Primo maggio, il mondo celebra con mestizia la festa di un tempo perduto. Sono arrivati al collasso anche i partiti di massa che esprimevano i vecchi ceti sociali

E' il Primo maggio dei padroni

Altro che festa del lavoro, il capitale la trionferà

Stefano Cingolani
La battaglia sindacale alla General Motors nei primi anni 70, la marcia dei quarantamila in Italia, l’automazione, la finanza, le partite Iva: una storia che racconta la fine della classe operaia come motore del progresso sociale - di Stefano Cingolani

“Solo l’operaio della miniera o dell’officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria e ha l’orgoglio dell’impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano” (Luigi Einaudi, “Le lotte del lavoro”, 1924)

 

Chi viaggia lungo la Ohio Turnpike, l’autostrada che va a Cleveland, incontra, all’altezza dell’uscita 216, un’enorme fabbrica distesa per oltre un chilometro, più appariscente e senza dubbio più popolosa della cittadina di Lordstown dalla quale prende il nome. Colpisce subito il lungo parallelepipedo a due piani che ospita gli uffici: le finestre di vetro sono separate da strisce regolari e in lontananza sembrano sbarre. E’ uno stabilimento di assemblaggio della General Motors, ma non uno qualsiasi: in quell’ impianto industriale, infatti, vive ancor oggi un vero e proprio simbolo. Lì si è recato, non a caso, Barack Obama appena eletto, per promettere che l’industria dell’auto sarebbe risorta più forte che mai. Inaugurato nel 1966, nel casermone lavorano 6.500 dipendenti e montano la Chevrolet Cruze, una berlina compatta dall’aria nipponica, forse perché ha esordito proprio in Giappone grazie alla Suzuki. Ma nei tempi eroici c’erano persino 15 mila operai e impiegati, poco meno che alla Fiat Mirafiori.
Al Lordstown Assembly Plant si è combattuta l’ultima grande battaglia del lavoro organizzato in nord America, quella che ha chiuso un secolo di storia e ha aperto le porte al declino del sindacato, della centralità operaia, del vecchio modo di produzione. La rivolta del 1972 è una data storica per l’industria a stelle e strisce, ma lo è anche per l’intero mondo che il primo maggio celebra con mestizia la festa di un tempo perduto.

 

Dunque, non è solo colpa di Sergio Marchionne, anche se il capo della Fiat-Chrysler ci ha messo del suo. “Ha distrutto cent’anni di sindacalismo americano”, decretò nel 2009 Ron Gettelfinger il presidente dello Uaw (United Auto Workers, il sindacato unico dell’auto) costretto a firmare la capitolazione del 2009 ma non a ingoiare la propria rabbia. Con lui è d’accordo Maurizio Landini, capo di una resistenza minoritaria, sconfessato dagli operai che hanno accettato la nuova organizzazione del lavoro alle condizioni della Fiat e ora accolgono positivamente la proposta di legare il salario alla produttività. Altro che variabile indipendente, la paga dipende dal capitale e dal profitto. Che rovesciamento. Il sindacato scavalcato da destra. Al contrario di quel che avvenne nei giorni roventi di Lordstown.

 

Tutto comincia nel 1971 quando la Chevrolet presenta la sua nuova vettura chiamata Vega concepita per essere costruita con macchine automatiche. La direzione aziendale decide di fondere le due divisioni nelle quali era diviso lo stabilimento e raddoppiare la cadenza produttiva: non più 55 veicoli l’ora, bensì cento. Ogni operaio, dunque, avrebbe avuto 36 secondi per completare la sua mansione invece di 60. La sezione locale dello Uaw apre inutili trattative e mentre si trascinano le tipiche sedute di autocoscienza sindacale, dalle linee di montaggio cominciano a uscire automobili incomplete o mal assemblate, mentre l’assenteismo raggiunge picchi mai visti. “Sabotaggio”, grida la direzione aziendale, il sindacato protesta, però viene messo di fronte all’evidenza. Allora comincia ad accusare la riconversione produttiva, i ritmi troppo elevati, i robot mangialavoro e l’atteggiamento dei nuovi operai, tutti giovani (età media 29 anni), capelloni, senza coscienza sindacale, pronti anche a perdere il posto pur di non sottostare a mansioni troppo gravose. E, soprattutto, pronti a ricorrere alla resistenza passiva e gettare sabbia negli ingranaggi.

