Il prefetto Gianni De Gennaro, capo della polizia dal 2000 al 2007, dal luglio 2013 presidente di Finmeccanica (foto LaPresse)

Sua Eccellenza lo sbirro

Stefano Di Michele
Mai lo sbirro dalla sua propria ombra potrà separarsi – mai potrà disfarsene, cederla al diavolo come l’ebreo Peter Schlemihl, il protagonista di quel bellissimo racconto di Chamisso che la vende in cambio del “borsellino di Fortunato” che vomita monete d’oro.

… la bellissima ombra che con noncuranza, quasi con un certo aristocratico disprezzo, lei proietta sotto il sole, la splendida ombra che sta ai suoi piedi. Perdoni la mia senz’altro audace pretesa. Non sarebbe per caso disposto a cedermi la sua ombra?”.

Luis-Charles Adélaide de Chamisso, “L’uomo senza ombra”, ed. Cartacanta

 

Mai lo sbirro dalla sua propria ombra potrà separarsi – mai potrà disfarsene, cederla al diavolo come l’ebreo Peter Schlemihl, il protagonista di quel bellissimo racconto di Chamisso che la vende in cambio del “borsellino di Fortunato” che vomita monete d’oro. Nessuno può, nessuno deve – e lo sbirro meno di tutti deve. Perché dentro quell’ombra il meglio e il peggio di sé ha consumato: lì ha protetto la vittima, lì la sua stessa faccia in quella del criminale si è riflessa. Lì ha combattutto nel campo (e il campo) stretto e necessario delle regole, contro nemici che nessuna regola conoscono. Ora sull’ombra del prefetto Gianni De Gennaro molti si avventano: neanche per comprarla, piuttosto per lacerarla, ombra da ridurre a scalpo – grandi giornali con pensosi editoriali, fautori di  strabica indignazione, politici avventati col tuìt che raffica (Orfini, che sulle magliette del suo festival fa stampare Togliatti, e poi si lancia con furore guevarista). Perciò, non tanto su cosa sono i giornali o cosa sono i politici bisogna forse interrogarsi – ché in fondo, giornali e politici sono spesso solo la stessa ombra mischiata – ma su che cos’è uno sbirro. Uno sbirro bravo, s’intende – capace di atterrare un assassino, mettere il collare ai mafiosi, trattare persino col criminale, quando trattare conviene. Presiede spesso, lo sbirro, i piedi piantati dentro la sua ombra, l’ombra che ci difende – non la vacuità della luce a tutti i costi (“Fare luce sui misteri d’Italia!”, dissero giustamente certi deputati ad Andreotti, in chissà quale delle mille commissioni d’indagine. E quello, in un filo di voce: “Troppa luce acceca”). Lo sbirro va di notte, lo sbirro va in incognito, lo sbirro sta sotto il casco – e c’è chi  oltraggiosamente lo bacia, questo casco: a disprezzo, a oltraggio, a presa per il culo che a lui tocca ricevere con immobile rabbia.

 

De Gennaro è stato sbirro supremo. Ci sono certo cose da rimproverare – errori anche uno sbirro supremo ne compie: per dire, quando il suo amico Falcone lo mandò a fotografare di nascosto un malvivente, losco trafficante di droga, e il futuro prefetto sbagliò, una foto sopra l’altra senza far scorrere la pellicola. “Delle due l’una – disse l’amico giudice, passandosi tra le mani l’inutile manufatto –: o sei colluso o sei una testa di minchia”. Dell’ombra stessa, benissimo disse De Gennaro a Pietrangelo Buttafuoco su queste stesse pagine, quando spiegò la sua teoria nel night – là dove s’indagava tra soldi male guadagnati e ragazze facili e champagne che si fa subito caldo, proprio come in quella canzone di Francesco Guccini, “trucco e toilettes che si spampanano piano / come il ghiacco va in acqua dentro al tumbler / squagliandosi col caldo della mano / (…) di uomini vocianti che strascinano pacchi di soldi forse male guadagnati”. E disse del chiarore che poi arriva, ma sempre dall’ombra preceduta: “Quando alla fine si accende la luce, sulla moquette affiorano macchie oscene, e con esse altro che bava, affiora tutto il laido squallore del night… Tutto è spiegato nel night. Nessuna bella ragazza si innamora di un industrialotto, tutte le casse di whisky sono pignorate, tutta la moquette è macchiata e la musica è sempre la stessa musica”. Certo che ci sono cose che si possono rimproverare, a Sua Eccellenza De Gennaro – che forse una volta sbadigliava (“e guardo il mondo da un oblò / mi annoio un po’”, canticchiava), e adesso vigile deve stare, più che davanti alla pistola del criminale. Ma pure molte di cui essere grati.

