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Accusatori condannati

Il caso Consip illumina il marcio che c'è nel rapporto tra pm e giornali

Luciano Capone

Lo “scandalo Consip” esiste: non riguarda chi è stato indagato, ma chi ha svolto l’indagine con metodi incivili e obiettivi politici

Indagati assolti e indagatori condannati. Dopo oltre sette anni dall’inizio dell’inchiesta sul caso Consip, il tribunale di Roma ha emesso una sentenza che riscrive completamente la storia degli ultimi anni. Tra gli otto assolti con le formule – a seconda delle imputazioni – perché il fatto non sussiste e perché il fatto non costituisce reato ci sono Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier Matteo; l’ex ministro dello Sport (Pd) Luca Lotti; l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo; Carlo Russo, conoscente di Renzi sr.; l’ex deputato Italo Bocchino; l’ex comandante dei Carabinieri della legione Toscana Emanuele Saltalamacchia; Filippo Vannoni e Stefano Pandimiglio. I due condannati, invece, sono Gianpaolo Scafarto (1 anno e sei mesi), il maggiore dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico (Noe) che aveva condotto l’inchiesta sotto la supervisione del pm napoletano Henry John Woodcock e il colonnello dei Carabinieri Alessandro Sessa (3 mesi) con cui Scafarto aveva condiviso informazioni delicate. 

Quando esplose il “caso Consip”, cavalcato da giornali come il Fatto quotidiano e la Verità che sin dall’inizio hanno pubblicato atti coperti da segreto, si pensava che l’inchiesta di Woodcock avesse svelato un sistema illegale del potere renziano: la manipolazione del più grande appalto d’Europa da 2,7 miliardi, in cui erano coinvolti familiari e personaggi politicamente vicini all’allora premier Renzi. Mentre  le continue fughe di notizie dalla procura di Napoli facevano montare il clamore mediatico, con il passaggio dell’inchiesta alla procura di Roma – all’epoca guidata da Giuseppe Pignatone – lo scenario si è improvvisamente ribaltato. Il caso si è  trasformato in un processo all’inchiesta e a certi metodi d’indagine: ripetute  fughe di notizie e imbeccate ai giornali amici, manipolazione della trascrizione delle intercettazioni e  falsificazioni nelle informative. 

Il boccone più prelibato di questa inchiesta è stato sicuramente Tiziano Renzi, accusato di essersi inserito in una mediazione illecita insieme a Carlo Russo – in cambio della promessa di denaro – per spingere l’ad della Consip a manipolare una gara  per facilitare la Romeo Gestioni (di proprietà di Alfredo Romeo). Il padre dell’ex premier, in realtà, vista la scarsità di prove sarebbe dovuto uscire dal processo già molto tempo fa. La procura di Roma aveva richiesto l’archiviazione già nel 2019, ma Tiziano Renzi dopo la caduta di alcune accuse fu comunque rinviato a giudizio per traffico d’influenze. Nel processo l’accusa ha continuato a chiederne l’assoluzione, che è finalmente arrivata.

L’altro imputato politicamente rilevante era Luca Lotti, ex ministro e braccio destro di Matteo Renzi, per rivelazione del segreto: avrebbe informato Luigi Marroni, il principale teste dell’accusa, di essere indagato e sottoposto a intercettazioni. Stessa accusa per il generale Emanuele Saltalamacchia. Entrambi assolti. Come è stato assolto dalla stessa accusa anche il generale Tullio Del Sette, ex comandante generale dell’Arma dei carabinieri, in appello in un processo-stralcio.

In questa inchiesta, che ha riempito per anni le pagine dei giornali con titoli scandalistici, è emerso tutto ciò che c’è di malato nella giustizia italiana e nel suo rapporto con l’informazione. Oltre alle fughe di notizie, che ormai non fanno più notizia e che hanno caratterizzato l’inchiesta di Woodcock sin dal principio, c’è stato molto di peggio. Come la pubblicazione di atti non solo coperti da segreto, ma che sarebbero dovuti essere distrutti perché penalmente irrilevanti. Il caso più noto è la pubblicazione,  da parte di Marco Lillo sul Fatto quotidiano (che sul tema ha pubblicato anche un libro: “Di padre in figlio. Le carte inedite sul caso Consip e il familismo renziano”), di un’intercettazione tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano, in cui l’ex premier sembrava non credere alla versione del padre rispetto al fatto che non avesse mai incontrato l’imprenditore Alfredo Romeo. Il caso più scandaloso, invece, ha riguardato la pubblicazione di un’intercettazione, sempre a opera di Lillo sul Fatto quotidiano, di una telefonata fra Tiziano Renzi e il suo avvocato, Federico Bagattini. Non solo le conversazioni tra indagati e difensori non sono utilizzabili, ma dovrebbero essere distrutte, perché la loro divulgazione è una violazione fondamentale delle garanzie costituzionali e del giusto processo. Non in Italia e non in questo caso: finirono in prima pagina  su un giornale politicamente ostile a Renzi.

Gianpaolo Scafarto è l’ufficiale del Noe di fiducia di Woodcock con cui il pm  aveva già lavorato  all’inchiesta Cpl Concordia: anche quella finita con una pioggia di assoluzioni e la divulgazione sul Fatto di un’intercettazione penalmente irrilevante ma politicamente sensibile, tra Matteo Renzi e il generale della Gdf Michele Adinolfi,  in cui Renzi espresse giudizi poco lusinghieri sull’allora premier Enrico Letta. Nell’inchiesta Consip, alla fine, Scafarto è stato condannato a 1 anno e 6 mesi per aver ripetutamente rivelato al giornalista Marco Lillo atti coperti da segreto investigativo, che immediatamente finivano sul giornale. Ma Scafarto ha fatto di più. Siccome non c’erano prove del coinvolgimento di Tiziano Renzi, ha manipolato il contenuto di un’intercettazione ambientale facendo credere in un’informativa che l’affermazione “Renzi l’ultima volta che l’ho incontrato...” fosse di Alfredo Romeo: sarebbe stata la prova definitiva dell’incontro tra l’imprenditore e Tiziano Renzi. Invece Scafarto era a conoscenza che quell’affermazione era di Italo Bocchino, ed era riferita a Matteo Renzi. Inoltre Scafarto ha riportato nelle indagini di sospettare di essere pedinato dai servizi segreti (all’epoca c’era Renzi al governo), quando erano stati fatti accertamenti sulle auto sospette che avevano identificato il proprietario escludendone l’appartenenza all’intelligence. Per questi due episodi Scafarto è stato prosciolto, evidentemente per mancanza dell’elemento soggettivo. Ciò per cui Scafarto è stato condannato, oltre alla rivelazione ai giornalisti, è la trasmissine di atti coperti da segreto a suoi amici militari  che lavoravano nei servizi segreti dell’Aise.

Insomma, lo “scandalo Consip” esiste. Non riguarda chi è stato indagato, ma chi ha svolto l’indagine con metodi incivili e obiettivi politici.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali