Sostiene Buzzi

Intervista dagli arresti domiciliari. Il protagonista di Mafia Capitale racconta se stesso, Carminati, il Pd, i fasci e quel “suk arabo” del Campidoglio. “Io? Sono come Palamara”

Salvatore Merlo e Nicola Imberti

A un certo punto gli si chiede se, tra le cose che non rifarebbe, di cui si è pentito, se tra i tanti rimorsi non c’è anche quella frase captata dai carabinieri. Quel famosissimo “la mucca, se nun magna, nun po’ essere munta”, riferito alle tangenti. E allora quest’uomo di sessantaquattro anni dall’aria semplice e allegra, polo blu e pantaloni arancioni sulle Adidas bianche, sfodera un sorriso complicato, che esprime molte sensazioni. “Guardi che io la rivendico quella frase”. Pausa intensamente declamatoria. “La ri-ven-di-co”, ripete. “Per me era un manifesto programmatico. Lei forse non ha idea di cosa sia il Comune di Roma. Entravo in Campidoglio e tutti mi chiedevano favori. Quel posto era un suk arabo. E a quanto pare lo è ancora”. Ieri sono stati arrestati tre funzionari dell’ufficio condono: chiedevano soldi per accelerare le pratiche. “Ma certo. I peggio sono i funzionari, mica i politici. A me saltavano addosso, letteralmente. Mi chiedevano di tutto e di più. C’era persino chi mi chiedeva di assumere la propria amante. Quante ne ho assunte, di amanti… E allora di fronte a questo assalto continuo, quotidiano, famelico, rispondevo così, in romanesco: gli dicevo che la ‘mucca’, cioè la mia cooperativa, non poteva essere ‘munta’ se non mangiava. Se non la facevano lavorare”. Ed ecco il romanesimo, che è definizione ben più calzante ed esatta di romanesco, perché è qualcosa d’incarnato, definito, e probabilmente incurabile. “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto per la cooperativa”, sospira. E poi: “Guardi che non mi sono arricchito. Avevo un reddito di 140.000 euro l’anno. Pagavo sedici mensilità ai soci dipendenti, e guadagnavo solo quattro volte di più dell’ultimo assunto. Ora non c’ho più una lira”. Case al mare? “Aho, abito in borgata”. Che macchina guidava? “una Audi Q5, ma soprattutto una moto Yamaha TMax”. E la cooperativa che fine ha fatto? “E’ fallita con l’amministrazione giudiziaria. Era una delle più grandi cooperative sociali d’Italia. Fatturava milioni. E’ una storia che racconto tutta nel libro che ho appena pubblicato con Stefano Liburdi e che si intitola ‘Se questa è mafia’”. Quattrocentocinquanta pagine, un memoriale. Forse anche uno sfogo terapeutico.

   

  

“Sono stato iscritto a Pci a partire dal 1976. Quello è il mio mondo.
Quello del Pd è il mio mondo. Sono sempre stato dalemiano”

 

Oltre il Grande raccordo anulare, a venti chilometri dal centro di Roma, incastrata tra la Prenestina e la Collatina, ecco la borgata di Castelverde: cinquemila abitanti, un unico stradone tra palazzine basse e meschine. Ed è in questa periferia romana anzitempo strappata alla vita agra del feudo pontificio che vive il protagonista della cosiddetta Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’amico di Massimo Carminati, il fondatore della cooperativa 29 giugno. Ogni tanto non pensa di avere dissipato un’idea nobile, quella della seconda occasione? La 29 giugno era composta da ex detenuti, recuperati e reinseriti nel mondo del lavoro. “Ci penso tutti i giorni”. Condannato a diciannove anni di carcere, dopo cinque anni in regime di massima sicurezza, Buzzi è da pochi mesi agli arresti domiciliari in attesa che la Corte d’appello riformuli la condanna “perché è caduta definitivamente l’accusa di mafia. Chi dice che sono mafioso lo querelo. Sono tante cose. Ma non sono mafioso”. E allora è qui che se ne sta, Salvatore Buzzi. Confinato tra il piccolo divano a dondolo e l’orto di casa, una villetta su due piani. L’erba non tagliata, l’intonaco scrostato, il cemento del balcone un po’ corroso dal tempo. In bagno è saltata la levetta dello scarico del wc. Non è precisamente una casa di lusso. Ogni tanto suona il citofono. “Saranno i carabinieri. Controllano se sono evaso. Vado ad aprire”. Erano i carabinieri? “No era Amazon”. 

 

Così, ad alludere alla Sicilia di Mario Puzo e del Padrino, alla tensione emotiva e al pericolo criminale, alla letteratura e alla mafiologia, ci sono solo il caldo, le sterpaglie e il manto stradale sconnesso che a Roma non è più nemmeno la cifra della sola periferia. “Sa che diceva John Ford?”. No cosa diceva? “Diceva che quando la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda. Ed è questa la storia di Mafia Capitale. Romanzi, fiction televisive, film…”.

Tutti i carcerati dicono di essere innocenti. “Ma io invece dico che sono colpevole. Solo che non sono mafioso. E questo adesso lo ha stabilito anche la Cassazione. Però i mafiosi veri li ho conosciuti”. Dove? “In carcere, a Tolmezzo. Avevo quattro siciliani in cella”. E che le dicevano? “Niente. Quelli non parlano mai”. Era rinchiuso in massima sicurezza. “Ci si sta benissimo in alta sicurezza. C’è solo criminalità, come dire… Di un certo livello. E poi a Tolmezzo si mangia anche molto bene. Ero persino ingrassato”. Si mangia bene in carcere? “In cucina c’era Roberto Spada, quello del clan di Ostia. Quello che diede la testata al giornalista Daniele Piervincenzi. Gran cuoco. Era l’unico romano assieme a me. Abbiamo fatto amicizia”. Non le fa paura il carcere? Potrebbe anche tornarci. “Non mi fa paura. Se dovessi tornarci, mi rialzerò”. Come si immagina tra qualche anno? “Lontano mille miglia e per sempre dall’amministrazione pubblica”. E a sua figlia, che ha dieci anni, cosa dice? “Che papà non è un ladro. Pagava perché doveva lavora’”.

  

  

 

“Facevo pure i tesseramenti. Mandavo i disperati dei centri d’accoglienza
a prendere la tessera del partito: 20 euro e una pizza” 

  

Figlio di una maestra elementare e di un invalido di guerra – “mio padre partì militare nel ‘39 e tornò a casa dieci anni dopo” – cresciuto al quartiere Portuense, liceo scientifico a Monteverde (“erano gli anni della contestazione, mi iscrissi alla Fgci, sezione di Via Tarquinio Vipera”) Buzzi racconta una vita tutta a sinistra. Pci-Pds-Ds-Pd. “Da ragazzino frequentavo molti di quelli che sarebbero diventati i dirigenti della sinistra romana, Mario Di Carlo, che fu direttore nazionale di Legambiente e adesso è morto, e Loredana De Petris. Diventammo anche amici, negli anni Settanta e Ottanta. Gente di grande valore. Adesso mi vergogno persino a parlare della De Petris”. De Petris, esponente dei Verdi, poi di Sel, ex assessore a Roma, oggi senatrice di Sinistra italiana, aiutò la nascita della sua cooperativa sociale, la 29 giugno, che reinseriva i detenuti. La sente mai? “Mai. Non vorrei metterla in imbarazzo”. Walter Veltroni lo conosceva? “La cooperativa crebbe molto con Veltroni sindaco”. Goffredo Bettini? “Sì”. Giovanna Melandri? “Certo… Ma di nessuno di queste persone sono mai stato amico. Capiamoci, io sono stato iscritto al Pci a partire dal 1976. Quello è il mio mondo. Il loro è il mio mondo. Sono sempre stato dalemiano. Per me D’Alema era un mito. Non l’ho mai conosciuto veramente, era inarrivabile. Però l’ho incontrato qualche volta. Poi sono stato della corrente di Bersani, per logica conseguenza. E tenga conto che Roma è stato uno dei pochissimi posti dove la sinistra vinse contro Renzi alle famose primarie della rottamazione. Mi ricordo che andavo ad acchiappare i disperati dei nostri centri di accoglienza per tesserarli al Partito democratico. Gli davo 20 euro per la tessera e i soldi per comprarsi una pizza. Poi loro andavano a votare alle primarie”. E qui Buzzi ride. “Queste sono le primarie del Pd”. I famosi immigrati in fila. “Alle primarie del 2013, per il segretario cittadino di Roma, noi portammo centoquaranta voti a Tommaso Giuntella. Però ne portammo anche ottanta al suo sfidante, Lionello Cosentino, che vinse”. Li sostenevate entrambi. “Non si sa mai”. E i suoi contatti con la destra da dove arrivano allora? “A me è sempre un po’ venuto da ridere quando leggevo l’accostamento della 29 giugno con la destra”. Però è con l’amministrazione della destra che si realizzano i fatti corruttivi che l’hanno portata in carcere. Prima nessuno le chiedeva soldi? “No”. Sembra strano. “Ma è così. Il primo che ci venne a chiedere soldi fu Franco Panzironi, l’amministratore delegato di Ama durante l’amministrazione Alemanno. Mi chiedeva centomila euro per sbloccare un pagamento di 5 milioni che Ama doveva fare alla mia cooperativa. Che fai, non glieli dai?”. E’ la famosa metafora della mucca. “Esatto. La mucca la puoi mungere se la fai mangiare. Guardi che lo facevano tutti. E lo fanno ancora. E per cifre molto più alte di quelle che trattavo io che mi occupavo solo di piccoli appalti. Mica di urbanistica o di piani regolatori. La vicenda dello stadio della Roma, la storia del costruttore Parnasi e dell’avvocato Lanzalone, accaduta da poco, con sindaco Virginia Raggi, secondo lei cos’è, se non questo?”.

 

Nelle intercettazioni Buzzi è sempre sembrato felice di trattare la politica e il Comune, i manager delle partecipate e i dirigenti della pubblica amministrazione, come materia infima, come i monatti che facevano affari con gli appestati. E ancora oggi Buzzi dice che “così fan tutti”, ma forse è un modo di autoassolversi. “No, guardi, la mia è una pura constatazione oggettiva. Il Campidoglio, gliel’ho già detto, è un suk. E i peggiori non sono i politici, che il più delle volte non capiscono un cazzo e non sanno un cazzo. I peggiori sono i funzionari. I dirigenti. E infatti sono quelli che ho corrotto pure io. Io ho pagato solo un politico, e ben due funzionari. Due. Le racconto un fatto esemplificativo”. Prego. “Questa storia me la raccontò Riccardo Mancini, l’ex amministratore delegato di Eur Spa. Ebbene, quando Mancini fu arrestato, un importantissimo costruttore romano, di cui non faccio il nome sennò torno subito in galera, voleva aiutarlo pensando che avesse problemi economici. Non conoscendo la moglie di Mancini, questo imprenditore si rivolge a un funzionario del Campidoglio che era in rapporti con Mancini. E gli consegna quindicimila euro. Quei soldi Mancini non li ha mai visti. Mai. Ecco come funziona il Campidoglio. Ed ecco anche un altro principio immanente: i collettori dei soldi, spesso se li tengono”.

  

 

“A Tolmezzo ho conosciuto i mafiosi veri. Ero in cella con quattro siciliani”. Che le dicevano? “Niente. Quelli non parlano mai” 

  

Con Mancini eravate amici? “Certo. Lo conobbi in carcere che avevo meno di trent’anni. Lui era dentro per reati politici. Era un militante di destra”. E qui Buzzi si ferma per un attimo. Non gli piace parlare della sua prima carcerazione, quella per omicidio, quando aveva appena venticinque anni. “Per me quelli sono ricordi molto dolorosi. Ma fu in quegli anni che conobbi Mancini e anche Alemanno. A Rebibbia. Avevo sfidato il direttore del carcere, che si chiamava Restivo ed era parente del ministro democristiano Franco Restivo. Io ero una specie di sindacalista dei detenuti. Restivo, per punirmi, voleva farmi trasferire in un altro carcere. Allora io per non farmi trasferire, mi iscrissi all’università e cominciai a dare esami come un matto. Infatti se dai gli esami non possono portarti via. Quindi io fissavo un esame ogni venti giorni. Alla fine mi laureai in soli due anni. In filosofia. Tesi su Vilfredo Pareto. Così alla fine Restivo, non potendomi trasferire, mi mise nel braccio assieme ai detenuti politici dell’estrema destra. A me, che ero comunista. C’erano quelli di Terza posizione. C’erano i Nar. E fu lì che conobbi anche Alemanno. Era un ragazzino. Non aveva fatto niente di grave. Stette appena sei mesi di cui solo un mese con i veri duri. Lui era un missino, e quelli lo guardavano male”. Poi vi rivedeste in Campidoglio più di trent’anni dopo. “Ero contento che il mio ex compagno di prigione fosse diventato ministro e poi sindaco di Roma. Ma in Campidoglio mica rividi solo Alemanno. In Campidoglio ritrovai anche Mancini e Carlo Pucci che erano a Rebibbia con noi”. Collaboratori strettissimi dell’ex sindaco. “Queste persone a me non hanno mai chiesto una lira. E non posso dire nulla di male su di loro. Nulla”. E’ una strana classe dirigente quella che si forma in prigione, tuttavia. “Non so se sia esattamente così. Ed erano anni strani. Tutto va contestualizzato. Le posso dire, però, per esperienza personale, che quando si sta in galera insieme si crea un fortissimo vincolo di solidarietà”.

 

 

“Io quell’intercettazione sulla mucca che per essere munta deve mangiare
la rivendico. E’ un manifesto programmatico” 

 

Cos’è Mafia Capitale per lei? “Un’inchiesta che ha colpito solo alcuni, la sinistra bersaniana e la destra di Alemanno. Un’inchiesta che si è gonfiata nel cortocircuito mediatico. La corruzione c’era. I rapporti opachi pure. Ma poca roba. Una storia piccola. Miserabile. E invece è nel cerchio di fuoco della parola ‘mafia’ che è saltata la politica di questa città. E’ intorno alla parola mafia che si sono composti libri e titoloni persino del New York Times. Ed è dal cilindro del 416 bis che il 22 giugno del 2016 è saltato fuori il trionfo elettorale di Virginia Raggi e del Movimento cinque stelle, tra rabbia e sberleffi, pernacchie e ghigliottine, vaffanculi e supplì”. Tutto un impasto imprendibile, un intreccio esasperato in cui si è consumato il processo pubblico, di piazza, al degrado e alla decadenza di Roma, alla monnezza e alla clientela pluriennale, all’incuria amministrativa e al grottesco dominante nella vita pubblica capitolina. Di cui Buzzi tuttavia faceva parte. “Questa è una storia romana. Non commendevole. Ma piccola. E che si iscrive tutta nella romanità, in un certo modo di condurre le cose, di esprimersi. Questa è una città di personaggi spacconi e vanagloriosi che straparlano al telefono, che inventano battute con ritmo opprimente”. E anche Buzzi appartiene a questa antropologia. E’ rimasta agli annali l’intercettazione in cui dice che gli immigrati rendono più della droga. “Guardi che quell’intercettazione è un falso. Intanto non è una telefonata, ma l’estrapolazione di una intercettazione ambientale tra me e la mia principale collaboratrice. Eravamo in macchina, ero arrabbiato, litigavamo, e sparai questa frase ad effetto per farla stare zitta. Ma la sa una cosa? Non mi è stato contestato un solo reato legato all’immigrazione. Parlo male? Sì. E’ reato? No”. E così la mafia diventa una formula a cavallo tra esercitazione di stile e tragedia sociale. Quella che è emersa dall’inchiesta è invece, forse, la solita Roma piccola piccola di Cerami, la città dei soprannomi che suonano più tribali che mafiosi: er Cecato, il Nero, er Pirata, er Cane, il Tanca, er Caccola, Cicorione… “Penso che Roma sia, e rimanga, la città di Alberto Sordi, dei personaggi vanagloriosi e un po’ spacconi. Chi non è romano non lo capisce bene. E i giudici non erano romani. Anche lei non è romano, e infatti mi guarda in maniera strana. Capisco che non mi capisce”.

