Il pm Tartaglia, il procuratore aggiunto Teresi, il sostituto procuratore Del Bene, il pm Di Matteo al processo sulla Trattativa, Palermo 2016 (LaPresse) 

il foglio del weekend

Inchiesta delle mie brame

Riccardo Lo Verso

Quando le indagini e i processi diventano lo specchio del pubblico ministero, perché trovare i colpevoli non basta

Un’inchiesta è per sempre. Come in un matrimonio ci sono pubblici ministeri che legano un’intera carriera a una sola indagine e finiscono per identificarsi con essa. Sono spalleggiati dai media che pompano l’epopea degli uomini in toga e in lotta contro i potenti e i nemici oscuri.

Procura che vai, esempio che trovi. Da nord a sud. Se si parla di Fabio De Pasquale, pubblico ministero a Milano, è inevitabile pensare a Eni. Non è una frettolosa associazione di idee, ma il frutto di anni e anni di inchieste alimentate da sospetti che si sono sgretolati di fronte alla necessità, offuscata dai colpi dell’artiglieria mediatica, che diventassero prove. 

De Pasquale ha indagato sull’Eni senza soluzione di continuità, o quasi, dal 1993 al 2021. Dalla morte dell’allora presidente della compagnia petrolifera, Gabriele Cagliari, suicida in carcere, ai torbidi verbali dell’avvocato siciliano Piero Amara che De Pasquale avrebbe voluto introdurre nel processo sulla presunta maxi tangente pagata in Nigeria. Un processo che si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati. 

Accade anche questo in Italia, quando un’inchiesta sta per naufragare o un processo sta per chiudersi con l’assoluzione si materializza un collaboratore di giustizia o una gola profondissima, qualcuno che vuota il sacco con una tempistica che lascia perplessi. Non importa se sia un testimone attendibile o meno, stagionato o di primo pelo, conta solo che i suoi racconti peschino nel torbido, si innestino nei capitoli irrisolti della cronaca giudiziaria. I tempi della giustizia finiscono per dilatarsi all’infinito, travolgendo uomini e cose. 

 

Tra i primi a esprimere soddisfazione per la sentenza del processo sulla tangente Eni fu Matteo Renzi, che da premier scelse l’amministratore delegato Claudio Descalzi, uno degli assolti. “La verità è più forte del giustizialismo”, spiegò Renzi. Della serie: “Dire a nuora perché suocera intenda”. La “suocera” era Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze, che indaga da tempo sul “giglio magico” e sui presunti finanziamenti illeciti ricevuti dalla fondazione Open, “la cassaforte renziana”. Per ultimo, e Renzi ha voluto farlo sapere, il leader di Italia Viva è finito nel registro degli indagati per emissione di fatture per operazioni inesistenti in relazione al compenso ricevuto per una conferenza ad Abu Dhabi. Una vicenda che si aggiunge alle bancarotte contestate ai genitori dell’ex premier, che sono stati pure arrestati. 

Creazzo qualche mese fa ha chiesto di andare in pensione anticipata, dopo 44 anni di servizio. Gli ultimi mesi sono stati burrascosi per il magistrato finito al centro di un caso di molestie sessuali: avrebbe disturbato nell’ascensore di un albergo una collega della procura di Palermo, Alessia Sinatra, che in chat con l’ex potente Luca Palamara usava parole durissime nei confronti di Creazzo, che ha sempre negato l’accusa. Parole che anche alla donna sono costate un procedimento disciplinare. 

 

Da nord a sud di pm che si guardano allo specchio e si immedesimano nelle loro indagini è piena la cronaca. Una manciata di settimane fa Roberto Scarpinato, andato in pensione dall’incarico di procuratore generale della Corte d’appello di Palermo, è stato sentito dalla Commissione antimafia della regione siciliana. “Il depistaggio è ancora in corso”, ha detto Scarpinato riferendosi alle indagini sulla strage di via D’Amelio e alle parole di Maurizio Avola, killer catanese e pentito smemorato che ha raccontato una serie di verità a distanza di anni dall’inizio della sua collaborazione. Verità farlocche tanto da avere provocato la secca smentita della Procura di Caltanissetta. Scarpinato si sorprende del fatto che Avola dica oggi che la strage in cui morirono Paolo Borsellino e gli uomini della scorta fu solo opera di Cosa nostra. Niente accordo fra ’ndrangheta, mafia, massoneria, destra eversiva e servizi segreti deviati. “C’è da chiedersi: è un’operazione ingenua o qualcuno ha deciso di far suicidare processualmente Avola? Quello che colpisce è che questa storia non è finita”, ha detto Scarpinato.

