“Cosa nostra la vuole morto”: il pentito Carmelo D’Amico l’ha detto in faccia al pm Nino Di Matteo, presente all’interrogatorio dell’ex mafioso che si è svolto in febbraio a Messina

L'enigma Di Matteo

Massimo Bordin
Non c’è pentito di mafia che non riveli un progetto di attentato contro il pm della trattativa. Ma il tritolo tanto cercato non si trova.

L’ultimo pentito di mafia che ha parlato ai magistrati della preparazione di un attentato al pm Nino Di Matteo che, come tutti ormai sanno, è la punta di lancia dell’accusa nel processo sulla cosiddetta trattativa, è stato Carmelo D’Amico a Messina di fronte allo stesso Di Matteo e ai magistrati locali. “Cosa nostra la vuole morto”, ha subito detto il pentito al pm palermitano, aggiungendo di aver saputo del progetto da un suo compagno di detenzione, Antonino Rotolo, mafioso di sicura autorevolezza. D’Amico ha poi aggiunto che si doveva essere giunti ormai in una fase esecutiva perché, spostato al carcere milanese di Opera, aveva saputo che alcuni boss lì detenuti erano in attesa di notizie sulla effettuazione dell’attentato. Il pentito, che ha fatto risalire le confidenze raccolte in carcere sul progetto di uccidere Di Matteo all’aprile dello scorso anno, ha cominciato a parlare con i magistrati già in agosto, ma le sue rivelazioni sull’attentato in preparazione sono solo di due mesi fa. Più che rivelazioni, per la verità, quelle di D’Amico sono considerate dagli inquirenti conferme di altre deposizioni di pentiti. In particolare di uno che è valutato come molto importante dalla direzione palermitana antimafia: Vito Galatolo, figlio del capo della famiglia mafiosa del quartiere palermitano di Acquasanta. E’ stato Galatolo a fornire agli inquirenti, a novembre dello scorso anno, il racconto più dettagliato sul rischio gravissimo cui sarebbe esposto Di Matteo. Fra la fine del 2014 e le prime settimane di quest’anno ci sono state frenetiche ricerche del tritolo che, secondo le parole di Galatolo poi confermate oltre che da D’Amico anche da un altro pentito, Antonino Zarcone, sarebbe già a Palermo pronto all’uso, in quantità notevolissima, contenuto in alcuni bidoni. Sembra quasi che ormai ogni mafioso che si pente si senta in dovere di premettere alle sue rivelazioni sulle attività di Cosa nostra nelle quali è stato coinvolto, notizie fresche sugli spostamenti dell’esplosivo destinato al pm del processo sulla trattativa. Una sorta di “preambolo Di Matteo”.

 

Intanto nuclei speciali attrezzati setacciano le zone di Palermo dove i vari pentiti hanno segnalato il passaggio dell’esplosivo, dall’Acquasanta a Porticello, senza alcun risultato. I bidoni non si trovano e un paio di settimane fa era trapelata sui giornali la voce che Cosa nostra avesse cambiato le modalità di esecuzione del progetto omicida, ripiegando su un cecchino. Poi questa ipotesi è stata smentita. Si era trattato di un equivoco, pur indicativo di una psicosi dilagante. Alcuni ragazzini avevano notato strani movimenti intorno a un furgone parcheggiato vicino a un circolo di tennis frequentato da Di Matteo. Uomini in tuta che maneggiavano qualcosa che sembrava un fucile smontato. Indagini subito disposte hanno potuto verificare che si trattava di operai impegnati in lavori di ristrutturazione in un palazzo vicino e i pezzi del fucile smontato erano in realtà attrezzi spara-chiodi.

 

E’ evidente che un clima del genere rende imbarazzante, sgradevole, difficile qualsiasi rilievo critico sull’inchiesta che vede protagonista il pm Di Matteo. E’ inevitabile porsi un problema che è stato posto con chiarezza in un articolo di tre mesi fa quando già il rischio era presentato nei termini che abbiamo appena visto. “Si possono criticare i magistrati antimafia e il loro operato ed è logico e intellettualmente onesto legare con un unico filo conduttore critica, delegittimazione, isolamento e addirittura tritolo?”. Il quesito venne posto, nel novembre scorso, in un editoriale del quotidiano comunista il Manifesto da Giuseppe Di Lello, che fu membro del pool antimafia guidato da Falcone e Borsellino e poi deputato europeo di Rifondazione comunista. La domanda, vista la biografia dell’autore e la sede in cui veniva posta, non era affatto retorica ma tormentata. L’oggetto era la possibilità di criticare l’operato dei magistrati dell’accusa nel processo sulla cosiddetta trattativa stato-mafia senza venire trattati da collusi di fatto con il potere, se non direttamente con la mafia, e addirittura additati come moralmente complici di un sempre possibile attentato nei confronti di qualcuno di quei magistrati. La questione è ormai antica e riguarda alcuni particolari processi, non tutti. Nelle contese televisive ormai quotidiane sui delitti efferati di cronaca, per quanto lo scontro fra innocentisti e colpevolisti sia concitato e spesso ben al di sotto di un livello accettabile di competenza, a nessuno viene mai nemmeno in mente di imputare al suo contraddittore complicità morale, se non oscuri legami, con il presunto assassino. Nei processi di terrorismo, di mafia, di corruzione invece questo tipo di ritorsione polemica nei confronti di chi avanza qualche dubbio è moneta corrente. La “rilevanza sociale”, questa la classificazione usata dal codice, di questo tipo di processi sembra causare effetti del genere. In parole povere, potete criticare pesantemente e perfino irridere l’operato degli investigatori in un’indagine per infanticidio senza grosse conseguenze, ma se vi azzardate ad esprimere un dubbio su una indagine condotta da un pm antimafia verrete relegati immediatamente ai margini del consorzio civile. La progressione delle accuse che vi verranno rivolte sta nelle tre parole, molto ben scelte, usate da Di Lello nel suo editoriale. Una critica a un pm antimafia equivale a “delegittimarlo”, ovvero a mettere in dubbio non il suo operato ma la sua funzione. Come se lo spogliaste della toga. Non potete farlo, anche se così il suo operato diviene intangibile da qualsiasi critica. Fossero anche critiche fondate non compenserebbero il rischio della delegittimazione. Se invece insistete a non dirvi convinti allora è evidente che volete “isolare” chi criticate. E qui le cose si fanno serie, molto serie. L’isolamento, in Sicilia, divenne una categoria di interpretazione dei fatti nel 1982, quando fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Fu Giorgio Bocca a spiegare ai lettori a nord dello stretto di Messina come funzionasse, quando firmò l’ultima intervista al generale e l’intervista venne fuori bellissima. Il grande giornalista raccontava il suo stupore nel trovare la residenza prefettizia di Dalla Chiesa – la storica villa Whitaker, nel centro di Palermo – praticamente deserta se non per un paio di camerieri. Nel corso della lunga conversazione Bocca rimase ancora più colpito, facendone partecipe il lettore, dal silenzio del telefono sulla scrivania dello studio. La mattina era ormai avanzata ma nessuno telefonava al generale-prefetto. Dalla Chiesa era “isolato”. L’isolamento era, per Bocca, il segnale dell’abbandono da parte del potere centrale, dunque della avvenuta delegittimazione. Il generale nell’intervista lamentava la mancata collaborazione del governo malgrado le promesse di poteri speciali, che tardavano ad arrivare. Proprio le critiche a quei poteri speciali dovevano averne bloccato il conferimento, determinando la delegittimazione e l’isolamento del generale. Logico dunque, per Bocca, pensare che quelle critiche fossero state ispirate dai settori più melmosi e compromessi del potere. E questo venne fatto pensare anche al lettore. Il fatto poi che, pochi giorni dopo quell’intervista, Dalla Chiesa venisse barbaramente ucciso insieme alla sua giovane moglie, ha finito per categorizzare quell’isolamento come frutto delle critiche e prologo di una inevitabile tragedia.

 

[**Video_box_2**]Per arrivare al tritolo, terzo stadio della drammatizzazione evocata nell’editoriale di Di Lello, è necessario fare un salto di dieci anni esatti dall’omicidio Dalla Chiesa e arrivare fino al terribile 1992. “E’ arrivato il tritolo per me”. Così Paolo Borsellino disse a più d’uno nei suoi ultimi giorni di vita. Della segnalazione dei Ros, quelli che la procura ha piazzato sul banco degli imputati, Borsellino era venuto a sapere da un ministro socialista, Salvo Andò, e non da chi aveva il dovere di informarlo, il procuratore capo di allora. Già questa, a pensarci bene, è una critica al processo “trattativa” ma i fatti andarono così. Quello che importa qui è comunque l’enorme impatto emotivo che il racconto di quell’episodio produsse dopo la strage di via D’Amelio. Nel momento in cui il processo, sulla “trattativa” ha cominciato a ricevere critiche, quel copione si è riproposto, con la possibilità di produrre un impatto se non uguale, simile. La stampa aveva parlato di insistenti minacce al procuratore aggiunto Antonio Ingroia, ma lo scenario del tritolo arrivato a Palermo si comincia a comporre nel 2013 quando Igroia è uscito definitivamente dalla direzione dell’inchiesta per candidarsi alle elezioni. Nel febbraio di quell’anno un anonimo avverte che una tonnellata di tritolo è pronta per il candidato premier di “Rivoluzione civile”. I giornali ne parlano, il suo ufficio elettorale commenta “Il successo di Ingroia fa paura”. Fortunatamente entrambe le previsioni si riveleranno infondate. A ottobre dello stesso anno si ha notizia di un pentito calabrese che racconta come due anni prima Cosa nostra e la ’ndrangheta avessero preparato venti chili di tritolo per l’allora pm Ingroia, ma già in luglio un confidente aveva spostato l’attenzione su un attentato a Di Matteo, che aveva raccolto il testimone di Ingroia nel delicato processo, con quindici chili di tritolo già arrivati in città.

