Anton Ego di “Ratatouille” ha le occhiaie, il nasone, le mani come artigli che stridono sulla tastiera. Abita in una cripta da vampiro

Io ti stroncherò

Mariarosa Mancuso
Umore cupo, abito trascurato, il pallore di chi ha una missione da compiere. Insofferenze e tic dei critici cinematografici. La borsa sempre di provenienza festivaliera. Il dress code impone di sfoggiare a Venezia la sacca della Berlinale, e viceversa.

Dress code: cupo, come l’umore. Fuori dalla sala o in platea, i critici di cinema ostentano totale disinteresse per un abbigliamento che non dimostri trascuratezza. Colori scuri, misure a spanna, scarpe grosse o sneaker, sono la divisa dei più giovani, perlopiù blogger. Vanno fortissimo le felpe e le magliette-gadget dei film, meglio se sotto la giacca (Tarantino non ha dato via libera soltanto a schiere di imitatori privi di talento, ha fatto anche parecchi danni all’estetica del critico). Sciarpetta alla Roberto Saviano prima maniera, pallore adeguato a chi ha una missione da compiere, mica andiamo al cine per divertimento.
Qualche completo e capelli in sfumature più scure di quanto l’età consentirebbe identificano la vecchia guardia, viva o compianta. La stessa che coglie l’occasione dei festival estivi (del tipo serio come la Mostra di Venezia o del tipo turistico come il Festival di Taormina) per esibire giacche e calzoni chiari da esploratore Livingstone in cerca della sorgente del Nilo, ancora più raccapriccianti quando prevedono un cappello parasole. Per la guardia giovane c’è il berrettino, sempre di provenienza promozionale (il più curioso ricevuto in dono era un cuculo di lana nera con la scritta “300”, come se gli spartani avessero bisogno di tenere le orecchie al caldo).

 

Di provenienza festivaliera deve essere in ogni caso la borsa. E’ usanza riceverne una in regalo assieme al badge dell’accredito – da portare sempre al collo nei festival importanti. A Cannes gli addetti strofinano il pollicione sulla fotografia per smascherare gli impostori, se lo perdi va fatta la denuncia in polizia e come minimo perdi tre film. In tempi pre-internet, c’erano pure tre chili di catalogo dentro, che ora solo la vecchia guardia porta a casa e allinea diligentemente nello scaffale assieme a “Nuovo cinema Pesaro 1978”, o “Torino Cinema Giovani 1982”. Il dress code impone di sfoggiare a Venezia la sacca della Berlinale, o viceversa (i veterani di Locarno esibiscono accessori a macchie di leopardo gialle e nere: infradito, impermeabile, zainetto).

 

Così rimpannucciato, il critico punta sempre allo stesso posto in sala: su certe poltrone si potrebbe mettere la targa con nome e cognome. La guardia vecchissima e la nuovissima prediligono le prime file, per obbligo cinéphile: i francesi che gravitavano attorno ai Cahiers du Cinéma avevano una venerazione per le particelle luminose provenienti dallo schermo, più vicino era meglio. Chi non coltiva la mistica della proiezione (del resto ormai sono tutte digitalizzate) sceglie le ultime file per leggere i sottotitoli senza farsi venire il torcicollo, laterali per fuggire in caso di sbadiglio. Ricercati come in aereo, anche per allungare le gambe, venti minuti prima dell’inizio sono già occupati, al contrario di quel che accade nelle sale dove lo spettatore pagante tende a conquistare il centro sala.

 

Uscire sarà più facile, in caso di bisogno e fatto salvo il senso del dovere (sarebbe però gradito il senso del dovere speculare, da parte di chi sceglie i film e dovrebbe bocciare certe schifezze). Da qui la meravigliosa definizione di “Concerto pour claquements de fauteuils” letta anni fa su Libération e mai dimenticata: in certe sale, quando uno si alza, il sedile scatta indietro con un “clac”, provocando un concertino ritmato di percussioni. La lettura integrale dei titoli di coda – paragonabile alla fissazione di chi annusa i libri tolti dal cellophane –  è anche questa appannaggio dei dilettanti o degli sfaticati: nei film di supereroi possono durare cinque minuti buoni.