 

Massimo Carminati non è precisamente un personaggio da commedia, tuttavia. “Io di Carminati divenni amico, col tempo. E guardi che pure lui soffriva questa mitizzazione. Dicevano che era invischiato in mille cose. Segreti. Omicidi eccellenti. Poi addirittura la mafia. Tutte cazzate. La verità è che Carminati ha fatto qualche rapina, sì. Ma è uno che campava di espedienti. E’ quello che gli ha rinfacciato persino il suo avvocato, ora che ci ha litigato”. Proprio l’altro giorno, durante una pausa dell’udienza, Carminati si è rivolto con durezza nei confronti del suo ex legale: “Se fosse stato per te sarei marcito in galera”. E quello: “Devi ringraziare Pignatone e De Cataldo, altrimenti saresti rimasto il semplice ladro che eri”. Buzzi sospira. E Poi: “Ma certo!”, esclama. “E infatti di questa fama noir Carminati soffriva”. Soffriva? Ma se al telefono si vantava, persino. A uno che non gli veniva a riparare il rubinetto di casa gli diceva: “Aho, guarda che io so’ Carminati”. Minaccioso. “Spavalderia. Romanesimo, appunto. Ma poi Massimo capiva bene che questa leggenda attorno al suo nome lo avrebbe distrutto. Stritolato. Sapeva bene che sarebbe finito nei guai. E lo ripeto: ne soffriva. Qua, tra giudici e scrittori non s’è capito niente”.

 

A proposito: l’ha letto “Suburra”? L’ha visto il film? “Guardi che io sono amico di Giancarlo De Cataldo. Quando girarono la fiction ‘Romanzo criminale’ gliele ho date io le comparse per il film. Le facce criminali che furono utilizzate gliel’avevo fornite tutte io tramite la cooperativa. Venne da noi in sede De Cataldo, con lo sceneggiatore. Lo conosco da anni. E’ stato pure il mio giudice di sorveglianza. Eravamo vicini di casa, quando abitavo a Trastevere con la mia prima moglie. Allegate alle indagini ci sono persino delle telefonate tra me e lui”. Non gli porta rancore? “No. Affatto”. Però il cortocircuito c’è stato. “Una bolla di confusione. La vuole sapere una cosa divertente? Io a quelli che ho corrotto, di soldi gliene ho dati molti di più di quelli di cui mi hanno accusato i giudici. E ai giudici gliel’ho pure detto. Con le prove in mano. Mi hanno accusato di aver dato 30.000 euro ad Andrea Tassone, per esempio, l’ex presidente del Consiglio municipale di Ostia. Ma io a Tassone gliene avevo dati cinquantamila di euro, non trentamila. A Placidi non gliene ho dati diecimila, ma ventimila. Alla fine siccome mi consideravano ‘non attendibile’, mi hanno condannato per una corruzione inferiore a quella che avevo in effetti commesso. E sa perché non ero attendibile? Perché se fossi stato attendibile la storia della mafia finiva”. C’era qualcuno che non si faceva corrompere, che rifiutava? “Daniele Ozzimo, l’assessore del sindaco Ignazio Marino, il mio più vecchio amico nel Pd. Non ha mai preso un soldo”. Ma è stato condannato. “Solo perché ha scelto il rito abbreviato. Sbagliando. Anche Gianni Alemanno non prendeva soldi. Mi chiese qualche contributo per la campagna elettorale. Magari il finanziamento per qualche cena. Tutto in chiaro. Ma chi è che non paga una cena al sindaco di Roma, tra gli imprenditori in città? Cerchiamo di non essere ipocriti. Sa in cosa consisteva il mio lavoro? Io passavo le giornate a fare marchette. A costruire relazioni. A mettere d’accordo tutti. Ero bravo… come Luca Palamara”. Che c’entra Palamara? “Quattro correnti della magistratura che si mettono d’accordo per spartirsi di volta in volta, a turno, un incarico direttivo cosa stanno facendo di diverso da quello che facevo io quando mi mettevo d’accordo con le altre imprese affinché riuscissimo a turno a vincere una gara senza farci concorrenza?”. Non è precisamente la stessa cosa. “Ne è sicuro?”.