La generazione ubiqua ha il proprio “self” crossmediale già in giro, distribuito tra social network, deep web, portafogli informatici (nella foto la locandina del film “Essere John Malkovich”, 1999)

Pirandello 2.0

Barbara Carfagna
Uno, nessuno e centomila: l’identità digitale, ubiqua e frammentaria, non sempre coincide con quella personale. L’algoritmo del voler essere.

Una mano nascosta nel panciotto, lo sguardo fiero: “Io sono Napoleone”. Oppure, avvolto nel tricolore: “Io sono il presidente della Repubblica”. Un tempo quelli che si presentavano così venivano portati di peso dallo psichiatra. Oggi, invece, potrebbero finire per diventare davvero quello che credono di essere. Incoraggiati nella loro inclinazione dall’algoritmo.

 

Ma partiamo dal principio. Cioè dalle vestigia dell’identità che fu. Da quel pezzo di carta su cui campeggiano nome e cognome e che (ingenuamente, come capirete leggendo) tuttora i comuni chiamano carta d’identità. Per tutta l’epoca predigitale il nome completo, ad esempio Mario Rossi, è stato il simbolo stesso dell’identità; quello che già al suono forniva indicazioni su classe sociale e paese d’origine; raccontava da chi eravamo nati e quale fosse la nostra educazione. In altre parole, cosa si potevano aspettare gli altri da noi e cosa, probabilmente, saremmo diventati dalla maggiore età in poi. Così è stato finché si transitava nell’èra della storia, cioè dopo la preistoria ma prima del computer. Con il recente ingresso nell’iperstoria, nell’era dei Big Data, le cose sono cambiate. E assai. Pirandello e il suo personaggio, Rosario Chiarchiaro, lo avevano capito prima di tutti. L’identità dal Novecento in poi sarebbe stata determinata dalla relazione. Confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, che il Mediterraneo, di cui la Trinacria era fulcro, conteneva già nei tempi antichi valori e riflessioni che i cosiddetti “postevolutivi” della Silicon Valley si illudono di scoprire ora. Dunque nella novella “La patente” il signor Chiarchiaro, licenziato dal suo modesto ma onesto impiego perché ritenuto uno jettatore, fa causa. Vestito da menagramo reclama davanti allo sgomento giudice D’Andrea una patente. Da jettatore. La sua analisi, spietata e lucidamente predittiva del mondo che verrà, è acuta: se il paese gli ha imposto questa maschera, tanto vale accettarla, ricavandone un tornaconto economico: con la sua patente potrà farsi pagare dalle persone per allontanarsi dai luoghi in cui non si vuole arrivi la malasorte, recuperando per sé e la sua famiglia una vita, almeno sotto il profilo economico, dignitosa. La sua identità, dunque, quella che voleva vedere riconosciuta, risiedeva nell’occhio dell’altro. Ed era definita dalla relazione sociale.

 

Ora facciamo un salto in avanti. Immaginiamo, molti anni dopo, i primi iscritti a Facebook ; pensiamoli come fossero le prime persone atterrate su un nuovo pianeta. In quel tempo (era il 2003, forse 2004) si usavano nickname (pseudonimi) e avatar. Era divertente, quasi un gioco di società dal sapore settecentesco; una seduzione tra maschere, parrucche e ventagli digitali. Facebook, invece dei nickname, usava numeri Id: 202, 403 e così via. Numeri che furono sostituiti da nomi e cognomi solo nel 2009, poco prima che il pianeta Zuckerberg, che presto avrà addirittura una sua moneta digitale, raggiungesse il miliardo di abitanti.

 

Oggi nel socialnetwork nome e cognome sono la parte più insignificante. Che coincidano o no con quelli registrati all’anagrafe, diventano infatti “veri”. La seduzione è pressoché scomparsa insieme al mistero e ci si concentra con gran fatica nel costruire e ridefinire quello che un tempo il ventaglio celava. Una mia conoscente, per dire, si è iscritta a Fb con il nickname Mila Vagante e, sebbene la incontri più spesso nella vita fisica di quanto interagisca con il suo profilo fb, che però seguo, non riuscirò mai a ricordare il nome vergato sulla carta d’identità. Per me, e per molti altri, resta e resterà sempre Mila Vagante. E poco importa.

 

Come fosse un nuovo cubo di Rubik, l’infernale grattacapo proposto da social network e motori di ricerca non è ricordare i nomi ma ridefinire noi stessi, la nostra identità digitale e personale: far coincidere chi pensiamo di essere con la persona che gli altri dicono che noi siamo; e anche con il modo in cui ci piacerebbe essere percepiti.

