Idee per un processo alla giustizia malata

Annalisa Chirico

Non ci sono solo i casi Palamara, Amara, Davigo. L’uso abnorme della custodia cautelare in carcere, l’obbligatorietà dell’azione penale, la lentezza intollerabile riguardano anche vicende meno rumorose sui media. Storie e opinioni

In un ipotetico “processo alla giustizia” non è chiaro chi vestirebbe i panni dell’accusa e chi della difesa, è azzardato avanzare ipotesi nel paese dove anche i più fieri epigoni del giustizialismo si trasformano in strenui difensori delle garanzie quando si ritrovano a fare i conti, personalmente, con i guasti di una giustizia malata. Che qualcosa – anzi molto, forse tutto – non funzioni negli ingranaggi della macchina, lo confermano gli episodi degli ultimi mesi. Accanto ai casi Palamara, Amara, Davigo, mediaticamente più rumorosi, ci sono le cronache di provincia, le storie dei Signor Nessuno, senza santi in paradiso, che rompono il velo dell’ipocrisia su alcuni tabù della giustizia italiana: l’uso abnorme della custodia cautelare in carcere, l’obbligatorietà dell’azione penale, la lentezza intollerabile, la politicizzazione togata.

 

 

Franco Bernardini ha ricevuto 13.750 euro a titolo di riparazione per ingiusta detenzione. Oggi quest’uomo non è più un poliziotto: ha chiesto il pensionamento anticipato e si è separato dalla moglie. Nel 1997 Bernardini ha 38 anni ed è sovrintendente di polizia al commissariato Appio nella capitale. Il primo marzo riceve un’ordinanza di custodia cautelare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Quel giorno è in corso un’operazione volta a smantellare una presunta banda specializzata nel favorire l’ingresso di clandestini in Italia, nonché responsabile di diversi reati come corruzione, concussione, peculato, falso, uso di sigilli contraffatti. Gli agenti della questura effettuano decine di arresti e tra questi compaiono alcuni poliziotti. Uno di loro è Bernardini. Lui si professa innocente, trascorre più di un mese dietro le sbarre e trentacinque giorni agli arresti domiciliari. Secondo la pubblica accusa, lo incastrerebbero le dichiarazioni di un co-indagato che ha deciso di collaborare con gli inquirenti. Nel processo di primo grado Riccardo Radi, avvocato del poliziotto, costringe il tribunale a riascoltare l’accusatore. “In sede di controinterrogatorio – racconta il penalista al quotidiano La Verità – sono riuscito a far emergere le mille imprecisioni nelle sue dichiarazioni e il fatto che avesse del malanimo nei confronti di Bernardini per la gelosia relativa a una donna. Non vi era nessun riscontro oggettivo in relazione a dazioni di denaro ricevute dallo stesso Bernardini”. Trascorrono sette anni dall’arresto prima che il 5 febbraio 2004 la quarta sezione penale del tribunale di Roma assolva il poliziotto con formula piena, perché il fatto non sussiste. Soltanto il 12 giugno 2008 arriva la decisione della Corte d’appello di Roma in merito alla domanda di indennizzo per i giorni trascorsi in carcere da innocente. 

 

A Edmondo Bruti Liberati, ex procuratore della Repubblica di Milano e storica toga di Md, chiediamo perché l’abuso della custodia cautelare in carcere sia ancora così diffuso nel nostro paese. “La Costituzione e la legge sono nette – replica il magistrato – si deve ricorrere a questo istituto soltanto ove sia strettamente necessario. Per la criminalità organizzata vi è il pericolo di fuga o di reiterazione dei reati e l’intimidazione dei testimoni. Per i reati dei cosiddetti ‘colletti bianchi’ viene in gioco soprattutto l’inquinamento delle prove. Opinione pubblica e settori della politica sono ondivaghi sulle emozioni dei fatti del momento, quando non strabici: in galera, in galera!, ma non quando si tratta dei miei amici. Il rimedio principe è ridurre i tempi del processo. Oggi, anche sotto la spinta di quanto ci è richiesto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, vi sono tutte le condizioni per compiere dei passi avanti e la presenza a Via Arenula della ministra Marta Cartabia è una garanzia”. Lei, dottore, è stato fortemente critico nei confronti dell’ex premier Silvio Berlusconi: adesso, a otto anni di distanza dalla sentenza della Cassazione che rese definitiva la condanna per frode fiscale e costò al Cav. la decadenza dalla carica di senatore, la Corte europea dei diritti umani rivolge dieci domande al governo italiano per verificare l’equità del processo per i diritti tv Mediaset. E’ tardi? “La lentezza della giustizia è un problema anche a Strasburgo – risponde Bruti Liberati – Va chiarito però che dopo quasi otto anni la Corte ha soltanto accertato la regolarità formale del ricorso. Prima ancora di esaminare la ‘ricevibilità’, la Corte ha posto delle domande, ‘questions’, al governo italiano, alle cui risposte seguirà la replica delle difese e quindi la decisione su ricevibilità e merito. Domande, dunque, non critiche: non è una pignoleria. Non ci si può nascondere che forse abbiano giocato, in questa tardiva ripresa di attenzione, le sconcertanti vicende emerse a contorno della decisione della Cassazione. Ma dal tenore delle domande è chiaro che l’oggetto degli approfondimenti non sono queste vicende, ma il rispetto delle norme procedurali”. Il Csm, dopo i casi Palamara, Amara, Davigo, ha subìto un calo verticale di credibilità. Come se ne esce? “E’ un momento di crisi e sconcerto. Le dimissioni di sei componenti del Csm, indipendentemente da incriminazioni penali o disciplinari, sono un primo segno di consapevolezza. Il rimedio non passa per le tecnicalità dei sistemi elettorali ma richiede da parte dei magistrati una riforma di cultura: essere capaci di rifuggire da pratiche deteriori e ritrovare l’orgoglio del confronto tra le diverse posizioni ideali nel Csm, valorizzando tutte le potenzialità del modello voluto dalla Costituzione”. 

 

 

