L’inaugurazione del valico appenninico dell’Autostrada del Sole, nel dicembre 1960: nel pieno del boom economico, gli anni d’oro dell’Iri

Memorie boiarde

Stefano Cingolani
Si fa strada una nostalgia per lo stato imprenditore, una sorta di Iri 2.0. Storia di una grande illusione da Beneduce a Prodi. Guido Carli e la pianificazione dell’economia di mercato: era un’intervista del lontano 1977, programmare allora era una virtù.

Che sciocchezza contrapporre l’economia di mercato all’economia pianificata. Non esiste un sistema così intensamente pianificato come l’economia di mercato. Forse che l’economia americana non è programmata? Le grandi agenzie federali non controllano i mercati finanziari e impongono alle società regole estremamente minuziose, gli interventi della Banca centrale sul mercato dei capitali, l’azione continua di vigilanza dei magistrati a tutela delle norme contro i trust, non sono elementi di programmazione? La stessa legislazione fiscale americana non è un elemento di programmazione? Per questo in Italia il mercato è praticamente inesistente perché è del pari inesistente ogni elemento di programmazione”. No, non si tratta di Mariana Mazzucato, la nuova madrina della sinistra statalista; chi parla è Guido Carli, il più grande dei grand commis italiani, ministro del Commercio estero e del Tesoro, negoziatore di Maastricht, funzionario dell’Iri (ai suoi esordi), governatore della Banca d’Italia, presidente della Confindustria su mandato di Gianni Agnelli. Più che un boiardo, un mandarino.

 

Carli amava spiazzare gli interlocutori con uscite taglienti che sfidavano il senso comune. Ma quella volta riuscì a sorprendere persino il suo protetto Eugenio Scalfari che lo intervistava sul capitalismo italiano per un libro pubblicato dall’editore Laterza. Ma come, e la proprietà pubblica di banche e imprese, le partecipazioni statali? Si poteva ignorare questa presenza massiccia, invasiva dello stato nell’economia? Certo che no, ma a suo avviso quella panoplia non faceva parte della “programmazione all’americana”.

 

Fa davvero sensazione rileggere quelle pagine. Era il lontano 1977, allora programmare era una virtù, e l’Unione sovietica non era crollata anche se il Gosplan mostrava chiaramente di non poter funzionare. Tante cose sono cambiate, eppure oggi l’economia mista sta tornando in auge e sempre più spesso la mano pubblica si sostituisce alla mano invisibile del mercato.

 

L’Ilva viene nazionalizzata espropriando i Riva, legittimi proprietari. E’ una operazione temporanea, si dice, ma il siderurgico di Taranto da solo non si regge in piedi. I Monti bond, cioè i prestiti concessi al Monte dei Paschi di Siena diventano azioni così che il Tesoro si trasforma in azionista. Nasce un fondo per le piccole imprese in crisi che assomiglia alla vecchia Gepi. La Cassa depositi e prestiti possiede la rete elettrica e quella del gas e potrebbe avere anche quella telefonica. Intanto i suoi bracci operativi vengono tirati da tutte le parti, persino nei grandi alberghi. Sono per lo più risposte a emergenze economiche, ma soprattutto politico-sociali. Difficile concludere che c’è dietro una chiara strategia, però la rinascita dello stato imprenditore non è più solo un sogno.

 

Il revival trova anche una veste di alto profilo culturale. Lunedì prossimo, 23 marzo, all’Accademia dei Lincei Pierluigi Ciocca, storico dell’economia, già membro del direttorio della Banca d’Italia, e Ignazio Visco governatore della Banca d’Italia, apriranno con due relazioni il convegno sulla storia dell’Iri al quale partecipano studiosi ed economisti. Sono previsti interventi di Giuliano

 

Amato, di Romano Prodi che ha presieduto l’Iri per un decennio e Gian Maria Gros-Pietro.

 

Ciocca ha curato un lavoro di ricerca durato molti anni che ha prodotto ben sei volumi editi da Laterza. A chi gli chiede il senso di questo amarcord risponde che “l’Iri è storia passata, irripetibile, almeno in quelle forme”. Eppure, se la nostalgia riguarda la migliore stagione, quella del miracolo economico, quando l’Istituto per la ricostruzione industriale fu “meccanismo non strumento”, allora acquista un valore attuale. “Negli anni Trenta i dirigenti dell’Iri gestirono le banche e le imprese meglio di quanto non avessero fatto i loro predecessori”, spiega Ciocca. “Nei decenni successivi le prestazioni furono mediocri durante la guerra, buone nella ricostruzione, eccellenti nel miracolo, cattive nella crisi degli anni Settanta, discrete negli anni Ottanta, pessime negli anni Novanta fino alla sua liquidazione”. Dall’enorme lavoro degli studiosi, quindi, emerge che quella tecnostruttura ha indossato molte maschere, fino a diventare la capra Amaltea il cui corno era riempito di ogni ben di dio.