 

E se già ci sembra di affrontare un’operazione troppo complessa, la nostra stima viene spinta decisamente sotto i tacchi nell’osservare che per i nativi digitali, i Millenial, la questione posta dall’identità digitale non è un dilemma esistenziale ma un gioco naturale e spontaneo in cui non esiste mistero, tantomeno pudore; e neanche più vergogna. Il tutto, infatti, avviene in un flusso costante della nostra intimità. Un moderno “stream of consciousness” che viene distribuito nei vari canali delle diverse identità digitali: l’account di Facebook per amici e conoscenti; l’account di Twitter per aggiornarci sulle notizie; le comunicazioni a due nei messaggi sms; quelle ristrette in gruppi di WhatsApp… Un po’ come se il signor Chiarchiaro, sentendosi ormai al sicuro con la faticosamente conquistata patente di jettatore in tasca, ogni giorno uscendo di casa, invece di incontrare la solita vecchia gente nel solito vecchio paese (quelli che lo avevano indicato e poi riconosciuto come jettatore), si imbattesse a ogni angolo in nuove persone che, non sapendo la sua storia, lo trattassero ognuna in modo diverso. Come se, assorto in questa nuova possibilità di cambiamento, si trovasse oltretutto a percorrere strade diverse e mai viste; strade da cui partono altri vicoli, e poi ancora altri viali; e passeggiando per questi viali si imbattesse in una nuova chiesa in cui entrare; o in un bar che ha appena annesso una nuova sala da biliardo (i giochi online come Ruzzle o Candy Crush diventano rapidamente luoghi di incontro oltreché di sfida, come lo erano un tempo le sale da biliardo, poker o i casinò, dove si può entrare con il proprio nome o con un altro e giocare con sconosciuti o conoscenti, celati o visibili). Sarebbe più difficile per Chiarchiaro, in un continuo divenire, restare per sempre e per tutti “solo” uno jettatore.

 

Il cambiamento, epocale, non finisce qui. Anzi, inizia da qui: “Internet cambia le condizioni sociali in cui viviamo, modifica la nostra rete di conoscenze e il flusso delle notizie che riceviamo. Rimodella natura, vincoli e disponibilità che regolano la presentazione di noi stessi al mondo e quindi, sia pur indirettamente, a noi stessi”. E’ il cosiddetto “social self”, il sé sociale, secondo il filosofo Luciano Floridi, professore di Etica dell’informazione a Oxford, il canale principale attraverso il quale l’Ict (Information Communication Technology) esercita l’impatto più profondo sulle nostre identità personali.

 

Floridi, padre di quella illuminante parola che è “infosfera” (l’ambiente connesso in cui tutti noi ormai viviamo insieme ad oggetti, bit, piante, atomi, animali e processi connessi a internet) nel suo libro “The fourth revolution” ci fa notare che i feedback che otteniamo online cambiano (quella che credevamo essere) la nostra identità. Ad esempio: se ci mostriamo equilibrati nei social network, perché vorremmo esserlo nella vita (mentre in realtà siamo un po’ lunatici, o “bipolari” come ci hanno insegnato a dire gli anglosassoni), la gente comincia a trattarci come tali. A quel punto cominciamo ad affinare i nostri comportamenti online per sembrare sempre più stabili. A forza di studiare il comportamento equilibrato ed essere trattati come fossimo Osho, finiremo probabilmente per diventare veramente più stabili e affidabili. Avendo per di più risparmiato i soldi del coach, del mentor e dell’analista. Il nuovo stress è quello di avere sempre presente come si viene visti dagli altri.

 

Per tornare all’esempio iniziale: se la gente pensa che Giancarlo Magalli sia un potenziale candidato alla presidenza della Repubblica e a lui piacerebbe esserlo, comincia a concepire se stesso come un possibile candidato, e a comportarsi come se lo fosse; fino magari a diventarlo veramente. Su Google l’algoritmo assocerà nei risultati delle ricerche il suo nome al Quirinale, invece che allo studio Rai de “I fatti vostri”, e magari verrà alla fine candidato ufficialmente. Non è così che è finita qualche tempo fa, ma poco ci mancava.

 

L’algoritmo dunque fa una gran parte del lavoro: se, poniamo, si vanno a cercare spesso su Google informazioni su rilassamento mentale, equilibrio e affini, l’anticipatory computing (l’anticipazione che i motori di ricerca fanno delle nostre richieste basandosi sulle interrogazioni precedenti) ci proporrà in tutte le salse informazioni che “ritiene” ci potrebbero interessare. Conseguenza: la selezione di informazioni mirate ci educherà sempre più e sempre meglio, orientandoci proprio verso la nuova persona che vogliamo essere. L’educazione infatti, ricorda Floridi – che come consulente della Nato e dell’Unione europea fa continuamente le pulci al nuovo sistema di potere che le aziende tech stanno costruendo – altro non è che trasmissione di conoscenza.

 

“Informazione siamo e informazione torneremo”, chiosa il filosofo agnostico, parafrasando la frase biblica. Credenti e no, sentiamoci dunque responsabilizzati su quali informazioni cerchiamo, quali ci vengono proposte senza che le abbiamo richieste, e quali lasciamo entrare nelle nostre menti e nei nostri corpi: queste informazioni formano, manipolano e cambiano la nostra identità. Noi “siamo” le informazioni che ci compongono.

