Michael Caine e Harvey Keitel in “Youth” di Sorrentino. Speravamo che il loro duetto potesse portare, se non altro, a replicare i vecchietti Hilton e Waldorf che borbottano in “The Muppet Show”

Il grande sonno

Mariarosa Mancuso
Beati voi che non siete stati a Cannes. Mariarosa Mancuso rivede i film in concorso e stila una guida alle cinquanta sfumature di noia e sbadigli. Si parte con Rossana della Perugina. Poco allettante “Rams”? Confrontatelo con “The Tribe”, ora nelle sale, dove tutti parlano la lingua dei segni ucraina.

Non si interrompe un’emozione. Per noi che abbiamo visto il film di Paolo Sorrentino senza entusiasmo, apprezzando qualche scena e detestandone parecchie, il comunicato stampa “Rossana di Perugina partecipa a ‘Youth – La giovinezza’” mette curiosità. Chi sarà mai “Rossana di Perugina”? Una comparsa a mollo nella piscina termale, desiderosa di far circolare il proprio nome a futura memoria registica? Macché: Rossana è la caramella, marca Perugina, che si esibisce tra le dita di Michael Caine all’inizio del film, quando ancora speravamo che il duetto con Harvey Keitel potesse portare a qualcosa (se non altro, a replicare i vecchietti Hilton e Waldorf che borbottano dal palchetto, in “The Muppet Show”).

 

Per essere precisi, è la carta della caramella che l’ex direttore d’orchestra in vacanza a Davos fa frusciare tra le dita, mentre la didascalia (immaginaria, ma incombente), dice “musicista una volta, musicista sempre”. Piazzamento di prodotto più elegante rispetto all’eroe che beveva whisky e fumava sigarette mettendo a favore di macchina l’etichetta e il pacchetto. Ma pur sempre piazzamento di prodotto, che non sfugge al Generatore Automatico di Scene dal Prossimo Film di Sorrentino sul blog Libernazione, by Alessandro Capriccioli (Umberto Eco, nel “Diario minimo”, aveva sottoposto alla cura Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini).

 

Personaggi sopra le righe: una ballerina maori meticcia, una contorsionista irachena rapata a zero, una ballerina cingalese con trecce bionde. Luoghi esotici, rumori “presi dalla vita” (la carta della caramella, appunto) come preludio per brani fighetti. Stacco su una scena che non c’entra nulla con la precedente, e giammai con la successiva. Primo piano sul protagonista che pronuncia con enfasi frasi di puro buon senso (in questo il Generatore Automatico concorda con il critico americano che riassume così il nucleo filosofico di “Youth”: “Sorrentino ci dice che si nasce, si invecchia, si muore”). Dedica (a John Lennon o a Alberto Tomba, l’Oscar vinto con “La grande bellezza” fu dedicato a Fellini e a Maradona). The End. (Mancherebbe il litigio fuori dal cinema, se non scegliete bene la compagnia, ma per questo il regista fornisce solo il materiale grezzo).

 

Non si interrompe un’emozione, anche se in materia Cannes 2015 scarseggiava. Le ha garantite quasi tutte Todd Haynes con “Carol”, dal romanzo di Claire Morgan (una giovane Patricia Highsmith sotto pseudonimo). Serve allo scopo anche un pigiama a pois, scolorito al punto giusto perché la ragazza fa la commessa precaria a Natale, reparto giocattoli, e certo non ha il guardaroba di Cate Blanchett. Galeotto sarà un paio di guanti dimenticati sul bancone (le bambole esposte sono incantevoli, anche se poi la signora ripiega sul trenino elettrico). Cerca e ricerca, fornivano qualche consolazione i film romeni in programma a Un certain regard, “I vicini di sotto” di Radu Muntean (mancanza del più basilare senso civico, e quotidiana corruzione) e “Il tesoro” di Corneliu Porumboiu: si scava in giardino per disseppellire il tesoro nascosto dal bisnonno per timore dei comunisti. Storia presa dalla vita del regista – un tormentone quest’anno, sembrava di essere ritornati in pieno neorealismo – ma ben accomodata per interessare lo spettatore.

 

Solo al Festival di Cannes capita di trovare nella Sélection Officielle (vuol dire: il festival tranne la Quinzaine des Réalisateurs, gestita in autonomia dai registi francesi, e La Semaine de la Critique, gestita dai critici) non uno ma due film con le pecore. “Rams” (come montoni) e “Lamb” (come agnello) erano i titoli. Il primo, firmato dall’islandese Grimur Hakonarson, ha vinto la sezione “Un Certain Regard”. I fratelli Gummi e Kiddi da 40 anni non si parlano, pur vivendo in fattorie vicine e sfidandosi al concorso per il montone più leggiadro. Riprendono a farlo (lo stretto necessario) quando le autorità danno l’allarme – “è pecora pazza” – e impongono lo sterminio degli ovini. Se vi pare una trama poco allettante, confrontatelo con il vincitore alla Settimana della Critica 2014, da giovedì scorso nelle sale. Si intitola “The Tribe”, tutti parlano la lingua dei segni ucraina (fa da sfondo un istituto per sordomuti) senza il beneficio dei sottotitoli. Perlomeno i fratelli pecorai hanno un briciolo di umorismo, e il regista (ex documentarista) non pretende di spostare i confini del cinema come noi lo conosciamo.

 

Una pecora marroncina, riccioluta e pulitissima sta in “Lamb” di Yared Zeleke. Cresciuto in uno slum di Addis Abeba, ha studiato cinema alla New York University (bello sapere che in Etiopia la scuola fa ancora da ascensore sociale). Sa come si conquistano gli spettatori etnicamente corretti: la pecora da compagnia, e anche il ragazzino che le sta appiccicato, deve essere linda e caruccia, da disegno animato di Walt Disney o da “Babe maialino coraggioso”. Deve essere in pericolo, quando certi parenti chiedono al ragazzino rimasto orfano di sacrificarla, dunque l’orfano si stringe all’animale e scappa. La pecora ha qui lo stesso ruolo del cane nel “mendicante con il cane”, forma di accattonaggio deprecata da Giorgio Manganelli: un colpo basso, al cane non si resiste. Sugli schermi vediamo squartare umani senza batter ciglio (e George Clooney ha ancora la schiena malconcia dopo le legnate ricevute in “Syriana”) ma sempre compare la scritta “nessun animale è stato maltrattato durante le riprese”.

 

Per lunga frequentazione festivaliera (e altrettanta frequentazione di pellicole made in Italy) di noia ne abbiamo patita tantissima. Nessuno, per favore, tiri fuori il “Bisogna sapersi annoiare” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: lui discorreva di letteratura inglese, non conosceva l’esistenza di Sharunas Bartas o di Manoel de Oliveira (buonanima; resta sempre l’interrogativo sulla sorte dei registi noiosi, nell’aldilà). Di noia ne abbiamo patita: guardando l’orologio che sembra rotto, commentando tipo Gialappa le battute (per questo serve un complice), immaginando la scena successiva, sbadigliando. Per certi film, bastano le prime immagini e il primo “sciabadabadà” o “plin, plon plon”: dopo cinque minuti si capisce se sarà brutto, bruttino, bruttissimo, pretenzioso, di interesse etnologico, lento come una glaciazione (ultima formula, a sostituire “la pittura che asciuga” e “l’erba che cresce”).

 

Facendo tesoro dell’esperienza (“è tutta esperienza, un vero peccato che ce ne debba essere così tanta”: sono le sagge parole di Martin Amis, che intitolò “Esperienza” l’autobiografia) abbiamo capito che la noia al cinema non è tutta uguale. Si abbatte sullo spettatore in molte sfumature. Quest’anno a Cannes ha trionfato la noia spiritualista. Dominava il film di Gus van Sant (foresta giapponese per suicidi), invadeva il film di Gustave Nicloux (Death Valley californiana), si annidava in ogni fotogramma del film diretto dal venerato maestro tailandese Apichatpong Weerasethakul “Cemetery of Splendor” (cronicario per soldati così dormienti da rasentare il coma, e non arriva nessun Oliver Sacks a levarli dal letargo, sui titoli di coda servirebbe il trillo della sveglia per lo spettatore appisolato).

 

Fischiato il primo, “The Sea of Trees”: così sonoramente che si minaccia un cambiamento nel calendario festivaliero: prima la proiezione ufficiale, dove il pubblico applaude regista e attori in sala, poi la proiezione per la stampa, che ha il dito avvelenato su twitter. Acclamato dai francesi (davanti all’accoppiata Isabelle Huppert-Gérard Depardieu smarriscono la decenza) il secondo, “Valley of Love”. Osannnato il terzo: il regista già ebbe una Palma d’oro, per “Zio Boonmee che ricorda le sue vite precedenti” (quell’anno tornammo da Cannes, e si parlava solo del finale di “Lost”: un po’ di giustizia poetica esiste).
Per la serie “audaci paralleli”, sul sito Indiewire un articolo mette in parallelo “Cemetery of Splendor” a “Inside Out” di Pete Docter, di tutti i film visti al festival di Cannes il più materialista. I frenologi dividevano il cranio in settori: qui il bitorzolo della rabbia, laggiù la fossetta della dolcezza, poco distante il territorio dell’intelligenza (si esercita nell’arte, con il martelletto, Leonardo DiCaprio in “Django Unchained” di Quentin Tarantino). Nel film della Pixar, al quadro comandi abbiamo cinque personaggini monomaniaci: la Tristezza lagnosa sempre, la Rabbia fumante per il minimo intoppo, la Paura sull’orlo di una crisi isterica, il Disgusto color del broccolo, la Gioia sempre esaltata. Governano la mente di una ragazzina (anche noi li abbiamo nella testa, ugualmente litigiosi, suggerisce il film), accumulando ricordi a forma di biglia. La sera vengono sistemati nella Memoria a Lungo Termine, che poi forma le Isole della Personalità, attraversate dal Treno dei Pensieri.

 

[**Video_box_2**]Nel cervello della ragazzina Riley ferve l’azione, mentre la barbosità spiritualista prevede un personaggio rintronato in scena (Matthew McConaughey in “Sea of Trees”, ormai troppo affezionato ai borderline tra vita e morte, non rifarà neppure il muscoloso spogliarellista in “Magic Mike 2”) e un caro estinto a fare da pendant. Sì, pare un romanzo di Nicholas Sparks, specializzato nella trama “le parole che non ti ho detto”: lettere sigillate in una bottiglia, che miracolosamente arrivano a destinazione. Prevede giganteschi sensi di colpa – verso la moglie maltrattata, verso il figlio suicida – fatti espiare all’incolpevole spettatore. Prevede fiorellini che spuntano dalle rocce, nel colore preferito dalla defunta (ricostruito attraverso una sciarada in giapponese, l’amoroso maritino non sapeva quale fosse, e ditemi voi se si può vivere in coppia per anni senza sospettarlo). Prevede polsi e caviglie urticati da “colui che non è più”. Il tailandese ovviamente supera tutti, moltiplicando i comatosi e alzando di grado i defunti: risulta che l’ospedale dei soldati sia collocato – no, non sopra un cimitero indiano, quello sarebbe Stephen King, bensì sul terreno dove battagliavano antichi re, che ora combattono sotto terra suggendo energia dai dormienti. (Per forza poi uno si butta su “Mad Max: Fury Road”, del settantenne George Miller: il cattivo combatte con il suo personale fornitore di sangue attaccato a una flebo, al cinema rende meglio).

 

La noia realista – “guarda mamma, proprio come la vita!” - era in “Chronic”, del giovane messicano Michel Franco. L’infermiere Tim Roth passa da un malato terminale all’altro, ed è giusto che li lavi con cura, per carità, son persone che bisogna ringraziare per il lavoro prestato. Però non è necessario che lo spettatore conosca tutte le tecniche: malato a letto, malato su sgabellino in doccia, malato con figli che sbirciano. Anche l’infermiere vanta un coté “trapassati” – nei film mediocri non si fa pressoché nulla che non derivi da un trauma, e solo gli sceneggiatori davvero bravi riescono a mascherare la meccanicità del rimpallo con la buona scrittura. Sidney Lumet bollava i tentativi malriusciti come “psicologia del pupazzetto”: “gli hanno rubato il giocattolino da piccolo, da grande è diventato un serial killer”. Cosa avrebbe detto Lumet del finale di “Chronic”, non è dato sapere: lo spettatore ha la nuvoletta che nelle storie di Topolino sostituiva le imprecazioni con i disegnini.

 

Alla noia estetizzante provvedeva “The Assassin” del taiwanese Hou Hsiao-Hsien, per i critici dormienti durante la proiezione meritevole di Palma d’oro (gli hanno dato solo il premio per la regia). Cappa e spada – wuxia, per gli spettatori orientali – così d’autore che combattono pochissimo, stanno perlopiù immobili e silenziosi al centro dell’immagine composta con maestria. L’arte passatella del quadro vivente, sempre velato da tende o tendine, con fiammelle ovunque, fiori intonati al sangue, laghetti argentei, antiche giade per riconoscersi (siamo nel IX secolo). Da quando il cinema è un’arte contemplativa? I Lumière spaventavano con l’arrivo del treno in stazione, Méliès spediva razzi sulla luna e si inabissava nelle profondità marine. I quadri con le ninfee erano già stati inventati da un pezzo, non c’era bisogno di inventare la cinepresa per rifarli uguale.

 

Per la noia impegnata c’era “Louder Than Bombs” del norvegese Joachim Trier. Di nuovo Isabelle Huppert, fotografa di guerra con il giubbotto antiproiettile sopra la camicia (anche lei deve aver fatto mettere sui contratto che non si cambia da un film all’altro). Il marito Gabriel Byrne sacrifica la carriera d’attore per i figli, mentre lei si interroga sulla rappresentazione del dolore (e intanto il regista rappresenta il dolore sullo schermo, se non riesci a interessarli, vai di commozione). Poi decide di cambiar vita, e zacchete! muore in un incidente stradale vicino a casa. Lo stesso film provvedeva alla noia surrealista, una delle più letali mai conosciute: i sogni e gli incubi erano di rara bruttezza, e di facilissima interpretazione. La noia pornografica era “Love” di Gaspar Noe, e lo stesso film provvedeva alla noia filosofica (cosa non si sopporta pur di vedere uno spruzzo lattiginoso in 3D, dritto sulla faccia dello spettatore). Per la noia culinaria, la ricetta della crema dolce di fagioli in “An” di Naomi Kawase: il fagiolo bollito deve riposare? E allora che riposi, mentre lo spettatore guarda e sbadiglia.

 

Alla noia polemica provvedeva la questione dei tacchi alti sul red carpet. Risolta una volta per tutte con l’apparizione di Jane Birkin in scarponcini di vernice, sotto un completo maschile con camicia bianca, alla cerimonia di premiazione. Era la più elegante di tutte: di Sabine Azéma in voile giallo, di Laetitia Casta in frange nere, di Valeria Bruni Tedeschi in giacca e pantaloni bianchi su zeppe rosse. Risolta una volta per tutte anche la lagna sui prezzi (a Cannes più bassi che a Milano). Su Studio Ciné-Live si legge: “Idiota il dibattito sui prezzi del pan bagnat sulla Croisette. Niente impedisce di mangiare caviale”. Dicesi “pan bagnat”, da quelle parti, una pagnotta da mezzo chilo farcita con una ricca salade niçoise.

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