 

Tu sei capo, quando sei sbirrro supremo – e hai i tuoi uomini che a volte vanno a morire per la buona causa; e ne hai pure altri, purtroppo, che la stessa buona causa insultano e oltraggiano: così il fondo di stupidità e di ferocia nella “notte cilena” (D’Alema) della Diaz e di Bolzaneto, “un-due-tre viva Pinochet! quattro-cinque-sei a morte gli ebrei!”, come se la rassicuranti divise si fossero mutate in squadracce naziste, himmleriane, e la giustizia che lì è stata mancata è stata innanzi tutto giustizia negata alle vittime, ma pure giustizia mancata contro coloro che nel disonore hanno trascinato la divisa indossata. Persino più del violento, l’hanno disonorata, la loro stessa divisa. Una deturpazione che negli anni riemerge – come la moquette di quel night, quando la luce del sole comincia a filtrare. In odio a loro stessi, quegli sbirri colpevoli e impuniti – prima che all’ebreo o al comunista o al capellone o a qualunque altro fantasma che quella notte di follia generò nella loro mente. Perché poi, pure se sei sbirro supremo può sempre sfuggirti il cuore e la testa e le viscere di quelli che comandi – ché cuore e testa e viscere hanno catene di comando che la catena di comando a volte non conosce. Così l’ombra che ti segue e ti consola può diventare un abisso – e quell’abisso la coscienza di ottimo sbirro di De Gennaro da quattordici anni ormai bordeggia. Ma l’essenziale lo ha detto Renzi, dopo l’impetuoso suo Orfini, “piena fiducia in lui”, e l’ha detto Raffaele Cantone, magistrato da ognuno, in virtù dell’Anticorruzione, portato in palmo di mano: “De Gennaro è stato indagato e assolto. L’assoluzione conta pur qualcosa, quindi non può pagare le responsabilità complessive di una macchina intera”. Dice pure, Cantone, ciò che altri sospettano: che la storia oscena e dolorosa di Genova possa essere usata “per ‘tirare’ sulla polizia, che spesso è la parte più popolare del paese”.

 

E’ sempre strada accidentata, quella dello sbirro. In compagnia della sua ombra, a tu per tu, giorno e notte, con la parte più oscura del genere umano: come i preti che si caricano degli altrui peccati, come gli psichiatri che fanno lo stesso con gli altrui fantasmi. Sempre, la faccia dello sbirro è perfettamente allineata con quella del criminale che caccia e con quella della vittima che giace ai suoi piedi: insieme, una cosa e il suo contrario, perennemente la cosa più disonorevole e quella più onorata. Forse più che altrove, in Italia la strada è stata accidentata – massa d’urto, la sbirreria, carne da manovra che negli anni Cinquanta (109 morti civili in sette anni) veniva informata dalle pagine della struggente “Enciclopedia della polizia” (1952, Hoepli) sia sui rischi del marxismo, essendo Marx “comunista senza cuore e senza idealità” (oibò!), sia su quelli ben più perigliosi della masturbazione, “vizio funesto che ha tanta nefasta influenza sul fisico e sul morale e che talvolta conduce precocemente alla morte”; e formata coi  manuali del ministero dell’Interno che annotavano l’utilità del bagno “almeno una volta a settimana”, e l’inutilità dello stesso “se poi non si cambiano la maglia, la camicia, le mutande, le calze con la dovuta frequenza” (pare un film di Monicelli). Uno sbirro lo sa che la sua vita è sempre un po’ a metà, un dormire a bordo letto, un sonno interrotto, una lama che preme da sotto la suola delle scarpe. Il sonno che pigli, il sogno che ti si prende. “Ho sempre chiaro le distanze, nella mia vita ho visto di tutto…”, raccontò De Gennaro. Tutto si vede – e la fatica di essere a presidio di questo tutto è spesso quella dello sbirro, inseguire il mostro che là fuori striscia (e che, come nella notte di Genova, dentrò di te può pure strisciare, come le creature di certi film horror che sotto pelle cominciano a camminare). Certi funzionari svegli, ai corsi per allievi agenti, mostrano il bellissimo film con Gian Maria Volontè, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, perché mai la linea venga superata, perché la tentazione non prenda il sopravvento; e pure perché il cuore resti fermo, solo un mimo immobile dietro lo scudo e il casco, quando lì in piazza ti vomitano addosso l’insulto (“sbirro di merda!”, “infame!”) o lo sputo o il sampietrino (su cui il reduce pubblicherà alati ricordi nei decenni seguenti: e la luce poetica sul sampietrino si soffermerà, mica sulla tua testa spaccata).

 

Ci sono stati grandi sbirri – più ancora quando la sbirreria cominciò a confondere caserma e strade, a pensarle non solo percorse da nemici. Certe storie che film o fiction possono superare, facce impensabili/impresentabili/memorabili, faccende di botte (ché un figlio di puttana di spacciatore è un figlio di puttana di spacciatore, e non si può far sempre finta di avere davanti un mite pensionato che protesta; e un ultrà che vuole spezzarti le gambe non è identico all’operaio in sciopero) e di pietà, certe paure che viene da pisciarti addosso, e tu lì che trattieni piscio e paura, e appena torni a casa la prima cosa è la doccia, ma lo stesso qualcosa non va mai via, è scivolata tra i muscoli e dietro le palpebre, ti ha catturato per sempre – le tue stesse manette ai tuoi polsi. Che poi, mica sempre l’Italia ama i suoi sbirri – quelli della destra da operetta che li chiamano “i nostri ragazzi” e fanno gli svenevoli travestiti da padri della patria, fanno i duri col culo altrui; e quelli di sinistra che sbandano confondendo spesso l’abuso col diritto, così che la parola diritto si è alla fine ammalata, si è mutata nel suo contrario. (Più adesso, però, che prima: ché quando la polizia persino sparava sugli operai, c’erano poliziotti che scrivevano “al compagno Di Vittorio”, e nell’archivio della Cgil certe lettere si trovano, e fu un comunista, forse sentimentale, come Pasolini a spaccare la scenografia di cartongesso che piazzava tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra). Lo sbirro sta lì – indecifrabile a una parte del paese che lo guarda, indecifrabile certi giorni magari a se stesso.

 

[**Video_box_2**]Lo sbirro supremo De Gennaro è stato spesso – con timore, a volte, a volte con spregio – paragonato a Fouché, ministro di polizia di Napoleone, quasi come se un ottimo sbirro dovesse per forza somigliare a quelli di Scarpia nella “Tosca” di Magni, “tremate lo stesso, / cagatevi addosso”. Ma la qualità di uno sbirro di rango è piuttosto la somma tra Fouché e il suo nemico Talleyrand – come in quel meraviglioso film, “A cena col diavolo”, dove i due si incontrano, mangiano, si ricattano reciprocamente, s’intendono politicamente, decidono i destini della Francia – mentre la folla fuori rumoreggia, ché la folla quasi mai un cazzo sa. Ancora una volta, la stessa cosa e il suo contrario, costretti a sommarsi volendosi sottrarre, a tenersi faticosamente (e dolorosamente) in bilico. Uno sbirro supremo è il dono necessario perché un paese regga, persino quando il paese fa finta che meglio sarebbe senza, la testolina scuote, e se proprio deve esserci, allora che sia sul suo confine, lo sbirro, quasi senza farsi vedere, sentinella invisibile, Ulisse alle colonne del mondo che vogliamo sicuro e però aperto al saccheggio – per il resto, quasi nient’altro.

 