 

E facciamo allora un ulteriore passo avanti con una inevitabile domanda da cui il signor Chiarchiaro per ragioni storiche si è salvato: se nell’iperstoria le intelligenze non sono più solo umane ma anche artificiali, connesse e collettive, chi siamo noi agli occhi degli altri esseri intelligenti dell’infosfera, cioè dei computer? Louis Von Han è il ventenne sudamericano che si è posto per primo il problema di come far sì che un umano possa essere riconosciuto tale dai computer. E ha inventato il codice captcha. Quello che costringe tutti noi ad umiliarci quotidianamente. Quando, ad esempio, aprendo la nostra mail compare la scritta “riscrivi questa sequenza di numeri e lettere nel riquadro”. Ce lo chiede l’intelligenza artificiale. E noi obbediamo, per rassicurarla sulla nostra appartenenza all’umanità e lasciare che un software ci conceda l’accesso alle nostre stesse informazioni.

 

Ricapitolando: la nostra identità digitale (sempre più inseparabile da quella reale) non è una; non è fissa e dipende dal contesto in cui ci si muove. Si stacca dal corredo burocratico, si frammenta in tante identità e crea nuovi passaporti come la “Onename” (un lasciapassare digitale che dà accesso alla blockchain: il libro mastro pubblico e condiviso sul quale si basa la rete Bitcoin), o “Identify” (un plugin, un programma non autonomo che consente l’estensione di una funzione di un altro programma) per entrare in un’azienda.

 

[**Video_box_2**]Stefano Pepe, autore del libro “Investire Bitcoin” è uno startupper, “evangelist” (eh già, anche il vangelo è stato saccheggiato e tradotto dai guru della California) di blockchain, monete matematiche e sistemi decentralizzati. Ritiene che l’identity management stia diventando centrale per posizionarsi nel mondo e che l’identità digitale, ubiqua e sempre manifesta, vada sganciata da quella anagrafica. Cioè: dobbiamo renderci riconoscibili per i computer ma non per gli altri uomini, a meno che non appartengano alle forze dell’ordine. E ci spiega perché. La premessa è che tutti i sistemi informatici hanno bisogno di riconoscere le persone per garantire loro l’accesso, utilizzando (come Alì Babà con “apriti Sesamo”) una parola segreta, la “password". Le password sono associate ai dati personali, per fare in modo che un amministratore di sistema possa riconoscerci e intervenire nel caso sia necessario ripristinare l’accesso: a volte basta dare il nome, il cognome, la data di nascita e la risposta a una o più “domande segrete”. Ma oggi i segreti non esistono più. Poniamo che i quaranta ladroni avessero potuto appuntare “apriti sesamo” su un qualsiasi device digitale. La formula magica sarebbe stata alla mercè di tutti gli hacker e cracker (i cattivi) del mondo e non solo di Alì Babà appollaiato sull’albero. In altre parole, non avendo più noi infallibile memoria, e distribuendo alla rinfusa i nostri dati in giro, queste informazioni personali non possono più ritenersi riservate. Anzi, spesso le pubblichiamo candidamente su Facebook, quindi chiunque con le dovute ricerche può impersonarci di fronte all’amministratore di sistema, rubando l’accesso. E allora? “Dobbiamo ripensare da zero il modo in cui i computer ci riconoscono, rimuovendo del tutto l’utilizzo delle generalità anagrafiche”, racconta Stefano Pepe. Questo è possibile perché da un lato le tecnologie di riconoscimento biometrico, come il lettore di impronte digitali o dell’iride si sono evolute al punto da poterci rappresentare matematicamente in modo accurato. Dall’altro, poiché un software di riconoscimento utilizza sequenze di lettere e numeri comparate su base matematica, mettere un nome proprio o uno pseudonimo tecnicamente non cambia nulla.
“Siamo di fronte a identità puramente matematiche che possono rappresentare allo stesso modo uomini e macchine, rendendoli indistinguibili in Rete e quindi conferendogli gli stessi diritti”, continua Pepe. Decentralizzare la propria identità è il passo successivo per non farsi rubare tutto, dai pensieri ai soldi. Indispensabile per garantire la propria sicurezza. La differenza è un po’ quella che c’è tra un organismo umano che attaccato negli organi vitali muore e una pianta che, se tagliata nel punto giusto e interrata, non solo sopravvive, ma genera altre piante.

 

“Per non vedere attaccata la propria identità digitale, e quindi il proprio denaro, la propria corrispondenza, informazioni e dati sensibili, basta privarsi di un’autorità centrale che possa gestire, o revocare, le identità digitali delle persone. Un potere che oggi affidiamo a società private e su cui si giocano business milionari”.

 

Pepe fa parte della generazione ubiqua. Il suo “sé” o “self” crossmediale è già in giro, distribuito tra social network, deep web, portafogli informatici in cui custodice bitcoin, e mille altri rivoli ai più sconosciuti. Inseguito dal corpo, che Pepe trasporta ora in monopattino, come amano spostarsi in Silicon Valley; ora in macchinina biposto elettrica, utile nel traffico romano; in aereo o su scarpe da corsa supertecniche. Il corpo, quel vecchio e lento organismo centralizzato, resta forse ormai l’unico elemento identitario che accomuna le generazioni di umani nell’infosfera, in questo periodo di transito tra un’èra e l’altra.