 

La generazione Vietnam torna agli albori della rivoluzione industriale come il giovane Ned Ludd che in uno scatto di rabbia distrusse il telaio meccanico sul quale era stato messo a lavorare? In realtà, non si sa se Ludd sia esistito davvero, in ogni caso l’episodio leggendario viene collocato nel 1768, mentre il movimento che da lui prese il nome, il luddismo, esplose cinquant’anni dopo. Tuttavia la leggenda è un motore della storia, e questo vale anche per il Lordstown Assembly.

 

La scintilla scocca durante il Natale del 1971. Gli operai vanno in vacanza e alla fine della settimana scoprono che il salario è stato ridotto. Una vera e propria rappresaglia padronale. Tornati in fabbrica, a metà gennaio, cominciano i primi scioperi selvaggi. Lo Uaw cerca di rincorrere e indice riunioni per preparare un’azione sindacale. Negli Stati Uniti il diritto di sciopero è regolato da norme rigide che prevedono complesse procedure: l’interruzione del lavoro è lecita solo dopo che sono falliti tutti i tentativi di mediazione e se approvata dal voto della base. L’autorizzazione a scioperare legalmente arriva il 3 marzo, quando ormai le linee sono già bloccate.

 

Lo scontro dura un mese, la General Motors perde 150 milioni di dollari in mancate vendite. Il piccolo borgo dell’Ohio si riempie di giornalisti, calano tutte le maggiori testate, arriva la tv, perché una lotta operaia del genere non si era mai vista dagli anni 30. Il settimanale Business Week parla di “sindrome di Lordstown” e questa definizione resterà attaccata a ogni successiva battaglia disperata e perdente. Il caso si fa politico. Ted Kennedy propone in Senato una legge sull’alienazione industriale (non viene approvata) e una commissione d’inchiesta sulle condizioni di lavoro (ha prodotto solo una quantità di documenti che hanno ispirato saggi, studi universitari e libri di successo).

 

Alla fine viene raggiunto un classico compromesso sindacale. L’accordo prevede di ridurre la velocità della linea di montaggio, ma non ferma l’impiego spinto dell’automazione che diventa un punto di riferimento per l’industria dell’auto in America e poi in Europa, non più solo in Giappone. La sindrome di Lordstown varca gli oceani, complice la crisi petrolifera, complici i robot, complice il salto generazionale che porta in fabbrica una leva priva del legame con il mestiere che aveva caratterizzato i padri. Il rifiuto del lavoro diventa il mantra degli ideologi dell’operaismo, imbevuti di marxismo e di decostruttivismo; è l’ideologia propagandata da Toni Negri, ma essa non nasce solo nei cieli della filosofia astratta o nei seminari politici delle università occupate, al contrario prende le mosse da un vero mutamento sociale e culturale.

 

Questa stessa miscela incendia la Fiat, conduce allo scontro di Mirafiori nel 1980 e alla débâcle del sindacato unitario dei metalmeccanici, messo alle corde dalla marcia dei quarantamila capi e impiegati (non era mai accaduto prima), e prepara l’ammaina bandiera del progetto politico che partiva dal conflitto sindacale per rovesciare la leadership della sinistra e poi quella del paese, per “bombardare il quartier generale” come diceva Mao. Un programma inattuale perfino allora, eppure oggi torna ad accarezzarlo Landini con la sua Fiom.

 

L’onda della sconfitta s’abbatte anche sulla Francia. La battaglia di Poissy nel 1983, nel tentativo di salvare la vecchia fabbrica della Peugeot ormai circondata dalla Parigi piccolo borghese, quella dei servizi e della classe media, si tinge di scontri razziali perché perdono il lavoro soprattutto gli operai algerini e nordafricani ai quali sono riservate le mansioni peggiori. Anche la Peugeot è in crisi, anzi sull’orlo della bancarotta, ma non resta indenne nemmeno la Renault, che smantella lo storico stabilimento di Billancourt e subisce l’attacco del terrorismo rosso. Nel 1986 George Besse, il manager che, chiudendo un impianto ormai improduttivo, ha salvato e ristrutturato l’auto di stato, viene ucciso da un commando di Action Directe alleato con la tedesca Raf e vicino alle Brigate rosse (il suo vessillo non a caso, mostra una stella a cinque punte).

 

E’ storia e storia nota, anche se riposta nei cassetti della memoria: racconta la fine della classe operaia come motore del progresso sociale, proprio mentre l’industria delle industrie cede la propria leadership. Per capire quanta acqua è passata sotto i ponti, basta leggere un ritaglio del New York Times del gennaio 2010. La General Motors ha appena firmato le carte per dichiarare bancarotta e il giornale manda un inviato a Lordstown . Questa volta non spira vento di battaglia, anzi c’è un’atmosfera luttuosa: l’allarme, la preoccupazione per la perdita del posto di lavoro, si tinge di rassegnazione. Ciò vale per la base, così come per i militanti sindacali. Mike Ramsey, un veterano che lavora nell’impianto da 25 anni, spiega a Nick Bunkley del quotidiano newyorchese: “La gente cerca di tenersi aggrappata a quel che ha, spera almeno di poter maturare la pensione; ma non c’è animosità. Oggi tutti ci rendiamo conto che dobbiamo fare la nostra parte per salvare l’azienda”. Colpa della crisi, una delle più gravi recessioni della storia americana, ma è soprattutto la fine di un ciclo politico, il ciclo secolare della grande industria manifatturiera.

 

Dopo una lunga transizione, sta nascendo un nuovo modello. Le innovazioni dell’era digitale non fanno che accelerare il processo diffondendolo all’intera società: dai servizi all’amministrazione statale. L’impiego delle stampanti a tre dimensioni e l’ulteriore sviluppo dei robot, non solo rendono obsolete fabbriche e capannoni, ma rimettono in discussione l’impresa piramidale. Il laboratorio, l’officina, l’industria diffusa nel territorio, quello che finora è stato il punto di forza del sistema italiano oggetto di studio trent’anni fa, sembra diventare punto di riferimento per la terza (o quarta) rivoluzione industriale.

 

In occidente, secondo l’Economist, è spuntata la “società on-demand”. Uber nei trasporti individuali, per lo più urbani, consente di prendere una limousine sotto casa con una semplice applicazione sul telefonino. Con Handy si può avere l’appartamento o l’ufficio pulito e riassettato quando e come si vuole. Washio è una lavanderia digitale. BloomThat consegna mazzi di fiori dove e quando si vuole. SpoonRocket porta a domicilio cibi ancora caldi dei migliori ristoranti nel giro di dieci minuti. San Francisco, ovviamente, è il regno di questa vita à la carte che si diffonde a macchia d’olio, lo dimostra proprio il successo di Uber che, fondata nel 2009, opera già in 53 paesi.

 

Internet ha già rovesciato da cima a fondo la musica, i giornali, i libri, il cinema e in parte la tv, adesso sta per sconvolgere anche la scuola, cominciando dall’università che, in fondo, dai tempi di Aristotele è cambiata in dimensioni e tipi di insegnamento, non molto nella sostanza. Ora arriva il Mooc, Massive Open Onile Course, che può scardinare i pilastri stessi del sistema. Uscita nel 2008, questa tecnologia si trascina senza grande impatto, ricorda l’Economist, finché non la scoprono investitori privati e grandi università. La Harvard Business School si prepara a offrire un pre-master per 1.500 dollari appena, cioè venti-trenta volte meno il costo dei corsi frequentati a Boston. Starbucks vuol contribuire al pagamento di un diploma online per i propri dipendenti con l’Università dell’Arizona. Qualcosa del genere è in corso tra Georgia Tech e AT&T attraverso il provider Udacity. Gli esempi si moltiplicano negli Stati Uniti e in Inghilterra anche la superelitista Oxford si sta mettendo su questa strada. L’impatto è davvero notevole: il Massachusetts Institute of Technology ha scovato online un ragazzo dalle incredibili doti addirittura in Mongolia.

 

L’intero rapporto scuola-lavoro che è alla radice della disoccupazione giovanile, potrebbe cambiare mettendo in concorrenza diretta talenti e mestieri su scala mondiale. Se ne rendono conto le professoresse che protestano battendo le pentole come le madri di plaza de Mayo? Altro che la “bella scuola” renziana; presto non ci saranno più né banchi né cattedre, tanto meno maestrine con la penna rossa, perché anche la pubblica istruzione è figlia della società industriale.

 

D’accordo, ma il declino di un tipo di lavoro rimette in discussione il lavoro in quanto tale? Non si può festeggiare il primo maggio senza tuta, o magari senza il colletto bianco, con la camicia a fiori fuori dai pantaloni come il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis, il Bruce Willis della sinistra? Certo che si può, ma allora si va in piazza per divertirsi. La dimensione ludica della lotta di classe era una delle tesi di operaisti buontemponi negli anni 70. L’Italia, del resto, è un eterno laboratorio sociale e solo qui il sindacato si è trasformato in impresario teatrale con i quattrini non degli associati, ma di tutti i contribuenti.
Il concertone in piazza San Giovanni, infatti, è organizzato dai sindacati, ma pagato dal comune di Roma. Quest’anno costerà 240 mila euro e l’assessore al bilancio capitolino, Silvia Scozzese, ex dirigente dell’Anci (l’associazione dei comuni presieduta da Piero Fassino) vuole che contribuiscano Cgil, Cisl e Uil anche se le tre confederazioni non vogliono scucire nemmeno un euro. Il sindacato “si è fatto stato” direbbero i landinisti (i seguaci operaisti di Landini) e i romani che pagano le tasse se ne sobbarcano l’onere. Per il loro lavoro, non si tratta di una gran festa.

 

L’evento nasce nel 1990 per riportare attorno al sindacato le nuove generazioni che già allora si erano allontanate sotto l’influenza di una fase politica ed economica del tutto particolare che, in meno di un decennio, ha portato al trionfo del capitale sul lavoro organizzato. Le battaglie nell’auto e le sconfitte subite dai sindacati in tutto il mondo occidentale sono le premesse non le conseguenze della rivoluzione liberista che ha cambiato il paradigma di riferimento. Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno saputo capire, suscitare e cavalcare meglio di altri la nuova ondata. Ma non sono i soli proprio perché si tratta di un mutamento profondo.

 

Le innovazioni tecnologiche hanno dato un contributo fondamentale. Senza i computer sarebbe stato impossibile trasferire alla velocità della luce somme ingenti di denaro da un punto all’altro del globo. Il big bang alla borsa di Londra nel 1986 è una data chiave: fa cadere le barriere alla libera circolazione dei capitali e pavimenta la via alla globalizzazione che nel 2001 porta la Cina nel club del libero scambio, cioè l’Organizzazione mondiale del commercio. In quel periodo nasce un “capitalismo democratico”, come lo chiamerà poi Bill Clinton. Non si tratta del semplice grido “arricchitevi”, ma di far partecipare fasce sempre più ampie della popolazione, scendendo giù per li rami della gerarchia sociale, al processo di accumulazione.

 

[**Video_box_2**]Il veicolo è la finanza, quella che sarà poi demonizzata con la crisi del 2008: si dice che scambi pezzi di carta, si dimentica che essi rappresentano quote di proprietà e grumi di capitale, di quello privato e di quello sociale (si pensi ai fondi pensione, alle assicurazioni malattia, ma anche a società di servizi come i trasporti o persino lo smaltimento rifiuti). Perché il capitale non è composto solo da patrimoni del passato lasciato nelle mani di pochi, come crede la tradizione economica francese alla quale si collega lo stesso Thomas Piketty. Se fosse così, la società sarebbe sostanzialmente ferma. Fernand Braudel ricorda che “dai calcoli fatti per le economie dell’Ancien Régime, si ricava un rapporto di uno a tre e di uno a quattro tra il prodotto lordo di un anno di lavoro e l’insieme dei beni capitali, in definitiva non lontano da quello che Keynes attribuiva alle economie contemporanee”.

 

Invece, la novità c’è, eccome; ed è l’irrompere nella gerarchia sociale del capitalista, cioè “l’uomo che controlla o cerca di controllare l’immissione del capitale nell’incessante processo di produzione al quale tutte le società sono destinate”, scrive ancora Braudel. Per lo storico francese che impernia la sua visione attorno al “gioco dello scambio”, il soggetto fondamentale, colui che mette in collegamento produzione e consumo, è il “mercante capitalista” (senza trascurare il banchiere, invenzione italiana del tardo Medioevo). Per Joseph A. Schumpeter, come si sa, è l’imprenditore, figura titanica di innovatore, leader e gran scommettitore. In ogni caso, non si può certo ridurre questo processo storico concreto, vitale, fatto di uomini, a relazioni tra grandezze fisiche o a concetti astratti come il lavoro incorporato di Marx.

 

In forme moderate e riformiste o radicali e rivoluzionarie, il movimento operaio e sindacale si era imbevuto della teoria del valore lavoro, formulata per la prima volta da Adam Smith, rivista da David Ricardo e trasformata da Karl Marx in un grido di battaglia. Il nuovo dogma si è diffuso ovunque nel Novecento, però in Italia ha trovato terreno fertile, non a caso la costituzione liberal-democratica esordisce con un’affermazione molto socialista: l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.

 

Il fatto è che quella teoria fascinosa non sta in piedi, anche se ha uno straordinario valore evocativo e una enorme forza trascinatrice. Già a fine Ottocento viene criticata a fondo dagli economisti chiamati neoclassici (l’inglese Stanley Jevons, l’austriaco Eugen von Böhm Bawerck, l’italiano Vilfredo Pareto).

 

Nel 1967 il filosofo liberale Bruno Leoni ne dà una lettura efficace, priva di astrusità matematiche e gelide formule nel suo saggio “Il Capitale cent’anni dopo” (ora in “La libertà del lavoro”, a cura di Carlo Lottieri per l’Ibl, edito da Rubbettino). Marx era abbastanza intelligente da capire la contraddizione interna al suo teorema enunciato nel primo volume del Capitale, tanto che dedicò il resto della propria vita e altri due corposi volumi a cercare di accordare teoria e realtà. Non ci riuscì come ammettono i suoi stessi estimatori. Morto lui, i seguaci pubblicarono l’incompiuta dottrina e decisero: tanto peggio per la realtà. E anche oggi, di fronte alle trasformazioni radicali che investono il lavoro, sembra più facile gettare alle ortiche la storia anziché le sue interpretazioni.

 

A partire dagli anni 80 del Novecento, il capitalismo è sempre meno un gioco di pochi potenti; al contrario di quel che gridano i teorici dell’un per cento, i militanti di Occupy, i no global, arriva fino al piccolo risparmiatore, alle “vedove scozzesi”.

 

Nell’America della finanza sofisticata tutto ciò passa attraverso una nuova crusca del diavolo: si pensi ai famigerati mutui subprime o ai derivati tanto più vilipesi quanto meno sono capiti. Nell’Italia ancora manifatturiera, ma priva ormai di grandi industrie, si afferma una leva di piccoli produttori in cerca di identità e di rappresentanza politica: è “il popolo delle partite Iva” al quale si rivolge la nuova destra, dopo il collasso dei partiti di massa che esprimevano i vecchi ceti sociali: i lavoratori dipendenti nel Pci e in parte nel Psi, i contadini, i commercianti, gli statali (e gli operai cattolici) nella Dc, i professionisti nel Psi o nel Psdi, i padroni delle ferriere nel Pri, nel Pli e nel Msi. Altre aggregazioni, dunque, molto più mobili delle precedenti, molto più mutevoli nelle loro preferenze. Per loro, il valore del lavoro è quello del lavoro autonomo in cui salario e profitto sono variabili della stessa equazione. Un futuro da libero professionista, ecco cosa sogna oggi oltre la metà dei giovani, secondo i sondaggi demoscopici.

 

Il lavoro così come lo abbiamo inteso nell’ultimo secolo, cioè dipendente e organizzato, non è il perno della società attuale né, tanto meno, l’alfa e l’omega dell’esistenza. Conseguenza di una disoccupazione diventata strutturale che allontana intere generazioni, secondo una lettura keynesiana? Può darsi. E’ il frutto marcio di una cultura distributiva e non più produttiva, come sostengono i liberisti? Anche. Certo, quando l’obiettivo non è trovare un posto e portarsi a casa un meritato stipendio pagato dal padrone, ma ottenere un reddito di cittadinanza dallo stato, un assegno garantito solo per il fatto di stare al mondo, allora è chiaro che l’etica del lavoro si rovescia nel suo contrario, cioè l’assistenzialismo pubblico.

 

Einaudi scriveva sul Corriere della Sera nel lontano 1919: “Se l’unico movente del lavoro è lo stipendio o il salario, è rotta la molla che spontaneamente spinge l’uomo a faticare”. E aggiungeva: “Non basta che le ore di lavoro si riducano, che il salario aumenti, che la fabbrica sia chiara, luminosa, provveduta di bagni e di giardini… Tutto questo è necessario a farsi. Dovrà farsi a poco a poco, a mano a mano che gli enti pubblici, gli industriali, gli operai sentiranno che la prosperità industriale è legata alla educazione, alla salute fisica, alla morigeratezza di una vita famigliare attraente. Ma tutto ciò non è ancora un dar l’anima, che manca, al lavoro compiuto”. Quest’anima si è via via perduta nel secolo della produzione di massa, della catena di montaggio, della fabbrica-caserma. Potrà essere recuperata nell’era dei robot, dei computer e delle applicazioni sugli smartphone? Nessuno lo sa, e la risposta non la daranno certo i logori comizi di piazza né lo stanco evento di piazza San Giovanni.

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