 

La critica teatrale in “Birdman” – “la vedi quella nel tavolo in fondo, quella che sembra aver leccato il culo di un barbone”: con queste parole Michael Keaton la presenta a Edward Norton – è una signora elegante con i capelli bianchi. Avrà i suoi pregiudizi contro le star che invadono il sacro palcoscenico, ma promette una conversazione interessante. Gli altri critici che abbiamo visto sullo schermo, per non parlar di chi siede in platea, sono meno presentabili in salotto. A conversazione sono messi maluccio, logorroica la vecchia guardia, afasica la nuova. Non bastasse, caldeggiano film che nessuno ha mai visto, e invece non hanno visto il film di cui tutti vorrebbero sentir parlare. E’ andata di lusso soltanto con “Cinquanta sfumature di grigio” in programma alla Berlinale: unica volta in cui hanno ben figurato in società dichiarando che otto frustate sono troppo poche. Di dire “era meglio il libro”, altro tormentone caro alla categoria, nessuno se l’è sentita.

 

Guardate Leonard Maltin, compilatore del dizionario da cui deriva anche il Mereghetti (l’americano usciva ogni anno, utilissimo nei tempi preistorici antecedenti a IMDB, dove ora troviamo tutto quel che serve, anche a perdere tempo): orecchie a sventola, giacche a scacchettoni, occhiali da nerd, quando i Gremlins lo strozzano con la pellicola sembra uno di loro, solo più corpulento. Anton Ego di “Ratatouille” ha le occhiaie, il nasone, le mani come artigli che stridono sulla tastiera, pure lui con sciarpetta (ma sul completo nero),  quando non mangia al ristorante pregustando il momento di stroncare il cuoco abita in una cripta da vampiro.

 

Fuori dall’Italia troviamo più varietà. I francesi si distinguono tra i fighetti di Les Inrockuptibles, i radical chic di Libération, gli intellettuali del Monde che affrontano il cinema come se fosse un saggio con le note a piè di pagina. Sono riconoscibili a cento metri di distanza, quando ancora non hai visto nome e testata sull’accredito penzolante. Il tedesco alla Berlinale è preoccupato soprattutto di chi prenderà il Teddy come miglior film a tematica gay (oops, ora bisogna dire LGBT, ovvero Lesbian, Gay, Bisexual e Transgender; allo stesso modo, se dite “sadomaso” ormai sembrate vostra nonna, bisogna dire SMBD, la B sta per Bondage e la D per Discipline). I russi sono scamiciati, nel senso della camicia fuori dai pantaloni, e a nostro insindacabile giudizio vincono il premio come più forti russatori da poltrona. Riescono ad addormentarsi ovunque, anche sulle scale quando non c’è di meglio, come se soffrissero di narcolessia.

 

La critica femmina è una minoranza nella categoria, di solito le mandano a occuparsi del colore: vuol dire feste e gossip, cose che non obbligano a vedere i film. Le incontri vestite per uccidere, tacchi alti e parrucchiere, pure reduci dal massaggio (“non sai quanto costa il coiffeur che viene in albergo”, è una frase che abbiamo sentito con le nostre orecchie, e ancora ci chiediamo in quale conto spese sia finito l’ammontare), dirette su qualche yacht di qualche stilista. quando gli altri ormai pensano al lettuccio, all’indomani bisogna fare la fila per un film poco invitante. Ma siccome quel che hai la tentazione di saltare, e Dio non voglia davvero salti, finisce che vince – la lista è lunga, a cominciare da “Rosetta” che svelò al mondo l’esistenza dei fratelli Dardenne (“un belga, anzi due…” si cavavano d’impaccio Cochi e Renato incerti sul plurale) – si punta la sveglia e via.

 

Il dress code è cupo, l’umore intonato. Vanno al cinema di pomeriggio, ai festival anche di mattina, sono pagati per farlo e hanno licenza di uccidere, e non sono neanche un po’ contenti di aver azzeccato il mestiere più bello del mondo. Lo vivono come un sacrificio estremo a cui si sottopongono in nome dell’arte, uno sporco lavoro che – come diceva John Wayne – “qualcuno deve pur fare”. Una condanna per chissà quali colpe commesse in passato, come sosteneva Robin Williams in “La leggenda del re pescatore” a proposito dell’induismo: “Sbagli una volta paghi per sempre”. A vedere certe facce sconsolate, se ne deduce che quando hai commesso le colpe più atroci finisci reincarnato in un critico di cinema.

 

[**Video_box_2**]Da quando i festival abbiamo cominciato a frequentarli muniti di accredito, mica la tessera studentesca per il Festival di Locarno che il liceo forniva ai primi cinque che alzavano la mano – non la alzò nessun altro, lo ricordiamo bene, erano tutti impegnati in politica – la cupaggine rimane una costante. A nostre spese, e dopo molte figuracce, abbiamo imparato che la giusta risposta alla domanda da festival “Come va?”, non è: “Non c’è altro posto al mondo in cui vorrei essere”. Bensì il conto alla rovescia che misura i giorni mancanti alla premiazione, pronunciato con il tono di chi sta scalando il K2. Non per la smania di sapere chi vince. Per tornare a casa, scendere dall’aereo e telefonare alla consorte “butta la pasta” (garantiamo che tutti gli aneddoti, le conversazioni, i dettagli di questo articolo sono veri, non facciamo i nomi perché non abbiamo bisogno di altri nemici).
Sono cupi anche a casa, non solo in trasferta dove la prima occhiata va al badge, per sapere a quale categoria appartieni, e la seconda è “in che albergo stai?”. Succedeva quando le spending review non erano ancora micidiali (ancora possediamo copia di una  Guidetta Michelin fatta in casa, ogni festival aveva i suoi ristoranti con le stellette), figuriamoci adesso. Prima o poi, parlando di accrediti, unico contensto in cui la si usa senza farsi sbeffeggiare, viene fuori la parola “classista”. E a proposito dei tizi in uniforme che regolano il traffico a Cannes – poveretti che stanno in piedi al sole, spesso anche anziani, convinti che le regole vadano rispettate – vien sempre fuori il furbone che rivela “prima erano nella legione straniera”. A Venezia invece nessuno si lamenta se le categorie fanno file separate e poi entrano tutte insieme tipo mandria.

 

Qualche anno fa circolava alla Fiera del libro di Francoforte un dizionarietto compilato da Oliviero Ponte Di Pino. In una colonna il gergo degli addetti ai lavori, nell’altra colonna la traduzione per i non eletti. “Non è un film da festival” farebbe pensare a un film scarso o brutto, ma tra gente che se ne intende vuol dire il contrario. Segnala un film ben riuscito, spesso anche divertente, e quindi per questo giudicato indegno di una rispettabile manifestazione. “Vincerà”, pronunciato all’uscita di una proiezione festivaliera, non è un apprezzamento. Vuol dire “fa così schifo che lo faranno vincere” (ecco cosa il critico in genere pensa delle giurie). “Incasserà”, pronunciato all’uscita di un’anteprima cittadina, organizzata per i film che usciranno nelle sale, è altrettanto negativo: vuol dire “tanto brutto che le masse popolari accorreranno”. “Cameo” e “attore feticcio” sono ormai una iattura, oltre al resto denunciano impietosamente l’età non più verde del critico.

 

La lingua italiana, parlata e soprattutto scritta, non è un requisito d’entrata: abbiamo letto prostituta “d’alto borgo” (per dire di lusso, ossia “d’alto bordo”), più di recente “il troppo storpia”. Sapranno l’inglese benissimo? Non si direbbe, le proiezioni in versione originale con i sottotitoli suscitano ancora proteste, e un “gorilla marketing” che attirò l’attenzione – che sarà mai? un gorilla che distribuisce volantini?– fu decifrato poi in “guerrilla marketing”.

 

Alcuni esemplari sono in via di estinzione, altri già estinti. Abbiamo conosciuto gente che riteneva il muto l’unico vero cinema. Abbiamo fatto in tempo a vedere chi dettava i pezzi al telefono della sala stampa, ed essendo sordo lo faceva urlando. Qualcuno ancora si porta dietro le pennette con la luce, per prendere appunti – c’erano, poi sparirono, si favoleggiava che ormai le fabbricassero solo in India – ma soprattutto abbagliare il vicino. Bisogna dire comunque che il buio in sala, tra le luci sopra le uscite di sicurezza e i cellulari sempre in funzione, è più facile averlo con il maxischermo in salotto.

 

C’era un critico con bastone e sandali che usciva dalle proiezioni con la recensione bella e fatta, comprensiva di punti e virgola e di etichette irritanti come “film minore” e la raccontava al vicino. Sì, per orecchiare si orecchia spesso e volentieri, prima e dopo il film, anche se non ce ne sarebbe più bisogno: il pensiero, o la battuta, appena concepiti sono già su twitter. I telefonini squillano durante le proiezioni con le più assurde suonerie (spesso li sentono solo i vicini di poltrona, il legittimo proprietario che ha scordato di silenziarli ha il sonno pensante). Abbiamo sentito L’Internazionale, Oci Ciornie, Toreador, e ogni volta siamo assaliti dal cattivo pensiero: “Non è possibile che gente con gusti tanto orribili campi giudicando e consigliando film”.

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