Cesare Cases: grande germanista, dopo la tesi di laurea su Jünger non ha mai composto un libro monografico. Ma nei suo saggi, nei corsivi, si avverte l’aspirazione costante a chiudere il cerchio

Critico & satirico

Matteo Marchesini
Letteratura o idee, com’era bravo Cesare Cases a non prendere sul serio ciò che non è serio. Calvino lo chiamava “lo scettico blu”

Sono passati dieci anni da quando la cultura italiana ha perso Cesare Cases. E più ancora dell’insuperato acume di germanista, a mancarci è la sua capacità di non prendere sul serio ciò che non è serio: cioè di pigliare per il verso giusto, con la sua verve satirica, quei prodotti letterari e ideologici adulterati a cui invece altri critici, anche mentre li castigano, dànno implicitamente credito, perché si lasciano trasportare sul terreno delle loro mistificazioni. Siamo così intimiditi dalle liturgie culturali, che perfino quando contestiamo un sistema intellettuale improbabile o grottesco, in genere lo facciamo con una puntigliosa seriosità da pubblici ministeri, restando intrappolati nel suo gergo: non sappiamo più disinnescarne il ricatto, colpire il linguaggio pedantesco con la risata che meriterebbe. Senza perdere in sottigliezza, Cases aveva invece il dono di trovare subito il punto su cui far leva per trasformare la polemica in una trascinante, farsesca dimostrazione per assurdo. Penso a certe fantasie distopiche alla Emilio Cecchi, come quella dei “Due gatti accademici” (1977): dove s’inventa un feudo universitario del 2020 nel quale la fumettologia scientifica di Eco contende con quella empirica di Del Buono, e un docente cede la cattedra al proprio micio. Ma a suonare scandalose, alle orecchie dei professori formatisi sul più capzioso post-strutturalismo o su una neoavanguardia molto annacquata, sono oggi soprattutto le liquidazioni della neosofistica parigina. “Si parla (…) di kamasutra per la scrittura, di perversioni del piacere di lettura”, scrive Cases su Barthes. Ma questo “viluppo di congiungimenti aretineschi, in cui non si distinguono più i culi e le cosce del lettore e del testo”, conferma solo che “le teste sono vuote, i testicoli scarichi”. Resta un godimento tutto cartaceo, e per poco: “Presto prevarrà la ragioneria”, perché “gli intellettuali francesi si procurano gli eccessi per poter poi meglio ricondurli all’ordine”.

 

A volte, per mostrare la sterilità di una moda culturale, basta al critico uno scanzonato giro di frase. “Che cosa avrebbero potuto dire su Auschwitz Ceronetti o Cioran se non: Sapevamcelo? Forse avrebbero avuto una parte di ragione, ma noi su Auschwitz non avremmo appreso nulla”, osserva opponendo Primo Levi agli apocalittici adelphiani.

 

Anche ai saggi più impegnativi, Cases imprime a un certo punto una netta virata satirica. A volte, come nell’anticonformistico ritratto gaddiano del ’58, la virata è già nell’incipit: “Dalla lettura del ‘Pasticciaccio’ non risulta affatto che Carlo Emilio Gadda sia ingegnere e milanese. Per un lettore sprovveduto potrebbe essere anche abruzzese e pittore di alluci”. Ma è Calvino – così simile a lui nel nitore illuminista della prosa e in una certa diffidente, costitutiva avarizia – a ispirargli le invenzioni più spettacolari. Commentando il “Barone rampante” (1957), Cases cita un’ipotetica tesi di laurea del 2057 che dà conto di future opere calviniane come il “Duchino natante” e il “Marchese pneumatico”: un modo, evidentemente, per mettere in guardia l’amico da una possibile deriva della sua vena fiabesca e delle sue pose di philosophe. Viceversa, per difendere le “Città invisibili” dagli opposti estremismi critici, immagina Polo e il Kan che dialogano sulla sorte del loro autore, scacciato dai recensori di Populonia (gli engagé tradizionali) e di Adornia (che lo vorrebbero tutto al negativo), ma pure dalla strutturalista Cabala, dove “i due re Borges e Cortazar (…) comandano a mille cuochi francesi”.

 

Anche quando affronta i più intricati nodi di critica della cultura, Cases è immediatamente portato a tradurne i termini in un sapido tessuto di metafore. Si veda il pezzo del “Testimone secondario” (1985) in cui valuta gli effetti filosofici del riflusso di fine anni Settanta, quando l’attenzione collettiva si sposta “dai francofortesi a Bloch e a Benjamin” – pensatori rispettabili, ma che coi loro cortocircuiti tra prassi e richiami messianici offrono troppa corda ai “giochi equivoci” dello pseudomisticismo e dell’eclettismo accademico. “Horkheimer e Adorno”, spiega Cases, “ci portavano davanti a un muro e lì ci piantavano in asso. Poco gentile da parte loro, però intanto potevamo osservare bene il muro, con tutte le crepe come in un quadro di Fautrier. Invece Benjamin e Bloch ci spronano a salirci sopra con le scale della lotta di classe” e a “saltar giù nell’utopia, additandoti coloro che l’avevano già divinata a modo loro, ma per Bloch si trattava di una congrega di venerabili saggi di tutte le religioni e filosofie, sontuosamente vestiti, che avevano disposto cuscini di raso e tappeti orientali per attenuare la caduta, mentre per Benjamin (…) era uno chassid o un artigiano anonimo o un guitto piccolo, lacero e striminzito, e a precipitargli addosso c’era sempre il rischio che vi rompeste l’osso del collo”. Se però Benjamin e Bloch si prendessero per quel che sono, non andrebbe troppo male; invece li si mescola in un’immangiabile minestra teorica coi loro vecchi avversari o i loro nuovi saccheggiatori: da una parte Heidegger, dall’altra i “giovanotti ludici” alla Derrida, “che saltano il muro a piè pari, chiamandolo ‘differenza’, con gli stivali a molla di Paperinik”, e trovano al di là “un robusto vegliardo che (…) assomiglia moltissimo a una vecchia conoscenza: messer Domineddio”.

 

In Cases, la tendenza satirica e allegorica è insomma irresistibile come una vocazione. Sa colpire con perfida esattezza; ma la callida domesticità “cecchiana” del tono attenua l’implacabile violenza appresa da Kraus, che già in tempi di greve bigottismo togliattiano regala alla sua scrittura una inconfondibile leggerezza immoralista. Come quello del modello viennese, il genio di Cases sta nella capacità di cogliere i dettagli rivelatori. Perché le loro stoccate non sembrino gratuite, entrambi si disegnano alle spalle un mito in grado di offrire un autorevole punto d’appoggio al potente zoom satirico: se Kraus sceglie il punto di vista di un’Ursprung biblica, di una verità originaria tradita dal mondo borghese, Cases si attacca via via a forme differenti di marxismo. Da un lato, dunque, il massimo d’individuazione; dall’altro, a garantirla, la nostalgia di una totalità filosofica: là il direttore della Fackel, qui un Lukács mescolato a poco a poco con la Scuola di Francoforte.

 

Questa doppia identità si riflette nella forma degli scritti più tipici. Dopo la tesi di laurea su Jünger, il nostro massimo germanista non ha mai composto un libro monografico. Eppure nei saggi, e nei pirotecnici corsivi, si avverte un’aspirazione costante a chiudere il cerchio, a offrire un microcosmo tenuto in piedi da un serrato ordine gerarchico: le sue prose somigliano a monadi, non a frammenti, e il suo sogno è quello “di scrivere qualcosa di simile al ‘Modest Proposal’ di Swift”, cioè qualcosa “che torni perfettamente”. Appunto ad assecondare questa tendenza servono le imponenti macchine marxiste che si sceglie come fondali. Ma che queste macchine possano davvero condurre a mete non meramente letterarie, Cases non è mai convinto fino in fondo: perciò i suoi “prodotti chiusi (…) si prendono in giro da sé, donde per esempio il suo gusto della parola arcaica”.
Inclinazione al compiuto e piacere della parodia: quello che da studente gli ispira poemi folenghiani, e che Fortini, nei momenti di rabbia, liquida come un gusto poetico da Corriere dei piccoli. Però è un gusto che negli epigrammi funziona bene, e che a volte frutta a Cases risultati magari meno complessi ma anche meno congestionati di quelli dell’amico (proprio a lui, per fare un esempio, invia da una sinagoga spagnola un maligno “Qui pregarono, o Lattes, dei rabbini / ignari di esser gli avi di Fortini”, alludendo al suo giovanile abbandono del cognome ebraico).

 

La stessa rotondità “in minore” gli riesce utilissima anche nell’altro genere nel quale è maestro, e che è quasi il rovescio della satira: quello del ritratto tombale, di cui ha dato esempi stupendi ricordando uomini così diversi come Calvino, Gimmelli e Panzieri; mentre a metà via tra i due registri, il suo umorismo malinconico si è fissato alla perfezione nella memoria famigliare ebraica “Cosa fai in giro?”. E proprio gli scorci autobiografici aiutano a capire la sua feconda contraddittorietà di prospettive e di stili. La forma mentis di questo critico eccentrico si sviluppa infatti in una media borghesia milanese, ebraica e liberal-conservatrice, presto inghiottita dal gorgo nazifascista. Come Primo Levi, mentre calano su di lui le leggi razziali, anche Cases s’indirizza verso gli studi chimici, sperando che gli lascino socchiusa qualche porta davanti alla catastrofe annunciata. Ma nell’esilio svizzero è riportato alle lettere dalle lezioni zurighesi di Spoerri e soprattutto di Goldmann, che gli trasmette il suo entusiasmo per il giovane Lukács; e al ritorno in patria, tra l’impiego da libraio per Einaudi e gli esordi favoriti da Elena Croce sullo Spettatore Italiano, si afferma come erudito polemista prima di poter diventare un professore col vizio degli studi sistematici. Oltre ad avere precocemente assorbito testi che in Italia arrivano solo negli anni Cinquanta e Sessanta, questo trentenne ha imparato a padroneggiare la lingua tedesca “con perfezione umiliante”. A scriverlo è nientemeno che Thomas Mann, in un carteggio con l’Einaudi che al semisconosciuto collaboratore frutta l’ingresso nelle riunioni decisive della casa torinese. Quanto allo sfondo ideologico, dopo il ’56 Cases si allontana progressivamente dal Pci, e di lì a qualche anno inizia a muovere caute obiezioni a Lukács, avvicinandosi alla Nuova Sinistra e rivalutando Adorno: l’apocalisse gli sembra nei fatti. Intanto legge Brecht, celebratore della soda realtà fisica e di un’astuta etica antieroica che sente piuttosto vicina. Non ha infatti torto il suo fraterno censore, “Fortini l’Uticense”, nel dire che Cases si defila appena le posizioni si fanno insicure. “Io sono sempre scisso tra tentazioni estremistiche (…) e controspinte conformistiche, quando giudico l’impresa disperata”, ammette con la sua ironica autoindulgenza di miscredente. Ma oltre che alla prudenza, l’attendismo è dovuto anche a un’antica “diffidenza verso il proprio io”, che implica “la sua relativizzazione e ironizzazione”. Il “testimone secondario”, insomma, diventa tale perché non crede del tutto a se stesso e alle zuffe in cui è coinvolto. Questo “scettico blu” – la definizione è di Calvino – ha una naturale tendenza a distaccarsi dalle proprie stesse opinioni, a contaminare con toni giocosi o velature saturnine la battaglia polemica e le agili applicazioni del sistema che elegge a provvisorio tetto. Si tratta di un “pathos della distanza” che gli impedisce gli affondi diagnostici di Fortini, ma che in compenso lo preserva dal narcisismo irrisolto dell’altro maggiore interprete del marxismo critico, dalle sue sfibranti ellissi e dalla sua mutria profetico-ricattatoria. Soprattutto, il distacco rende Cases impareggiabile nel riassumere in poche chiarissime pagine problemi complicati, lunghi periodi storici, e tesi di autori quanto mai sfuggenti. Che introduca Benjamin o Szondi, che descriva la ricezione dei “Promessi sposi” o tre secoli di scambi tra cultura francese e tedesca, la sua prosa mantiene la stessa lucida trasparenza. E’ la prosa di un illuminista incline al pessimismo, che ha deciso di travestirsi temporaneamente da comunista pugnace. Ma proprio per questo, nel proporre con schematica eleganza le teorie marxiste, riesce spesso più convincente degli ideologi immersi fino al collo nella loro materia. Se perfino a uno scettico tutto appare così lineare, ci si chiede infatti leggendolo, non sarà che il marxismo è fatalmente vero? In realtà, Cases è convincente proprio perché usa le teorie come un formidabile strumento euristico: si rifugia alla loro ombra vasta e ospitale per inquadrare meglio i suoi bersagli, lasciando nel vago le prospettive della militanza politica. Questi bersagli, del resto, non sono tanto le idee “anticomuniste”, ma le visioni del mondo che minacciano il suo umanesimo razionale almeno quanto storicistico. Sono, soprattutto, le correnti culturali refrattarie alla critica della falsa coscienza, che è poi una delle incarnazioni storiche della satira diretta a colpire la sproporzione tra gergo e realtà, tra pretese ideologiche e verità stilistica, morale, materiale. E’ con questa arma duttile che Cases denuncia l’eclettismo della sinistra neopositivistica, i presupposti teologici introdotti surrettiziamente nella Stilkritik, e più tardi il barocco gastronomico del postmodernismo. Il fatto che i suoi saggi restino vivi quando le impalcature teoriche su cui si reggono sono ormai cadute, mostra bene lo scarto tra quei mastodontici edifici e il loro temporaneo custode.

 

[**Video_box_2**]Cases è troppo incredulo per coltivare la fiducia di Lukács, e troppo oraziano per spingersi sugli abissi di Kraus e Adorno; è troppo “ottocentesco” per approvare la poetica brechtiana, e troppo laico, troppo epicureo per sopportare la severità inibita, tortuosa e savonaroliana di Fortini. Nel suo tono echeggia quello dell’abate Galiani, frizzante causeur che dove può (a Parigi) fa l’illuminista, e dove non può (a Napoli) si limita a scherzare. Anche il milanese Cases resta “italiano”, cioè inguaribilmente convinto della provvisorietà del Tutto. Ma al tempo stesso, si sente sempre avvolto dal mantello della Storia. Se c’è una cosa che non lo ha mai attratto, è la visione naturalistica del mondo. Anche la natura, sotto la sua penna, diventa storica; o viene ignorata. Di qui, tra l’altro, l’interesse del suo dialogo con Timpanaro e De Martino, viceversa molto sensibili a ciò che rimane irriducibile alla civiltà. Rimozione del dolore, della morte, delle invarianti zoologiche tornate a galla a fine Novecento? Piuttosto, la natura ispira a Cases una certa noia: è lì, si sa, e non possiamo farci granché. Quindi, per esercitare in modo utile il nostro raziocinio e anche per divertirci, mettiamola tra parentesi e occupiamoci dell’uomo, scimmia malvagia e tuttavia alfabetizzata. Per Cases, perfino l’apocalisse è impensabile senza una favola civile: ossia, in fondo, senza gli intellettuali. Anche qui forse c’è dell’ebraismo, oltre a un po’ di positiva moderazione lombarda. D’altra parte, la cultura dei suoi avi gli si presentava col filtro del “razionalista Maimonide”, non certo attraverso lo “Zohar” idolatrato, come nota con un tipico sfottò, dai non ebrei Ceronetti, Calasso e Zolla. Ma il suo razionalismo si traduce poi sempre in immagini: a metterlo in moto è infatti la passione per il particolare umano, che regna al centro delle più fini ragnatele teoretiche. Ed è in questa combinazione che Cases si rivela uno dei più raffinati scrittori del nostro secondo Novecento. I suoi capitoli corrosivi sono la migliore arma illuminista che rimanga all’intellettuale incapace di abitare stabilmente un sistema e di confidare in un continuo progresso. “Più c’è scienza, più c’è superstizione”, concludeva in vecchiaia: amara saggezza dialettica, temperata da una scorta d’infantile gioia umanistica, in cui si radicano lo scetticismo e insieme lo spirito caustico, leggero, di chi osserva con rassegnazione curiosa le bestialità dei suoi simili. Sotto questo segno, la parabola di Cases dimostra come poche altre cos’è davvero un critico: è un filosofo che non crede più nella filosofia.

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