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la ricostruzione

Prigioni & galere. Breve storia del rapporto fra istituzioni e “delinquenti”

Michele Magno

Molta voglia di catene, poca di rieducare. Il primo regolamento carcerario dell'Italia unificata trattava i detenuti come soggetti passivi. Il racconto del carcere e del "carcere duro" dal Panopticon al Sessantotto

“Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”. 
Fëdor Dostoevskij, Delitto e castigo

 

Panopticon (l’occhio che tutto vede) è il titolo di un opuscolo scritto nel 1786 da Jeremy Bentham. Stampato nel 1791, ha dato al suo autore una fama imperitura. I romanzi di appendice, i film in costume, le incisioni di Piranesi continuano a trasmettere anche a noi, in modo tutto sommato fedele, quella che per secoli è stata l’idea di prigione: uno spazio senza luce, chiuso da mura spesse, da porte pesanti, da chiavistelli rugginosi. Quei luoghi avevano un loro scenografico orrore; ma, sottratto agli sguardi degli altri, il corpo del prigioniero godeva di una sia pur limitata libertà. Il padre dell’utilitarismo in realtà aveva immaginato una prigione abbastanza diversa, controllata da un guardiano invisibile.

 

Nel 1976 Michel Foucault la descriveva così: “Alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre, che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; le celle hanno due finestre: una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre, l’altra verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale […]. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla torre, ben stagliate, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individuabile e costantemente visibile” (Sorvegliare e punire, Einaudi, 2014).

 

Bentham pensava che la sua invenzione potesse avere un gran numero di applicazioni, non solo nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria, ma in ogni settore della società. “Sia che si tratti di punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi, mantenere gli indigenti, guarire i malati, addestrare quelli che vogliono entrare nell’industria, o fornire l’istruzione alle future generazioni”, il Panottico poteva trasformarsi in manicomio, fabbrica, ospedale, scuola, brefotrofio. In ogni caso, diventò subito un “carcere ideale” nel 1795 nell’isolotto di Santo Stefano, nell’arcipelago pontino. Su incarico di re Ferdinando IV di Borbone, l’architetto Francesco Carpi lo progettò seguendo i dettami del filosofo inglese: verrà chiuso solo nel 1965. Oggi strutture analoghe sono ancora presenti in Cile, nella Russia e negli Usa.

 

Pochi anni prima del Panopticon, John Howard aveva pubblicato Lo stato delle prigioni, un libro che destò nell’opinione pubblica  europea un’attenzione e un interesse paragonabili solamente a quelli suscitati dall’opera eponima di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764). Pur muovendo da presupposti morali e religiosi, l’austero filantropo quacchero arrivava alla stessa conclusione del laico Bentham (anch’egli ammiratore di Beccaria), ovvero che i galeotti, “persone malate che non avevano l’autodisciplina necessaria per controllare le proprie passioni”, potevano essere rieducati e ricondotti all’onestà grazie al lavoro manuale, ammortizzando in tal modo anche i costi della prigionia.

 

Da queste idee sorsero i sistemi penitenziari moderni, volti al reinserimento del condannato nella vita sociale attraverso ambienti più salubri, l’istruzione degli analfabeti e l’insegnamento della religione per rafforzare i “sentimenti morali”. Si differenziavano, però, su un punto, ossia sull’efficacia dell’isolamento permanente del detenuto. Il sistema “filadelfiano” (dal nome della città della Pennsylvania in cui si affermò) ebbe come suoi capisaldi l’isolamento continuo, diurno e notturno. Il sistema “auburniano” (da Auburn, una località vicina a New York) adottò l’isolamento notturno e consentì il lavoro in comune durante il giorno, ma con l’obbligo rigoroso del silenzio. Il sistema “irlandese” creato da Walter Crofton (1815-1897), invece, prevedeva un primo periodo d’isolamento continuo e un secondo d’isolamento solo notturno, intervallati da periodi di lavoro in opifici industriali o in fattorie agricole. Fu questo terzo sistema che ebbe la diffusione maggiore in Europa e in America, ma non nel Regno d’Italia. 

 

Il problema della scelta del sistema penitenziario fu affrontato per la prima volta nel 1861, con la presentazione in Parlamento del disegno di legge per la costruzione di un carcere auburniano a Cagliari. Non superò l’esame del Senato anche per l’opposizione del conte di Salmour, esponente di una delle casate piemontesi più in vista. Su suo suggerimento, venne allora istituita una Commissione di studio sulla riforma carceraria. Analizzando i sistemi penitenziari angloamericani, il documento di sintesi redatto nel 1862 bocciava quello auburniano e tesseva le lodi del filadelfiano, i cui vantaggi erano quelli di “rendere la pena più dura e nel tempo stesso più giusta; di evitare tra i detenuti la vicendevole conoscenza, che spesso è sorgente di nuovi delitti; di mettere il condannato in presenza di se stesso, costringendolo ad abitudini d’ordine e di regolarità; e di agevolare l’uso de’ mezzi adatti per ottenerne la resipiscenza, dando maggiore accesso alla voce della religione e agli affetti di famiglia” (Assunta Borzacchiello, Breve storia dell’irrisolta questione carceraria, Rivista penitenziaria e criminologica, n. 2-3, 2005).

 

Pur tra polemiche e perplessità, il 28 gennaio 1864 veniva quindi emanata la “Legge colla quale è determinato il modo di riduzione e di costruzione delle carceri giudiziarie”, che adottava il sistema penitenziario a segregazione perpetua. Infatti, come recitava l’articolo 1, “Le carceri giudiziarie saranno ridotte e costruite secondo il sistema cellulare: i detenuti vi saranno segregati gli uni dagli altri, ed occuperanno locali isolati in guisa che rimanga impedita ogni comunicazione fra di loro tanto di giorno che di notte. Sarà provveduto al passeggio all’aria libera dei detenuti in locali ove questi siano egualmente segregati gli uni dagli altri”.

 

Il primo regolamento carcerario dell’Italia unificata venne promulgato nel 1891. La relazione dell’allora direttore delle carceri chiariva che il legislatore riserva ai detenuti l’appellativo di “delinquenti”: essi sono “per lo più individui spostati, dediti al vizio, intolleranti di ogni freno”. I detenuti sono considerati soggetti passivi, portatori d’obblighi, senza alcun diritto: per esempio non hanno diritto ad alcuna retribuzione per il loro lavoro. “Il condannato, diventato definitivo, è sottoposto a una preparazione di segregazione cellulare: può durare sette anni, se trattasi dell’ergastolo, un sesto della durata della pena, se della reclusione”.

 

La punizione più grave consisteva nell’essere inviati nelle case penali di rigore, dove erano destinati i condannati “incorreggibili”, sottoposti a un regime di segregazione continua, senza poter ricevere visite, inviare lettere, obbligati a lavori forzati senza retribuzione. Solo qualche anno dopo verranno attenuate alcune norme: nel 1902 viene abolito l’uso della catena al piede, mentre un decreto dell’anno successivo sopprime la camicia di forza, i ferri e la camera buia.

 

Ciononostante, nella seduta della Camera del 18 marzo 1904, Filippo Turati pronuncia un memorabile discorso sulla situazione delle carceri italiane. Il deputato socialista accusa il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti di ignorare le condizioni di vita dei detenuti, la pessima qualità del vitto, l’umiliazione a cui erano costretti per la “cosiddetta aria, imposta anch’essa dal regolamento per un’ora al giorno, che si prende in quegli orridi cortiletti dei reclusori, che sembrano pozzi: e non v’è nulla di più lugubre di quelle file taciturne di condannati, vestiti da arlecchino, perquisiti all’entrata e all’uscita del cortiletto, che girano di continuo, a passo uguale, rasente le mura, a distanza di alcuni metri l’uno dall’altro, senza poter dire una parola, senza potersi fermare se non col permesso dell’aguzzino, come povere giumente cieche che girino la ruota di una macina da mulino”. L’elenco delle ruberie, delle illegalità, dei soprusi svelati da Turati faceva insomma emergere una realtà drammatica, sconosciuta all’opinione pubblica dell’epoca.

 

Nel 1931 vede la luce un regolamento che aggiorna quello del 1891, stabilendo una disciplina più congeniale al regime fascista. Restano i tre pilastri della vita carceraria –lavoro, istruzione civile e pratiche religiose – ma ne viene rafforzato il carattere tassativo: ogni altra iniziativa non solo è vietata, ma è passibile di sanzioni disciplinari. Ad alcuni divieti e obblighi viene riservato particolare rilievo, per rendere evidente il “carattere afflittivo e intimativo” della pena e “l’austero carattere dell’esecuzione penale”: sono proibiti “ogni giuoco, festa o altra forma di divertimento” e anche intrattenimenti musicali, che debbono essere “riservati al cittadino che vive la vita onesta e libera”; “non è consentito ai singoli di astenersi dalla partecipazione alle funzioni regolamentari collettive della religione di Stato, perché queste sono una manifestazione di quella disciplina morale, che è la base di ogni forte ordinamento”. 

 

Il crollo del regime mussoliniano, la fine della guerra e l’instaurazione della democrazia repubblicana “non segnano una netta cesura nella storia delle istituzioni penitenziarie” (Guido Neppi Modona, Carcere e società civile, lezione tenuta all’Università Roma Tre, 24 gennaio 2014).

 

A causa delle disastrose condizioni delle carceri scoppiano tumulti e rivolte, a Roma (1945) come a Milano e Torino (1946). Lo stesso ministro della Giustizia Togliatti, visitando Regina Coeli, dichiara che quello non è un carcere, ma un cattivo campo di concentramento. Alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle carceri, la prima e unica nella storia dell’Italia unita, istituita nel 1948 e poi insediata nel luglio del 1949, i detenuti indirizzano migliaia di lettere che consentono di disegnare una vera e propria geografia sommersa delle carceri italiane di quegli anni.

 

La Commissione, appoggiata e promossa da un numero speciale della rivista Il Ponte del 1949, che raccoglie saggi, memorie e testimonianze di quanti avevano conosciuto il carcere e il confino fascisti, termina i suoi lavori alla fine del 1950, “con una relazione che propone innovazioni piuttosto modeste, volte a eliminare gli aspetti più assurdamente afflittivi e vessatori del Codice Rocco, accompagnate da alcune proposte più incisive, quali la liberazione anticipata e permessi per motivi di famiglia e a fini rieducativi per i condannati meritevoli” (Guido Neppi Modona, ibidem).

 

Alcuni di questi modesti tentativi di umanizzazione della pena troveranno attuazione in una circolare ministeriale del Guardasigilli Zoli del 1951: si raccomanda ai direttori di fare un uso limitato dell’isolamento in cella, si dispone che tutti i detenuti siano chiamati con il nome e cognome e che i colloqui con i famigliari si svolgano senza il controllo di un agente di custodia. Inoltre, viene bandito il ricorso alla cintura di sicurezza come mezzo di punizione e permesso alle detenute di fumare. Ma questa svolta permissiva non dura molto. Meno di tre anni dopo una circolare del Guardasigilli Michele De Pietro (presidente del Consiglio Mario Scelba) contiene pesanti richiami all’ordine, poiché “l’opera di restaurazione morale non ha progredito come quella di restaurazione materiale”. Non fortuitamente verso la fine degli anni Cinquanta incomincia a prendere forma il modello del “carcere-clinica”, che fa del detenuto un oggetto di studio e di osservazione scientifica della personalità, base di un trattamento rieducativo “individualizzato”. 

 

Seguiranno il Sessantotto e l’autunno caldo sindacale, con l’ingresso in carcere di quadri studenteschi e operai altamente politicizzati. Sono gli anni della scoperta, sia sul terreno culturale che su quello della lotta politica (spesso violenta) delle “istituzioni totali”: non solo il carcere, ma l’ospedale psichiatrico e la caserma. Nascono così le prime forme di collegamento tra studenti e operai detenuti per reati di carattere politico e condannati per reati comuni, soprattutto clamorose rapine, che avevano avuto momenti di popolarità nella cronaca nera e giudiziaria di quegli anni.

 

Ha così inizio la stagione del carcere “politico”, alimentato dalle “avanguardie interne” dei detenuti comuni politicizzati e dai detenuti politici, per lo più appartenenti a Lotta continua. Una stagione che si intreccia con le vicende della riforma penitenziaria approvata nel 1975, che vedrà numerose integrazioni nei decenni successivi. Nel 1992, con la strage di Capaci, viene promulgato il “decreto antimafia Martelli-Scotti”. Nel 2002 la norma del “carcere duro” diventa definitiva e viene estesa anche ai condannati per terrorismo e altri reati gravi. Ma questa è cronaca.

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