Uno sbirro sa che sbirro mai finisce di esserlo – e che persino quelli che non lo sono più perché l’antico mondo questurino e di divise hanno maledetto, da quel mondo mai del tutto si separano. La riprova in un libretto curioso, uscito verso la fine dell’Ottocento, ormai introvabile, da allora mai più ristampato. Lo aveva scritto un certo Federico Giorio, s’intitolava “Ricordi di questura” (e il volume, che finì pure in un dibattito parlamentare dell’epoca, fa da filo conduttore a un bel thriller, “Il vampiro di Munch”, scritto proprio da un poliziotto, Alessandro Maurizi). E cosa, della questura, Giorio ricordava? “Mille fatti potrei citare di questi aguzzini, di queste jene, di questi veri bulldogs della questura, nati esclusivamente per fare male altrui e giovare a nessuno, mangiando a tradimento lo stipendio, perché generalmente sono asini, infingardi, incapaci…”. E ogni nemico di De Gennaro (e ne ha tanti e forti, almeno quanti sono i suoi amici), di corsa andrebbe a sottoscrivere quello che Giorio dei suoi antichi capi raccontava: “Non è l’avere esposto a pericoli la vita, non l’aver compiuto operazioni contro il malandrinaggio, non l’aver conseguito il plauso dei cittadini, che facciano ottenere la promozione di comandante le guardie di P. S. Per arrivare a questo apogeo della poco invidiata carriera, occorre essere, in tesi generale, menzogneri e ipocriti”. E’ su un filo sottile e fragile, che corre l’affannosa condizione di sbirro – tra genio investigativo e mano pesante, tra bile che scorre e cuore a volte troppo sorvegliato. Dietro il Signor Ministro, ai margine del corteo che passa e sputa, dentro l’inferno degli scontri (come le fiamme si levavano a Genova quei giorni, così i mille roghi che nel corso dell’anno ardono, “ma ho dovuto far finta di nulla: gli ordini sono questi e tutto deve risultare regolare”, confidano) lo sbirro sta. A volte la testa scoppia, a volte i coglioni esplodono, l’urlo di spavento ricacciato dentro, a volte quel batticuore da non poter/dover mai dimostrare. La condizione migliore, più nobile e insieme più dura, è quella dello sbirro intelligente, che conserva il peso di qualcosa che resta pure quando la sera la divisa è gettata su una sedia, come lacerazione non curata – e ne siamo pieni, di questi sbirri ottimi, e bisognerebbe andare nella loro scuola, vedere il sacrario essenziale coi nomi delle vittime, e capire che se mafiosi e  banditi e terroristi a loro hanno sparato è perché alla loro intelligenza miravano, mica solo al corpo. Certo, prezioso e fantasioso sbirro è il Montalbano che al meglio li ha rappresentati – e che dopo la notte sudamericana dalla polizia voleva andar via, “io non mi sento tradito, io sono stato tradito”. E lo stesso suo disagio di sbirro immaginario avevano altri reali, il loro disgusto, il loro affanno nel ritrovarsi nel giusto e sentirsi presi dalla parte sbagliata (ci fu allora una bellissima, lunga inchiesta sul settimanale Diario, con decine di testimonianze di sbirri innocenti e spaventati. Dagli altri sbirri, spaventati).

 

Certo De Gennaro tutto questo ha vissuto. Molte cose conosce, moltissime capisce, su molte altre dentro la sua ombra di sbirro supremo ha di sicuro duellato in silenzio. Le cose sono sempre molto complicate, persino per la mente sottile e saggia dello sbirro intelligente – che ha visto il macello combinato dai suoi uomini ripreso dalle telecamere di suo figlio giornalista in erba, e che se non fosse stato giornalista, disse, da manifestante sarebbe andato. E che come macello, come mattatoio di bestie senza colpe, lo ha inteso. Lo sbirro è sul crinale di questa complicazione della vita, a volte del semplice sopravvivere: ha sempre davanti agli occhi, aperto il pugno, insieme i due lati della moneta, la croce e Cesare, lui e il suo doppio. Cossiga raccontava che, quando era ministro dell’Interno, “un grande leader comunista” lo sollecitò: “Ora che avete qualche terrorista in carcere, perché non gli date una strizzatina?”. Facile non fu mai, essere sbirro – di rango come di base – qui in Italia, pure se una volta facile sembrava. Facile non è adesso, pure se adesso tutto più complicato sembra – e c’era ben altro, sul pavimento della Diaz, che la “macchie oscene” del night equivoco. Lo stesso, nessuno si può aspettare che la vita dello sbirro sia lineare. Onesta sì, certo. Valorosa. Bella, persino. Bellissima. Ma lineare no, perché lineare non è mai ciò che sotto gli occhi gli cade – ciò da cui è necessario difenderci, e ciò da cui si difende. Perciò Renzi ha fatto benissimo a sbarrare l’assalto a De Gennaro – ché il paese deve avere memoria, ma non può nemmeno in eterno sopravvivere in mezzo a vanitose commissioni d’inchiesta e pretese che sono sempre e solo botole aperte sotto i piedi degli altri. Non hanno avuto giustizia, le vittime della Diaz – ma l’unica giustizia che abbiamo ha detto che lo sbirro supremo colpe non aveva.

 

(“Ma tu, amico mio, se vuoi vivere tra gli esseri umani, impara a rispettare innanzi tutto l’ombra, e poi il denaro. Se invece vuoi vivere solo per te e per la parte migliore di te stesso, allora non hai bisogno di alcun consiglio”: così, alla fine della sua storia, scrisse a Chamisso, che la sua storia aveva raccontato, l’ebreo Schlemihl che aveva ceduto la sua ombra).

 

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