Esiste un totem per la corporazione togata: l’obbligatorietà dell’azione penale. A parlarne al Foglio, in maniera alquanto sorprendente, è Nello Rossi, già procuratore aggiunto di Roma e direttore di Questione giustizia, la storica rivista di Magistratura democratica. Per prima cosa, gli chiediamo la sua opinione sullo scandalo più recente che ha investito il Csm, tra dossier secretati e presunti corvi. Una parolina su Piercamillo Davigo? “Nulla da dire, ho scritto di lui soltanto in un’occasione, quando ho esposto le ragioni giuridiche per le quali, una volta andato in pensione, non poteva continuare a far parte del Csm. Le questioni odierne saranno dipanate da altri”. Dalla vicenda Amara emerge anche uno spaccato del rapporto incestuoso tra certe redazioni giornalistiche e certi ambienti giudiziari. “Ho contribuito, con Zagrebelsky e altri colleghi, a redigere il Codice etico della magistratura che ribadisce non soltanto l’obbligo di rispettare il segreto ma anche il divieto di costituire canali privilegiati con la stampa. Quando la diffusione di una notizia è doverosa, ciò deve avvenire secondo modalità che garantiscano la parità di accesso a tutti i giornalisti”. Di fronte alla crisi del Csm, il presidente Sergio Mattarella ha chiesto di “voltare pagina”. “Sarebbe sbagliato demonizzare il Csm in quanto tale, ai miei occhi il bilancio storico del governo autonomo della magistratura è straordinariamente positivo. E tuttavia è innegabile la necessità di una riforma purché ciò non si traduca nella moltiplicazione di criteri e parametri, com’è accaduto in seguito all’intervento dell’ex ministro Bonafede. La discrezionalità del Csm nell’assegnazione di incarichi direttivi e semidirettivi non può essere azzerata. L’esperienza insegna che quanto più aumenti il numero di criteri e parametri tanto più si espande il perimetro di intervento del giudice amministrativo”. Per il Consiglio di stato la nomina di Michele Prestipino a procuratore capo di Roma è illegittima, si ricomincia daccapo. “La capitale è un centro nevralgico dove promuovere ricorsi e controricorsi è attività particolarmente in voga. Io nella mia vita ho ricoperto due soli incarichi: procuratore aggiunto e avvocato generale in Cassazione. Entrambe le volte mi sono dovuto difendere in giudizio, ho sempre vinto. Continuo a credere nella discrezionalità del Csm fortemente motivata, a meno che non si intenda trasferire la competenza delle nomine al Csm”. Il ministro della Giustizia Cartabia ha annunciato una riforma della giustizia civile, penale e ordinamentale. Vaste programme. “Il prossimo numero di Questione giustizia sarà interamente dedicato alla riforma organica del settore, proveremo così a offrire qualche spunto di riflessione. Un tema ineludibile è rappresentato certamente dall’obbligatorietà dell’azione penale: quando gli avvocati ricordano che numerose notizie di reato si prescrivono nel corso delle indagini preliminari hanno ragione”. L’azione penale obbligatoria è un simulacro per l’indipendenza togata. “Nel nostro sistema vale la regola per cui l’azione penale è obbligatoria in quanto l’ordinamento vuole che essa sia esercitata in modo indipendente e imparziale, e il pm deve essere indipendente e imparziale in quanto l’azione penale è obbligatoria. La realtà però va in un’altra direzione. Il ruolo del pm cresce ovunque, e ovunque cresce la sua discrezionalità. E’ venuto il momento di abbracciare una concezione realistica e temperata dell’obbligatorietà dell’azione penale”. La accuseranno di voler azzoppare un totem della magistratura associata. “La mia è una proposta di buon senso per rendere trasparente ciò che non è. Si potrebbe valorizzare, per esempio, il ricorso all’istituto dell’archiviazione per tenuità del fatto per reati che si collocano entro limiti di pena legislativamente prefissati. Tale strumento dovrebbe essere un criterio preventivo di filtro, sottoposto al controllo giurisdizionale”. Oggi è limitato ai reati sotto i cinque anni. “In realtà, dovrebbe essere sempre consentito al pm di valutare l’opportunità di non procedere, anche in presenza di un reato grave come una bancarotta fraudolenta qualora il caso di specie, a giudizio del pm, presenti le caratteristiche proprie della tenuità”. Rimane un quesito: i criteri di priorità dell’azione penale devono essere fissati dalle procure e dal Csm, come stabilisce il ddl Bonafede, o da istituzioni diverse? “Il compito di tracciare le linee generali della politica criminale non può che essere assolto dai poteri dotati di una investitura democratica diretta o indiretta, come parlamenti e governi. Se infatti è indispensabile assicurare ai magistrati del pubblico ministero forti garanzie di status che li mettano in condizione di resistere a indebite interferenze e preservare la fase delle indagini da favoritismi e inquinamenti, è difficile concepire che, in un ordinamento democratico, siano i singoli uffici di Procura o organismi con compiti di amministrazione della giurisdizione a dettare le priorità dell’intervento penale”. In passato lei è stato tra i pochissimi magistrati a pronunciarsi a favore della inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm, e non è andata bene. “Mi pare che adesso anche il ministro Cartabia intenda proporre delle limitazioni alla facoltà di impugnazione del pm. In Italia bisogna solo aspettare”. 

 

Il contenzioso per la divisione della proprietà di un palazzo a destinazione abitativa, al confine tra i comuni di Rieti e di Cittaducale, ha impiegato trentatré anni per approdare a una soluzione definitiva. La prima causa era partita trentatré anni fa, la sentenza finale è di pochi giorni or sono. Così i due protagonisti, un costruttore e sua cugina, hanno cominciato la battaglia legale da giovani, poco più che trentenni, adesso sono due ultrasessantenni in pensione. Assodato che questi sono i tempi della giustizia italiana, la domanda che s’impone è se siano i tempi di un paese civile. Al Foglio Carlo Gagliardi, managing partner di Deloitte Legal, spiega che “in un sistema processuale fondato sul principio costituzionalmente garantito della ragionevole durata del processo e su termini a carico delle parti da rispettare a pena di preclusione, è importante che il sistema giudiziario dimostri coerenza. Gli ultimi studi della European Commission for the Efficiency of Justice (rapporto  Cepej, 2020), aggiornati al 2018, dimostrano un miglioramento ancora non sufficiente dei tempi della giustizia nazionale, soprattutto per quanto riguarda i gradi di giudizio successivi al primo. Con riferimento ai conteziosi in materia civile e commerciale è stata infatti rilevata una durata media complessiva dei procedimenti di circa sette anni: 527 giorni per il primo grado (contro i 362 della Spagna e i 220 della Germania), mentre quasi la metà dei procedimenti in appello dura più di due anni e i procedimenti innanzi alla Cassazione richiedono in media 1.266 giorni. Oggi l’efficienza si traduce in competitività. La lentezza della tutela legale è anacronistica e rischia di apparire quale assenza assoluta di tutele, in grado di ridurre la capacità attrattiva di un paese. Un profondo cambio di marcia della Giustizia rappresenta un elemento essenziale per la ripresa”. 

 

 

La storia giudiziaria della famiglia Ligresti si può riassumere in diversi mesi di carcere e zero condanne. Un patrimonio espropriato, reputazione a brandelli e adesso, dopo otto anni di inchieste e dibattimenti, tutti assolti. Nel luglio 2013 la magistratura di Torino dà inizio a una vicenda che si rivelerà un calvario: “Papà finisce ai domiciliari, io e Giulia in cella, mio fratello evita le manette solo perché cittadino svizzero”, racconta al Giornale Jonella Ligresti, ex presidente di Fonsai, che nell’ottobre 2016 viene condannata a cinque anni e otto mesi per falso in bilancio e aggiotaggio. Nel marzo 2019 la condanna viene annullata dalla Corte d’appello di Torino che accoglie le istanze della difesa sulla competenza territoriale e trasmette le carte a Milano. Lo scorso 12 maggio il gip di Milano, accogliendo la richiesta della procura, la proscioglie da tutte le accuse ritenute infondate. “Non avevo fatto niente, non capivo perché ero finita dentro, ma dopo i primi giorni di disorientamento mi sono fatta coraggio: l’importante in prigione è darsi un ritmo, anche se sei in condizioni drammatiche. Scrivevo le lettere per le rom che mandavano notizie ai loro cari, e nel caldo insopportabile dell’estate, seduta o sdraiata sul letto per ventidue ore al giorno, avevo allestito il mio frigo personale nel bidet”, racconta la signora Ligresti che alle Vallette di Torino, nel 2013, trascorre due mesi in una cella, due metri per quattro, con un letto a castello e nemmeno una sedia per mangiare, in compagnia di una donna anziana e semicieca accusata di concorso in omicidio. Le toccherà anche l’esperienza di San Vittore. “Ci hanno tolto tutto, adesso ho aperto un ristorante in Sardegna e ho ripreso ad andare a cavallo. Ma non posso dimenticare che mio padre è morto in solitudine, mentre il gruppo veniva spogliato dei suoi beni, con addosso una condanna pesantissima che è stata cancellata solo ora che non c’è più. Negli ultimi tempi papà aveva lo sguardo disperato di chi vede distruggere tutto quello che ha costruito. Ma papà è ancora con me, la sua firma è tatuata sul mio polso”. 

 

 Secondo il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, ex consigliere del Csm e forzista di lungo corso, “non sarà facile per il governo italiano rispondere ai dieci quesiti che gli sono stati rivolti dalla Corte europea dei diritti umani. Più passa il tempo più la sentenza di condanna di Berlusconi appare viziata sotto molteplici, gravissimi profili. Qualunque sia l’esito del giudizio, esso arriverà comunque troppo tardi. Anche se una eventuale ulteriore riabilitazione non potrà che essere accolta con favore da Berlusconi, come prova della persecuzione giudiziaria subìta”. Che cosa accadrà in seno al Csm? Nei giorni scorsi il presidente David Ermini ha parlato, forse in ritardo, di “modestia etica del correntismo”. “La riforma del Csm è tanto attesa soltanto a parole, nei fatti stenta ad arrivare. All’indomani del cosiddetto ‘scandalo’ Palamara, è stata invocata da più parti una riforma urgente. Sono passati due anni senza che sia accaduto niente. Tra poco più di un anno si dovranno celebrare le elezioni per la componente togata e, se continua così, non è escluso che abbia luogo con le stesse regole di oggi. Sarebbe la prova di un totale fallimento della politica”.