: “Durante l’Amministrazione Bush, i democratici (e alcuni conservatori scettici) hanno offerto due tipi di critiche alle politiche post-11 settembre del governo. C’era la critica sulle libertà civili, secondo cui i programmi come la sorveglianza senza garanzie o le commissioni militari erano sbagliate e violavano i diritti individuali. Poi c’era la critica sulla ‘rule-of-law’, che diceva che Bush non avrebbe dovuto violare la legge per mettere in piedi questi strumenti. Gli avvocati naturalmente gravitavano attorno al secondo gruppo”. Così Obama ha riempito gli uffici della Casa Bianca, del dipartimento di stato, del Pentagono e delle agenzie di intelligence di “conciliatori” fra la legge e le pragmatiche necessità degli apparati antiterrorismo, non di avvocati-attivisti in stile Aclu che si battono per i diritti civili. Gli avvocati di Obama erano sì critici di Bush e Cheney, ma perché avevano aggirato il Congresso, perché si erano mossi ai confini e anche oltre i confini della legge, erano stati avvocati grossolani di una strumentazione antiterrorismo che non era intrinsecamente buona o cattiva, ma andava giudicata su un piano diverso, quello dell’efficacia e della legalità. Stabilire l’efficacia era compito di intelligence e Pentagono, dove esistono ampie linee di continuità fra le due Amministrazioni, stabilire la legalità è compito degli avvocati. E così i puristi che vedevano in Obama il restauratore di un ordine morale sono rimasti a bocca asciutta, ed Edward Snowden ha poi fornito un’enorme mole di prove della continuità sostanziale fra le due impostazioni. Questo Savage non lo scrive, ma questi avvocati dei diritti civili sedotti dall’Obama candidato e subito abbandonati dal presidente, qualcosa in cambio lo hanno ottenuto, anche se non ha a che fare con la guerra al terrore. Hanno ottenuto il sostegno totale e belligerante alla guerra domestica, combattuta e sonoramente vinta, per l’uguaglianza, sul duplice binario del matrimonio gay e della rivisitazione della libertà religiosa. Ora la Cia può far saltare in aria legalmente un cittadino americano in un paese a scelta del medio oriente, ma un pasticciere del Colorado non può rifiutarsi di fare una torta nuziale per due sposi dello stesso sesso. Sembrano due faccende diverse, ma non lo sono affatto. Holder è stato l’ufficiale di raccordo in questo cavilloso negoziato fra diritti ceduti in nome della sicurezza e diritti moltiplicati in nome della libertà individuale. Un negoziato presieduto da Obama, il più avvocatesco dei presidenti, un camaleonte politico che in questi anni è stato pragmatico e scaltro e molte altre cose, ma non è stato un fattore di “change”. Probabilmente non è stato nemmeno un presidente post-11 settembre. Savage lo spiega senza nemmeno dover ricorrere allo storytelling.