Di sicuro non è finita la storia dei “sistemi criminali”, alimentata dagli ultimi sospetti dell’ex magistrato. Più che un’inchiesta è diventato un paradigma che ha giustificato una stagione di processi mai conclusa. Se ne parla da decenni. Furono gli stessi pubblici ministeri di Palermo, fra cui Scarpinato, nel 2001 a chiedere l’archiviazione. Non c’erano le prove che servivano per fare un processo, ma i sospetti seminati sul campo sono bastati per imbastire una narrazione che regge ancora oggi sui giornali. Certo la luce è meno splendente rispetto alle prime pagine della stagione che fu. 

Dei “sistemi criminali” è figlio il processo sulla Trattativa stato-mafia, ormai prossimo alla sentenza di appello. Il giurista, ed eretico agli occhi di una certa antimafia, Giovanni Fiandaca definì i sistemi criminali “una inquisitio generalis” senza “ipotesi specifiche di reato”. Sulla Trattativa fu ancora più tranciante: “Una boiata pazzesca”. 

Nonostante l’impossibilità di raggiungere la verità – forse sarebbe il caso di dire grazie al fatto di non poterci riuscire – sono state tracciate le linee guida di un modus operandi, lasciando aperti ampi spazi di manovra. Perché in Italia non basta trovare i colpevoli, bisogna andare oltre. E oltre ci sono le trame oscure, gli interessi occulti, le convergenze misteriose. In due parole i “sistemi criminali”, che stanno sempre lì a ricordare agli uomini di poca fede che esistono i farabutti di stato capaci di nascondere la verità per decenni. Mica si vorrà insinuare che la magistratura non sia stata in grado di trovarla questa benedetta verità. 

 

Per ultimo i “sistemi criminali” sono confluiti nel processo sulla Trattativa, dopo che si è tentato senza successo di portarli nel dibattimento in cui il generale Mario Mori, uno degli imputati condannati in primo grado per la Trattativa, è stato assolto dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano. Fosse dipeso da Scarpinato avrebbe riaperto l’istruttoria dibattimentale. Aveva proposto, ma fu stoppato dai giudici, un tuffo nel passato di Mori per arrivare alla P2 di Licio Gelli. Altro non era che un ritorno all’usato sicuro, un tentativo di rimanere nella comfort zone dei “sistemi criminali”. 

L’ideologo di quell’inchiesta era Scarpinato, accanto a lui c’erano Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo. L’identificazione fra pm e indagine nel caso di Di Matteo è talmente estrema che si può tranquillamente dire che il processo sulla Trattativa è il “suo” processo. Il magistrato, oggi al Csm, lo ha sempre rivendicato. Nel 2017 chiese il trasferimento alla Procura nazionale antimafia perché a Palermo, così disse, era “costretto” a occuparsi di reati comuni come furti e piccole truffe. Robetta di serie B che lo distraeva dell’impegno totalizzante della Trattativa. Nel frattempo il magistrato più scortato d’Italia per la minaccia di attentato parlava in tv della stagione politico-giudiziaria a cavallo delle stragi. La cosa non piacque al procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho che lo espulse dal pool di pm che indagavano sugli eccidi del ’92. Non aveva gradito una delle tante interviste, allora giudicata di troppo, rilasciata alla trasmissione “Atlantide” sui mandanti occulti. Cafiero de Raho ci avrebbe ripensato, ormai era tardi. Di Matteo era già andato al Consiglio superiore della magistratura, dopo essere stato a lungo corteggiato dal Movimento 5 Stelle per un posto di governo. 

 

Al governo aveva creduto di poterci arrivare, dalla porta principale e a furor di popolo, Antonio Ingroia con la sua Rivoluzione civile. Pensava di avere sedotto l’opinione pubblica con la sua presenza fissa nei programmi di Michele Santoro, accanto a Marco Travaglio.

La televisione era stata la palestra del magistrato in vista del grande salto in politica. In una delle sue ultime apparizioni Ingroia parlava da molto lontano. Un’immagine esotica, rarefatta, con le palme sullo sfondo. Era collegato dal Guatemala, dove rimase poco più di una manciata di mesi nientepopodimeno che su incarico dell’Onu. Lo stato dell’America centrale era per Ingroia come la città sumera di Uruk nell’epopea di Gilgamesh. 

Tanto rumore per nulla. Raccolse percentuali da zero virgola nonostante la lunga stagione vissuta in simbiosi con Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo, a cui Ingroia assegnò i gradi di “icona dell’antimafia”, arruolandolo nell’esercito con cui si spinse fino a “sfidare” il capo dello stato, Giorgio Napolitano, in un conflitto istituzionale senza precedenti. Al centro dello scontro le telefonate del presidente della Repubblica, come se qualcuno impedendone l’acquisizione al processo volesse proteggere chissà quali segreti di stato. Tutto quel chiasso per conversazioni che gli stessi pm di Palermo, Ingroia per primo, avevano definito irrilevanti.

E’ andata come è andata, con Ciancimino jr condannato e indagato per una serie di calunnie frutto di racconti e verbali che andavano molto oltre i confini della realtà. Come quando disse che il signor Franco, il fantomatico spione dei servizi segreti che popolava i verbali a oltranza del figlio dell’ex sindaco, era il segretario generale della presidenza della Repubblica.

Del pool dei pm del processo Trattativa faceva parte anche Vittorio Teresi, oggi in pensione. Ne prese in mano il coordinamento dopo l’uscita di Ingroia dalla magistratura e dalla scena mediatica. 

 

Ed ecco un altro innamoramento giudiziario, quello di Teresi per Calogero Mannino, l’ex ministro che ha vissuto una grossa fetta della sua vita a difendersi dall’accusa di essere prima concorrente esterno della mafia e poi l’iniziatore della Trattativa. E’ stato sempre assolto. Per un paio di decenni in qualsiasi aula si trovasse e ogni qualvolta Mannino volgesse lo sguardo verso il banco dove trova posto la pubblica accusa incrociava sempre il volto di Vittorio Teresi. Gli eventi hanno finito per instillare nell’imputato Mannino il dubbio, legittimo, che si dovesse difendere dal magistrato prima ancora che dalle ipotesi di reato. 
C’era Teresi nel 1994 quando la Procura, allora guidata da Giancarlo Caselli, chiese e ottenne l’arresto di Mannino. Sempre Teresi era il pm del processo di primo grado al termine del quale il politico democristiano fu assolto dall’accusa di concorso esterno. Mannino se lo ritrovò di fronte anche in appello, visto che Teresi si era fatto trasferire alla Procura generale. Arrivò la condanna, alla fine azzerata per sempre dalla Cassazione dopo 23 mesi di carcerazione preventiva. 
E fu ancora lui, Vittorio Teresi, divenuto procuratore aggiunto al posto di Ingroia, a chiedere la condanna di Mannino, che invece fu assolto dall’accusa di avere dato il via alla Trattativa fra i carabinieri e i mafiosi, temendo di essere ucciso. Un’assoluzione che fa venire meno l’incipit della ricostruzione della procura. Un altro tassello era saltato con l’assoluzione di Mario Mori dall’accusa di avere fatto scappare Bernardo Provenzano nel corso di un blitz. 

Un episodio collocato da Di Matteo e Teresi nel contesto del patto sporco: lo stato dava una mano a Provenzano che in cambio tradiva Totò Riina. A Teresi il verdetto era andato indigesto e si lasciò andare ad una stilettata contro il magistrato che scrisse la motivazione della sentenza. A suo dire meritava “un 4 meno”. Da quella frettolosa pagella scaturì un procedimento disciplinare chiuso dal Csm, il Consiglio superiore della magistratura, “per scarsa rilevanza del fatto”. Teresi si disse “pentito” per quella battuta estemporanea, pronunciata senza alcun dolo e consegnata ai cronisti. 

Già, i giornalisti, troppo spesso partigiani dei pm, partecipi della costruzione del mito dell’infallibilità della magistratura. Senza la cassa di risonanza mediatica le indagini sarebbero rimaste confinate negli angusti palazzi di giustizia. 

 

Le epopee necessitano di visibilità, si alimentano con il consenso del popolo. Popolari d’altra parte sono giudici che siedono accanto ai togati nelle Corti di assise. Si nutrono, come tutti i comuni mortali, di televisione. Guardano i talk show che si contendono la presenza dei magistrati, nuove star della tv. In alternativa si può sempre leggere uno dei tanti libri della ormai ricchissima letteratura di genere. Vedere alla voce: misteri d’Italia. Un’inchiesta è per sempre, se non si trovano i colpevoli si può sempre aggiungere un nuovo capitolo perché ciò che non va bene per i processi fa tendenza sui libri. 

Di più su questi argomenti: