Bendigo, un presente quasi irrilevante, un passato di ricchezza improvvisa: sontuosi palazzi e hotel vittoriani adornano ancora strade e piazze all’europea

Australia infelix

Mario Rimini
Nella nazione giovane e dinamica, una moschea ha risvegliato un virus latente nel Dna della madre Europa: lo scontro di civiltà. La placida cittadina di Bendigo, nata e arricchitasi vicino a Melbourne nell’Ottocento grazie alla febbre dell’oro.

Doveva essere una semplice procedura amministrativa. Doveva essere un voto assieme a mille altri, su una questione come mille altre. Una comunità, un nuovo luogo di culto, un permesso erogato dal municipio. Fine della storia. Ma la comunità che richiedeva il permesso era quella musulmana. Il luogo di culto una moschea. E così l’oscura nota amministrativa al margine della sonnolenta esistenza di Bendigo, nel corso dei mesi ha assunto i connotati dapprima di un litigio in seno alla comunità; poi di una questione di principio. E infine, di un violento scontro ideologico e di una quasi prova di guerra civile, quando il consiglio municipale ha infine votato, e il riesame del tribunale amministrativo ha bocciato i furiosi ricorsi di parte della cittadinanza.

 

Pochi, in Europa, sapranno cosa sia, o dove si trovi, Bendigo. Ma non fatevene un cruccio. Persino molti australiani faticherebbero a indicarla con precisione su una mappa del loro continente isola. Eppure, un tempo Bendigo era nobile. Di più. Poco più di un secolo e mezzo fa, questa cittadina ora semi rurale non molto distante da Melbourne nasceva e cresceva con una rapidità sorprendente e con uno sfoggio di ricchezza così repentino da avere pochi eguali nella storia contemporanea. Le vestigia di questi improvvisi e sfarzosi natali sono ancora lì, nei sontuosi palazzi e negli hotel vittoriani che adornano strade e piazze all’europea, negli stucchi e nelle fontane che troneggiano in giardini che potrebbero parere, in un istante di distrazione, un angolo londinese o parigino. E’, Bendigo, un po’ come quei reali che non hanno più reami, né appannaggi. Ma conservano in bella mostra nel loro salotto modesto e piccolo borghese scettri e corone e mantelli di fine pelliccia. E a guardarli, lo stupore cede subito il passo alla malinconia. Perché il loro presente è sommesso, e irrilevante. Ma il passato, o tempora!, fu l’oro, a creare Bendigo.

 

Montagne d’oro. Quando, verso la metà del Diciannovesimo secolo, nella colonia giovane del Victoria iniziò la febbre dell’oro, fu qui che il mercurio impazzì. Nata come piccola stazione pastorale, Bendigo si trasformò in pochi anni in una città sostanziosa e dall’ostentato gusto architettonico, l’eco delle cui fortune auree giunse ovunque attraverso i centri finanziari dell’Impero. Nessun luogo produsse, nell’intero secolo successivo, più oro di Bendigo. E quando la febbre scemò e divenne un flebile tremore, per poi svanire del tutto, il capitolo internazionale della storia cittadina si chiuse all’improvviso. E si risvegliò, quest’Eldorado dimenticato troppo in fretta, di nuovo semplice centro rurale, grande come mezza Caltanissetta. Troppo lontano da Melbourne per esserne un sobborgo di qualche rilevanza, troppo vicino per non finire oscurato dall’ombra vivace della capitale dello stato di Victoria. Poi è arrivato un voto, quest’anno, al municipio. Una moschea a molti invisa si farà, hanno deciso i consiglieri. Il tribunale, estrema ratio degli oppositori, lo ha confermato. E Bendigo è tornata, per un giorno, alla ribalta della storia.

 

Fine agosto. La foschia – tipica di quelle contrade e di un inverno che non era stato così rigido dal 1989 – iniziava appena a scricchiolare sulla soglia di una primavera restìa. Era di domenica. E le news non facevano che parlare di Bendigo. C’erano ancora i palazzi e gli stucchi e le fontane, nelle foto e nei reportage televisivi. Ma c’era anche una gran calca. C’era il fumo degli scontri e delle cariche della polizia. C’era un duello. Molto più che una rissa, era uno scontro tra nemici. Che a guardarli sembravano identici, ma che si scaricavano addosso improperi pesanti come mitragliate da barricate opposte, e che ovunque si creasse una fessura nell’energica barriera delle forze dell’ordine si lanciavano all’assalto gli uni contro gli altri, e venivano alle mani. E si accusavano, l’un l’altro, di essere il Male, il Tradimento, la Vergogna. Si odiavano, i duellanti di Bendigo. Eppure, si assomigliavano terribilmente. Si assomigliavano perché erano tutti australiani. Non c’erano agenti stranieri, immigrati clandestini, terroristi sbarcati da terre lontane. C’erano australiani comuni. Bianchi, e middle class. Bendigo è una tipica provincia. Con mamme, nonne, padri e figli. E quindi domenica c’erano in piazza avvocati e macellai, consiglieri comunali e agenti immobiliari, studenti universitari e matriarche ottantenni. C’era l’Australia insomma. La sua medianità, senza classi e senza strati.

 

Era turbata, però, questa Australia. Agitata, scomposta. Arrabbiata. Difficile riconoscerla, a immaginarsi il mito del surf’n’sand, o la mèta dell’anno sabbatico alla scoperta di come la vita potrebbe essere se fosse perfetta. Era invece un’Australia confusa, in preda al panico. Un’Australia sconvolta. Da idee vecchie vecchissime ad altre latitudini, ma nuove nuovissime in questo paese periferico. Temi caldi, bollenti: islam, libertà, immigrazione, multiculturalismo, identità. Temi che sino a ieri nessuno immaginava potessero sfiorare la gioventù esistenziale dell’Australia. Ma che domenica, tra le granate verbali scambiate sotto alle colonne quasi classiche e alla torre quasi mitteleuropea e ai tetti quasi hausmaniani e alla facciata quasi neo barocca del municipio di Bendigo, hanno dimostrato di essere penetrati sottopelle, e più a fondo – di circolare, ormai, nel sangue non più puro di una nazione contagiata dalla Storia. A Bendigo le idee erano ostaggio di nemici irriducibili, eppure indistinguibili. Entrambi radicali. Da un lato una versione estrema dell’ideale di identità, patria e nazione che ha catturato la questione dell’islam e ne ha fatto l’urlo di guerra per un misto di dubbi e paure reali e di pulsioni xenofobe antiche quanto la storia europea del continente. E dall’altro il suo rifiuto, un po’ ribelle e molto socialista, un po’ anarchico e internazionalista, che annovera persone perbene animate da buone intenzioni ma anche pacifisti all’europea, pecore armate di coltelli, e inclini alla rissa. Due compagini irriducibili. Due pulsioni in lotta da sempre sulle pagine della storia d’Europa, ma mai così virulente, da queste parti. E’ stato il dibattito contemporaneo sul multiculturalismo e l’islam a farle emergere in trincee contrapposte – già in guerra, già al redde rationem. Senza mediatori, e senza interpreti. Perché in Australia non c’è proprio nessuno che voglia farsi carico di una questione che non scotta ma brucia.

 

Questa della moschea è una saga esemplare, che si protrae da un po’. Il municipio doveva votare sulla richiesta di erigere un nuovo luogo di culto islamico. La crescente comunità musulmana della regione non ha un’apposita moschea e pertanto vuole colmare questo vuoto. E la storia finirebbe qui, se non ci fosse la Storia. Se non ci fossero lo Stato islamico e le Torri gemelle, al Qaeda e Charlie Hebdo, gli ostaggi del caffè Lindt a Sydney e le bombe nelle metropolitane in Europa, il burqa e i diritti delle donne, la sharia e le decapitazioni degli infedeli. E così la faccenda semplice della moschea ha invece spalancato le porte dell’inferno: consiglieri contro consiglieri, padri contro figli, vicini contro vicini. Il sospetto e la paura si sono sostituiti al raziocinio e alla quotidianità. Bendigo si è trasformata, con il passare dei mesi, dei veti e delle mozioni contrapposte, delle teste di maiale gettate sul sito della moschea e dei proclami reciproci di odio e sdegno, nel fronte insospettabile di una prova di guerra civile. Non più simbolo di una nazione giovane e in crescita, ricca e vanitosa, sicura di sé e del proprio radioso futuro come quando nacque, per un giorno la città è apparsa di nuovo specchio del paese. Ma il riflesso, allo specchio, era di un paese impaurito e confuso, teso e disorientato, impulsivo e diviso.

 

Diviso da movimenti come Reclaim Australia, “Riprendiamoci l’Australia”, una nuova formazione popolare nata sulla scia del grande dibattito su islam e occidente, e con una missione: fermare “l’islamizzazione del paese”, e difendere la way of life che è caposaldo dell’ethos nazionale. La protesta di Bendigo era stata indetta da un gruppo affine, una costola fondata da ribelli e delusi confluiti nello United Front Patriots (Fronte patriottico unito). Nomen est omen, pochi dubbi qui: entrambi i movimenti sono una compagnia poco raccomandabile, simili a ciò che l’opinione pubblica li accusa di essere, cioè di estrema destra. Rappresentano soltanto la sfumatura estrema di un fronte però molto più vario, che vanta anche contatti con partiti come quello olandese di Geert Wilders. Il vertice intellettuale di questo approssimativo schieramento antislamico in Australia è la secretatissima, misteriosissima “Q Society”, una sorta di loggia massonica e di etereo think tank che ripropone le tematiche care a Wilders, e prova a far circolare nel paese le riflessioni maturate negli ultimi anni in Europa a proposito di libertà occidentale e compatibilità con la fede e l’ideologia islamiche. Con un ulteriore salto verso una sfumatura ancor più moderata, poi, c’era anche tanta gente comune, a Bendigo. Semplici esponenti della comunità, mobilitatisi per paura, per nervosismo. Perché le news le guardano tutti e quello che ormai accade in Europa con le sue periferie abbandonate dalla legalità e le sue inconciliabili anime laica e integralista che si sfiorano quotidianamente per strada senza parlarsi e senza rispettarsi, spaventa – e accade, si dice, perché si è perduta l’identità.

 

[**Video_box_2**]Come a ogni protesta del movimento antislamico, anche stavolta si era materializzata una contro-folla variegata di socialisti alternativi, anarcoidi, membri di comitati contro il razzismo e la xenofobia, sedicenti avvocati dei diritti degli immigrati e dei rifugiati. Anche lì, uno spettro di colori, dal rosso più estremo e intollerante all’arcobaleno insipido di una New Age che invece le news non le guarda per niente perché le considera la longa manus di una cospirazione del Potere, e preferisce vivere in un’eterna comune immaginaria, dove la marijuana riconcilia tutto, e tutto è in realtà nulla. Ideologie all’australiana. Senza orpelli, e senza intellettuali. Non ce n’erano, a Bendigo, di intellettuali. C’era la consigliera comunale dai capelli rossi che in città ha guidato per mesi l’opposizione alla moschea e si sgolava da un megafono con la bandiera australiana a mo’ di pareo. E a odiarla come fosse Hitler c’era il giovane alternativo antirazzista che la bandiera patria, invece, la bruciava in piazza. E che se potesse scegliere chi buttare dal proverbiale ponte tra Tony Abbott – il primo ministro vagamente di destra e appena costretto alle dimissioni – e il dittatore nordcoreano, Kim Jong-un, non esiterebbe a liberare il mondo dal crudele autocrate australiano, nemico del popolo e assassino dei diritti umani. Assenti erano anche i musulmani, e non a caso. Perché gli scontri di quella domenica in fondo non riguardavano davvero l’ennesima delle innumerevoli moschee che già operano in Australia. La guerra di Bendigo era l’assaggio di un promesso Armageddon tra due Australie apparse come d’incanto l’una di fronte all’altra. Subito sull’orlo di un divorzio violento, alle cui polveri la questione islamica degli antipodi sembra aver dato fuoco.

 

In mezzo, si ritrova oggi la bussola disorientata della società. E’ accaduto tutto troppo il fretta. Mancano i leader. Mancano gli intellettuali. E mancano i riferimenti culturali per capire le dimensioni e le ripercussioni del problema. Perché l’Australia è ancora oggi più pub che agorà, più stomaco che testa. Più pugni, che inchiostro. Come a Bendigo, in piazza.

 

La politica tace, imbavagliata tanto dal politically correct quanto da una obiettiva incapacità. Tace perché non sa che dire, di fronte al dilemma di sempre: quello di una comunità musulmana fatta in maggioranza di persone che vivono esistenze comuni, e senza ismi. Ma che produce anche le decine di ragazzini fermati a un passo dalla partenza per la Siria e l’Iraq per arruolarsi tra i tagliagole dello Stato islamico. E non c’è, in Australia, alcun alibi di povertà o emarginazione che fornisca una spiegazione comoda cui tutti vorrebbero poter affidare le coscienze. Un problema, insomma, esiste. Qui come altrove. E la piazza si infiamma, e il nodo gordiano di una irrisolta questione islamica rischia, ancora una volta, di finire sciolto con la spada. Oggi era Bendigo, e non conta poi tanto. Ma ieri era Melbourne, e prima era Sydney. E domani. Domani sarà altrove. Ma crescerà. Cresce “Reclaim Australia”, non arretra. S’inalberano sempre più i suoi antagonisti e promettono di esserci, sempre, nella trincea opposta. Tacciono i musulmani d’Australia e lasciano parlare soltanto i loro cattivi ambasciatori. E l’opinione pubblica, imbarazzata dai fantasmi xenofobi con cui fa i conti dai tempi della White Australia, fa quello che può fare quando l’unico riferimento cui ha accesso è un generico sentimento di buona volontà – non capisce fino in fondo, condanna gli estremisti ma senza ben distinguerli, infine si astiene. E non sa che si avvicina sempre più il momento in cui le barricate saranno spinte troppo vicino, e l’astensione non sarà più una possibilità.

 

In quella domenica di fine agosto, la malinconia intrinseca delle strade d’inverno di Bendigo aveva d’un tratto una qualità diversa. Era tristezza. La tristezza di assistere alla deriva veloce, verso scogli noti, di un paese decent – all’inglese, perbene – ma cui nessuno sembra volersi prendere la responsabilità di provare a dare le coordinate giuste quando ancora, forse a differenza che in Europa, si farebbe in tempo. L’Australia ha la febbre, di nuovo. Di nuovo improvvisa. Ed è un’interessante coincidenza storica quella per cui proprio questa elegante e assopita cittadina ne sia stata, di nuovo, l’epicentro. Ieri era l’oro, oggi è altro. Nella sua algida foschia di fine inverno, quella di Bendigo era più che una giornata particolare. Era la manifestazione convulsa di un sintomo. Il sintomo di un corpo sociale che si credeva immune da mali ereditari, e in cui invece si è risvegliato, con la violenza tipica delle malattie infettive contratte in età adulta, il virus latente nel Dna materno.

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