 

La leggenda vuole che il nuovo strumento nacque in una notte grazie a due cervelloni della politica economica e industriale: Alberto Beneduce (più politico) e Donato Menichella (più tecnico) i quali inventarono un mezzo per salvare dal collasso grandi aziende che avrebbero trascinato le grandi banche azioniste di controllo. Stiamo parlando di Banca commerciale e Credito italiano, di siderurgia e di automobile, di cantieri navali e di grandi costruzioni. Beneduce sottopose il progetto a Benito Mussolini il quale si fidava completamente del suo plenipotenziario economico. Et voilà, l’Italia introdusse l’economia mista prima di tutti gli altri paesi occidentali, scoprì la “socializzazione dell’investimento” con tre anni di anticipo rispetto a John Maynard Keynes. Per Beneduce e Menichella l’Iri doveva scomparire una volta compiuto il suo compito, ma il conflitto mondiale cambiò tutto.

 

Il Dopoguerra, come spiega Valerio Castronovo, vede l’Iri protagonista accanto, spesso insieme, ai grandi gruppi privati. Dall’acciaio alle autostrade, crea l’infrastruttura che trasforma l’Italia nella quinta potenza industriale. Nel 1960 si insedia alla presidenza Giuseppe Petrilli; politicamente vicino ad Amintore Fanfani anche se nipote del capo di gabinetto di Alcide De Gasperi, professore e teorico dello “Stato imprenditore” come si intitola il suo opus magnum. Resterà in sella per quasi vent’anni. Il vice è Bruno Visentini, presidente della Olivetti, pegno dell’alleanza tra capitale pubblico e privato. Ma quando quest’ultimo crolla, sotto i colpi della crisi degli anni Settanta, l’Iri si trasforma prima in una stampella, poi in una barella. E’ lì che avviene la svolta, è in quel momento che il capitalismo di stato imbocca la rovinosa discesa.

 

Non è frutto solo del caso, della necessità, della storia, ma del fattore umano. Tutto cambia quando i grand commis, i gattopardi dell’èra eroica, diventano obbedienti distributori di spoglie. Sarebbe stato molto interessante e istruttivo dedicare più spazio in questa ponderosa storia dell’Iri agli uomini, alla loro cultura, ai loro legami politici, a come tutto questo ha influenzato il modo di gestire le aziende. Illuminante è l’Alfasud costruita per assecondare i disegni politici della Democrazia cristiana o l’accordo tra l’Alfa Romeo e la Nissan in funzione sì anti Fiat (come voleva Carlo Donat-Cattin plenipotenziario democristiano a Torino), ma anche per ingraziarsi Ciriaco De Mita capo indiscusso delle truppe avellinesi e poi segretario del partito. C’è poi l’acciaieria di Taranto. O la distruzione degli agrumeti di Gioia Tauro per un polo siderurgico che non si sarebbe mai fatto. L’Iri ha contribuito allo sviluppo del mezzogiorno, scrivono gli studiosi, e finito l’Iri non c’è più stata grande industria in Italia. Due verità, ma due mezze verità come mostrano proprio Gioia Tauro e Pomigliano d’Arco. Quanto al gigantismo, è stato una delle cause del collasso.

 

I boiardi, in ogni caso, non erano tutti uguali. Pur con la loro affiliazione politica, Ettore Bernabei, Fabiano Fabiani, Ernesto Pascale, tanto per fare alcuni nomi, hanno lasciato una eredità positiva nelle Autostrade, in Finmeccanica o nelle telecomunicazioni, in gran parte dissipata con le privatizzazioni. Ma il vizio di origine si rivela quando i manager cessano di rispondere allo stato per assecondare i partiti che li hanno nominati.

 

L’epoca di Leopoldo Medugno che comincia nel 1968, fa da spartiacque, secondo Carlo Troilo ex influente capo ufficio stampa dell’Iri. La nomina è interna, ma gli sponsor sono il democristiano Antonio Gava, il repubblicano Francesco Compagna e il socialista Francesco De Martino, la troika campana, perché l’egemonia democristiana si esercitava con il compromesso. Sale l’onda dei passaggi diretti dalla politica all’impresa che spazza Finmeccanica dove arriva Giorgio Tupini figlio di Umberto eminente personaggio della Dc, Finmare con Camillo Crociani, la Banca commerciale con Gaetano Stammati, collaboratore di Ezio Vanoni e il Banco di Napoli con Ferdinando Ventriglia uomo di fiducia di Emilio Colombo. Intendiamoci, già prima molti alti dirigenti sventolavano la loro bandiera, ma la vera spartizione avviene proprio allora.

 

Anche Romano Prodi arriva con il viatico politico della Dc attraverso Beniamino Andreatta suo maestro e mentore. Riceve un mandato ampio il cui scopo è risanare un bilancio disastrato, appesantito dalle perdite dell’acciaio, dei cantieri navali e dei trasporti marittimi. Senza cambiare, però, il sistema, e senza venir meno alla funzione di supplenza nei confronti dell’impresa privata. Prodi nel 1982 acquisisce le acciaierie della Fiat, un contributo importante per alleggerire le perdite dell’azienda, come ha confermato a più riprese lo stesso Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo automobilistico. Ristrutturazioni, dimissioni (come i panettoni di stato o l’Alfa Romeo), chiusure, assottigliano il pachiderma, ma non ne trasformano la natura perché nessuno lo voleva, né i governi, né la Confindustria né i sindacati.

