Sergio Mattarella, dal 3 febbraio capo dello stato. I suoi interlocutori devono ricorrere a tutte le risorse della loro intelligenza per ricostruire la verità da briciole di frasi, di sospiri, di sgua

Mattarella's way

Salvatore Merlo
Sta al Quirinale da cento giorni. E’ silenzioso, discreto, apparentemente molto distante da Palazzo Chigi. Eppure Renzi lo teme. Perché il mite uomo sa essere imprevedibile - di Salvatore Merlo

Ma Lui dov’è?”. “Lui non si trova più, è sparito”. Eppure qualche ora prima che la fastosa reggia si fosse svegliata echeggiante d’interrogativi, uno di quegli accigliati manichini in superba uniforme che custodiscono gli ingressi, cioè un corazziere, avrebbe potuto notare nella penombra della prima mattina la curva figura del presidente della Repubblica uscire dal Quirinale e risalire via XX settembre a lunghi passi impagliati nel soprabito. Il fatto è che la domenica Sergio Mattarella se ne va a messa, e una domenica, quella domenica, ci è andato da solo, rispondendo a impulsi del tutto svagati, mandando comprensibilmente in tilt il Palazzo. Sfuggito al protocollo, alla sicurezza, ai collaboratori più intimi, e un po’ sulle sue, con quell’aria apparentemente distratta che sempre lascia capire un cumulo di ricordi e pensieri, ha dunque affrontato i sampietrini sconnessi della capitale, maligni come tagliole, forse alla ricerca di un’abitudine e d’una felicità private, come quando dall’appartamento di via della Mercede, muto e nero nel suo riflettere, entrava nella Basilica di Sant’Andrea delle Fratte, lì dove poi celebrò i funerali della signora Marisa e dove, infatti, adesso non vuole rimettere più piede. E dunque sa sparire, Sergio Mattarella, in politica e nella vita sa muoversi nell’arte del tacere, che non sempre è mutismo ma può anche rivelarsi una risorsa della comunicazione.
Giorgio Napolitano viveva di telefonate e consulti, con Emanuele Macaluso ed Eugenio Scalfari, con Rino Formica e con Ferruccio de Bortoli, il suo stare al Quirinale era fondato su una ben visibile e pignola presenza scenica costruita davanti e dietro le quinte della politica, del potere e dell’informazione, si basava cioè su scambi continui, rapporti romani, visite private, ammonimenti e consigli, studiati sussurri e indicazioni ufficiose di cui tutti sapevano.

 

Mattarella si muove invece ancora con rigido impaccio nel Palazzo immenso e fastoso, e i suoi interlocutori devono sempre ricorrere a tutte le risorse della loro intelligenza per ricostruire la verità da briciole di frasi, di sospiri, di sguardi. E pure Renzi non lo capisce, e un po’ forse, in fondo, ne diffida, perché sa di avere di fronte non soltanto una sfinge d’uomo e di presidente, ma un osso istituzionalmente duro: non ci sono denti e solventi renziani abbastanza efficaci, in caso di scontro, per corrodere le mura del Quirinale, che appartiene a un altro mondo. E il migliore amico di Mattarella è infatti un vecchio medico palermitano, e c’è poi il professor Guido Corso, maestro del Diritto amministrativo, e Salvatore Butera, che fu consigliere economico del fratello Piersanti, e Piero Barucci, l’ex ministro, e poi Sabino Cassese, il giudice costituzionale, e infine Pierluigi Castagnetti, il suo unico, timido legame con Renzi per via dell’amicizia tra concittadini che lo lega a Graziano Delrio. E questa sua vita di clan, chiusa e scarsamente mondana, con le poche telefonate ai direttori dei quotidiani, è una delle ragioni per le quali Mattarella è da taluni descritto come una figura estranea alla realtà, incapace di nuocere come di giovare, neutra e incolore come il timbro secco sulle carte bollate.

 

Riceve poco, legge molto, il pomeriggio talvolta aiuta i nipotini a fare i compiti tra gli arazzi e gli specchi del Palazzo. Vede spesso i figli, parla molto con Bernardo, che è il capo dell’ufficio legislativo di Marianna Madia, il professore che sta scrivendo la riforma della Pubblica amministrazione, cioè il figlio la cui legge per sapienza del destino dovrà essere controllata e controfirmata, o chissà respinta, dal padre. E poi c’è Francesco, ma soprattutto Laura, la primogenita, delicata e sorridente, bionda e magra, con quello sguardo in più che sempre controlla il presidente, cristallo prezioso che non si deve appannare né infrangere: è lei che sceglie gli abiti, gli spazzola le spalle, mentre lui le consiglia cosa leggere. E’ dunque Laura che controlla il decoro di questo professore distratto, stabilisce pure quando è il momento di chiamare il barbiere o di accorciare le lunghe sopracciglia che talvolta finiscono con il ricadergli sugli occhi, e che lui accettò per la prima volta di tagliare vent’anni fa, quando disse al barbiere Filippo, che aveva insitito per usare le forbici forzando la sua ritrosia: “Mia moglie ti ringrazia, mi raccomando non ti scordare di tagliarmi le sopracciglia”.

 

Così, similmente, nel modo di vestire come nelle abitudini quotidiane, il presidente-professore risponde a impulsi del tutto lenti e svagati, senza mai soffermarsi a pensare, radendosi per esempio con la medesima lametta finché questa non ha perso il filo, mangiando quel che capita, spiccando la cravatta a caso tra le tante, poiché quello straccetto di seta per lui non è un dettaglio divino ma un’abitudine da cui forse gli deriva l’ineleganza spenta degli indumenti, ma pure il segreto modo della sommissione. Persino mangiare, che pure gli piace, è poco più d’una distratta funzione nutritiva, un piatto di spaghetti al pomodoro.

 

Un certo giornalismo volgare interpreta il suo complesso silenzio come il sonno perpetuo di una mummia, perché avanza con piedi di felpa e rimane a fil di terreno, malgrado in realtà, con il tram preso a Firenze e il volo di linea per Palermo, nelle sue prime settimane al Quirinale Mattarella abbia invece brillato e pasticciato con la magia un po’ demagogica della sobrietà, risvegliando un sospetto di goffo artificio, e dunque d’inadeguatezza. La solennità, d’altra parte, è sempre a un passo dalla retorica e dall’ideologia, il discrimine è spesso tutta una questione di dettagli. E il tram preso a Firenze, come si è poi scoperto, non era un tram di linea, ma riservato e blindato: c’era solo lui dentro.

 

Ma le cose importanti non gli sono ancora successe. L’esame dell’intervento politico, quando il capo dello stato deve smentire il governo, esprimersi su materie scottanti, Mattarella in questi suoi primi cento giorni non lo ha ancora affrontato. Eppure già si capisce che lo scarso interventismo è una scelta, un profilo che lo preserva nei momenti in cui tutti cercano di tirarlo nella contesa politica. Lo diceva già Don Chisciotte dei diplomatici della sua epoca: “Nella bocca chiusa non entrano le mosche”. E se in questi giorni Mattarella non ha detto nulla, per esempio, sulla fiducia che Renzi ha imposto intorno alla riforma elettorale, è perché il tema esulava dalla diretta responsabilità di un uomo in cui tutto, il tratto, la compostezza, la calma, è istituzionale (persino troppo), proprio come gli abiti che indossa e che non piacciono al suo sarto di Palermo: sempre a tre bottoni, grigio, grigio scuro, nero.

 

Ma è così che Mattarella si difende, nessuna vibrazione ostile può mai turbarlo. E d’altra parte, per ovvie ragioni, lui non ha l’obbligo di tutela che fu la condanna di Giorgio Napolitano con Letta e con Monti: lui accompagna un premier baldanzoso e birichino, giovane e forte, senza dovergli rubare il ruolo di decisore. E forse è per questo che Renzi talvolta invece lo teme questo presidente insondabile e muto come un sussurro. Lui, il Rottamatore che non s’inquieta per l’aggressività di Brunetta né per la determinazione di Bersani, cioè per i nemici che non nascondono la spada che portano, è invece interdetto di fronte a questo presidente educato che all’improvviso gli si potrebbe rivelare nelle sembianze di sorridente nemico al servizio della Costituzione, una carogna per ideale e per vocazione, un signore dall’aspetto neutro e dai modi notarili, un dolcemente cattivo che ha riposto la sua ambizione nella caparbia costanza della sua natura.

 

E infatti, in questi giorni, Renzi, con l’aria fresca del teppista, tutto impeti e scatti fulminei, si è lanciato quasi senza paracadute dicendo che “se non passa la fiducia cade il governo”. E davvero il lancio era senza paracadute, perché il presidente della Repubblica non gli aveva dato alcuna garanzia certa sul futuro. Il Quirinale è rimasto chiuso in un mutismo d’acquario persino di fronte ai tentativi di carotaggio del premier, che provava a forzare quell’impenetrabile silenzio di foresta per scoprire la risposta alla domanda che da settimane fa impazzire anche i quirinalisti: “Che farebbe Mattarella se cadesse Renzi? Elezioni o nuovo governo?”. Shhh, il silenzio è la cuccia dei sogni presidenziali.

 

Da quando è vedovo ha imparato a prepararsi il caffè, con la calma un po’ triste delle persone abituate ad alzarsi molto presto al mattino, sempre da sole, mentre gli altri dormono. E nello studio del Quirinale ha portato le foto dei figli, e della moglie, cui ancora talvolta si rivolge come se fosse viva. Alle sei il rumore della sveglia fora le persiane dell’appartamento che fu dei re e dei papi, e lui, bianco di capelli, lungo d’ossa, con qualcosa di impacciato ma gentile nel gesto, si prepara a interpretare il ruolo istituzionale che ormai da tre mesi gli è capitato di dover ricoprire, ma a modo suo, coltivando cioè l’arte dell’essere contemporaneamente presente eppure assente, senza mai offuscare il presenzialismo e gli impeti giovanili del presidente del Consiglio, ma pure consigliandolo vivamente di smetterla con i decreti, che infatti da gennaio Palazzo Chigi (finora) ha smesso di produrre.

 

E il presidente avrebbe potuto andare a cercarsi con il lanternino quei dissidenti del Pd che negli ultimi mesi hanno tentato di versargli nelle orecchie melodrammatiche parole di passione, a testa bassa contro Renzi, padroni di un risentimento finalmente sostanzioso e potente. Ma non l’ha fatto. Bindi e Bersani, D’Alema e Fassina, tutti impegnati a lamentarsi della fiducia sulla riforma elettorale, un’altra perla che si inserisce nel contesto di quel collier di continue provocazioni, umiliazioni, vessazioni al quale la minoranza del Pd ritiene d’essere giorno per giorno sottoposta dal presidente del Consiglio. Ma il capo dello stato è sembrato sordo, malgrado i telefoni gli trasmettessero inviti, proposte, richieste, qualche suggerimento di luccicante dispetto. Il suo stare al Quirinale è infatti di sguincio. Accetta le richieste d’aiuto come sempre nella vita, quietamente, senza rispondere e pure senza deludere, scrupolosamente adempiendo a un dovere tutto professionale, e dal valore sedativo e calmante.

 

I rappresentanti della minoranza Pd si sono mossi attorno a lui in cerchi d’apprensione sempre più stretti, mentre lui, cauto fino a torturarsi, soppesava a lungo ogni frase. Pare che anche Rosy Bindi abbia guardato a lui con muta richiesta d’appoggio. E ovviamente, come nel caso di Enrico Letta, si tratta di mondi consanguinei a Mattarella, mentre Renzi è per lui quell’alieno che un giorno di gennaio lo ha candidato al Quirinale, sorprendendolo: “Io davvero Renzi non l’avevo mai incontrato in vita mia”.
Dalla sinistra Dc vengono tutti i suoi amici, e anche tutti i suoi collaboratori al Quirinale, dove ha mantenuto solo una segretaria e il capo dell’ufficio legislativo ereditati da Napolitano. Gianfranco Astori, il suo consigliere per l’informazione, lo conosce da sempre ed è il figlio di un ex deputato Dc, Simone Guerrini, il capo della segreteria, è stato segretario dei giovani Dc ed è l’uomo che scoprì Enrico Letta (di cui è uno dei migliori amici), Giovanni Grasso, il portavoce, è un giornalista colto e d’esperienza che viene dal Popolo… E malgrado tutto, malgrado i rapporti, le consuetudini e quelle biografie così intrecciate da insospettire i ragazzi di Palazzo Chigi, il presidente, in questi suoi primi tre mesi, si è invece tenuto lontano dal Pd rinserrato nel suo spazio gonfio di tensione. E ha probabilmente deluso qualcuno, che lo attendeva come un vendicatore, un regolatore di conti dopo il “tradimento” di Napolitano, il presidente che ruppe le consuetudini di solidarietà con il suo mondo di provenienza e si fece sostenitore di Renzi.

 

[**Video_box_2**]Quando prende una decisione va fino in fondo, come quando si dimise da ministro in polemica per l’approvazione della legge Mammì. E questo a Renzi un po’ fa paura. Ma la sua è per ora una presenza studiatamente vicaria. A partire dal 6 gennaio 1980 quando fu assassinato Piersanti, la vita di Sergio Mattarella è stata una vita da secondo. Lui è sempre andato avanti, perché è bravo, eppure sempre si è portato dietro la coscienza d’essere quello venuto dopo. E senza mai aderire al ruolo dolente di fratello della vittima, ha avuto l’accortezza di portare avanti quella rivolta antimafia senza clamore che contrapponeva Piersanti ai giovani leoni palermitani dalla spalla “sciddicata”, ai Lima e ai Gioia, ai Gullotti e ai Ciancimino, quella ribellione che lo portò a inventarsi di sinistra nella Dc, perché la sinistra fu per i Mattarella una scelta antimafiosa più che un’adesione ideologica a un mondo e ai suoi codici (e infatti com’era strano quel “Bella ciao” canticchiato da Sergio la sera del 25 aprile).

 

E così questo incedere vicario, da secondo, Mattarella oggi se lo porta fin dentro i saloni del Quirinale, sotto forma di qualità insondabile dell’uomo in grigio. Difatti Renzi lo osserva con diffidenza, ma il presidente in tre mesi non gli ha mai rubato la scena, né il 25 aprile, né con i suoi viaggi all’estero, nell’incontro con Hollande o in quello con Angela Merkel, la cancelliera che nei filmati diffusi da tutti i telegionali lui fissava in volto con un’insistenza dolce e fuori luogo, al punto da non accorgersi che la signora intanto gli offriva la mano.

 

Ed è infatti con una certa riluttante neghittosità che Mattarella adesso si prepara a ripristinare il ricevimento al Quirinale per la festa della Repubblica, quella tradizione interrotta negli ultimi anni da Napolitano e che lui invece vorrebbe recuperare, ma senza dare incomodo a nessuno, men che mai al sole di Palazzo Chigi.

 

E forse Mattarella, nel suo quieto adagiarsi in un’esistenza pacata e cattolica, non capisce il turbinìo giovanile del governo Renzi, ma pure non ritiene che questi siano affari suoi. Il suo è il ritmo dello studioso, di chi ha vissuto sempre a contatto con una buona biblioteca privata: il rapporto quotidiano con spiriti austeri, un luogo dove regnano saggezza, penombra, silenzio, l’abitudine tenace all’ordine più rigoroso, nello spazio come nei tempi, che sono sempre lunghi, lenti, riflessivi. E forse il segreto che persegue è la semplicità, quell’armonica semplicità che in un paese come l’Italia, nel marasma un po’ sbracato della sua politica, sbalordisce in misura maggiore della più intricata magia.

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.