 

In quell’estate del 2013 le voci di soffiate alla polizia su questo attentato in preparazione si moltiplicano. E già nel marzo di quell’anno a Di Matteo è indirizzata una lettera di un anonimo, che però tiene a qualificarsi come un mafioso trapanese, che lo avverte che il nuovo capo dei capi, Matteo Messina Denaro, viene sollecitato da amici romani a compiere un attentato contro di lui perché “il paese non può essere governato da comici e froci”, con trasparente allusione a Beppe Grillo e al neo governatore siciliano Crocetta. La logica dell’anonimo è zoppicante, il tono pittoresco ma la notizia, rilanciata, un certo effetto lo produce. Anche perché entrano in scena due elementi che si riproporranno. L’interessamento diretto del nuovo capo Messina Denaro e “gli amici di Roma”, che in una successiva lettera anonima diventeranno “la centrale romana”, nello scorso settembre immaginificamente chiamata “l’agenzia della paura” da Attilio Bolzoni su Repubblica.

 

In primavera poi inizia il processo di fronte alla Corte d’assise e Riina comincia a essere oggetto di intercettazioni in carcere nelle quali nei mesi successivi si produrrà in minacce di ogni tipo contro il pubblico ministero ma anche contro Messina Denaro.
Per tutta l’estate intanto era iniziato un pubblico dibattito, che peraltro ancora si trascina, sulle misure di sicurezza per il dottore Di Matteo. E’ stata presa in seria considerazione l’ipotesi di farlo spostare su un mezzo blindato di tipo “Lince” ma è stato lui stesso a rifiutarsi. Il ministro Alfano considera i pro e i contro di dotare la scorta del dispositivo “bomb jammer” mentre l’associazione “agende rosse” annuncia una colletta per acquistarlo su Internet. I pareri sono discordi. “Il bomb jammer è una grandissima minchiata”, si è lasciato sfuggire il giornalista Lirio Abbate, cronista serio, davanti a un esterrefatto Pif nel corso di una manifestazione antimafia. Insomma non mancano aspetti farseschi ed è difficile solo pensare a un parallelo fra il dibattito sui poteri straordinari a Dalla Chiesa e quello sul bomb-jammer per Di Matteo.

 

C’è però la parola del pentito Galatolo, che nel novembre scorso rimette insieme molte delle tessere di un mosaico che si è andato costruendo nei due anni precedenti, assemblandole in una deposizione che aspira a un senso compiuto. Parla di due riunioni a Palermo, alle quali partecipano sia personaggi legati a Riina, sia emissari di Messina Denaro. Secondo Galatolo nelle riunioni si riparla dell’attentato e del tritolo, acquistato in Calabria per seicentomila euro – e questa nella storia della mafia sarebbe una novità assoluta – e già spostato su Palermo. Delle ricerche, affannose e finora purtroppo infruttuose, si è già detto, così come dei pentiti che stanno riproponendo questa trama. Naturalmente nulla deve essere trascurato per la sicurezza del dottore Di Matteo, degli altri giudici e delle loro scorte. Peraltro non c’è nessun segnale che questo non avvenga, si tratta dei magistrati più scortati e protetti in Italia. Ma di questi allarmi occorre anche dire che proprio il loro protrarsi da alcuni anni può indurre qualche dubbio, senza per questo tacciarli di strumentalità. Su un aspetto, piuttosto, vale forse la pena di mettere alla fine l’accento. Risulta che una fonte confidenziale, anche in questo caso diverso tempo fa, abbia avvertito gli investigatori di un attentato in preparazione non contro il dottore Di Matteo ma contro un altro magistrato della Dda palermitana, la dottoressa Teresa Principato, che ha fatto arrestare alcuni famigliari di Matteo Messina Denaro , fra i quali la sorella, e ha condotto un’indagine assai penetrante sugli averi e gli interessi del capo dei capi. Sarebbe imperdonabile concentrare tutte le risorse per proteggere un solo possibile bersaglio e scoprirne altri, magari più a rischio.

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