 

Prodi “non riuscì ad attuare un programma che pure era chiaro nelle linee di fondo”, sostiene Ciocca. Allo scadere del suo secondo mandato nel 1989 lascia la bomba a orologeria dei debiti che esplode tra il 1992 e il 1993 quando i conti precipitano con perdite fino a 10.200 miliardi di lire (circa 5 miliardi di euro) a causa dell’aggravio degli oneri finanziari. I programmi di investimento decisi venivano coperti con il Fondo di dotazione stanziato ogni anno con la legge finanziaria, ma lo stato non riusciva più a far fronte ai propri impegni.

 

Massimo Mucchetti, giornalista e senatore del Pd, nel suo contributo assai polemico, sostiene che l’Iri non era affatto da buttar via. Il 27 luglio 1993 Andreatta stipula un accordo con il commissario europeo Karel Van Miert che obbliga il governo italiano a fare chiarezza sul debito degli enti pubblici economici. Allora, l’Iri fatturava 75.912 miliardi di lire (più o meno 39 miliardi di euro). L’esposizione verso banche e sottoscrittori di obbligazioni era di 80 mila miliardi di lire, superiore al fatturato e quasi tre volte i mezzi propri. Ma il problema non erano le società operative (se si esclude la siderurgia), quanto la capogruppo, l’Iri spa, che aveva nove lire di debito per ogni lira di mezzi propri. Il governo, dunque, avrebbe potuto chiudere il baraccone e tenersi i bocconi buoni. “Il graduale risanamento delle aziende – sostiene Mucchetti – in dieci anni ha portato allo stato dividendi e imposte per 14,6 miliardi”. Dunque, perché cedere tutto? Per una logica puramente di cassa; non si è fatto un conto industriale, ma ragionieristico: l’Iri aveva provocato un aumento del debito pubblico equivalente a 37 miliardi di euro al netto dei dividendi. La vendita produrrà un incasso superiore. “Il sacrificio dell’Iri si riduce a mero pegno da pagare ai mercati finanziari internazionali – scrive Mucchetti – La conversione liberista di Andreatta e della sinistra democristiana apre un vuoto che non è stato più colmato”.

 

“L’Iri cessò per il concorso di tre fattori – sostiene Ciocca –: i limiti di governance, organizzativi, dirigenziali, interni al gruppo; la speciale natura della crisi degli anni Settanta; la miopia di una classe dirigente a un tempo invasiva e incapace”. Questi ultimi sette anni di crisi profondissima hanno provocato una vera e propria regressione manifatturiera, di fronte alla quale lo stato potrebbe essere chiamato ancora una volta a una funzione di supplenza. Come? “Le risorse potrebbero solo ricrearsi nella dismissione di cespiti immobiliari pubblici, in capitale di rischio conferito alla Cassa depositi e prestiti, al limite con la cessione di ciò che resta del patrimonio azionario dello stato impiegato nelle attività produttive non particolarmente innovative svolte dall’Eni e dall’Enel”. E’ fattibile? No, perché il presupposto sarebbe che le finanze della Repubblica fossero risanate, il bilancio in equilibrio, il debito sotto controllo. La seconda condizione è che il nuovo Iri agisca come un meccanismo atto a contenere i costi e aumentare competitività e produttività. Insomma, come una impresa e ciò implica che la politica si tenga fuori, limitando il suo ruolo agli obiettivi strategici.

 

Questo è il punto più contraddittorio dello statalismo vecchio e nuovo. Se massimizzare il consenso è il fine della politica nei regimi democratici, per quanto buoni siano, i boiardi non potranno sostituirsi agli imprenditori. Certo, nella storia ci sono stati i visionari, gli statisti che rivelano le loro virtù in tempi straordinari, mentre in tempi ordinari erano preda di vizi e debolezze. Tuttavia, non è davvero tempo di eroi.

 

E poi c’è il fattore umano che sempre ritorna in ballo. Chi potrebbe essere il nuovo Beneduce? Franco Bassanini ne ha la preparazione giuridica e politica, l’esperienza e l’ambizione. Ma dall’altra parte del tavolo, sotto la lampada sempre accesa, non c’è il Duce. I più ascoltati consiglieri del principe in questo momento sono Andrea Guerra e Yoram Gutgeld: con loro Matteo Renzi ha un filo diretto. Il primo ha sempre fatto il manager, il secondo viene da McKinsey, il colosso della consulenza che ha una cultura aziendalista e organizzativa. Tutti possono cambiare (in fondo Beneduce agli inizi era un deputato socialista). E può anche emergere una figura nuova, un grande burattinaio che guidi il rinato Leviatano. Per il momento, però, nessuno lo ha visto.

Di più su questi argomenti: