(foto LaPresse)

Non solo mele marce. E' l'albero della giustizia il grande ammalato

Claudio Cerasa

Il caso Palamara non riguarda il cattivo atteggiamento di un singolo magistrato ma è il sintomo del cattivo funzionamento di un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario in cui la giustizia è al servizio dei pm

Si fa presto a dire Palamara. Nelle ultime settimane, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è intervenuto ben due volte per esprimere un giudizio relativamente ad alcune scene pietose offerte negli ultimi mesi dalla magistratura italiana. Lo ha fatto la prima volta lo scorso 29 maggio, quando il capo dello stato, in riferimento alla pessima immagine offerta dal Csm sul caso Palamara, ha parlato della “degenerazione del sistema correntizio” e dell’“inammissibile commistione fra politici e magistrati”. Lo ha rifatto la scorsa settimana, il 18 giugno, sottolineando il fatto che le toghe sono chiamate a “recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini”, ricordando che la prossima riforma della giustizia dovrà “rimuovere prassi inaccettabili, frutto di una trama di schieramenti cementati dal desiderio di occupare ruoli di particolare importanza giudiziaria e amministrativa, un intreccio di contrapposte manovre, di scambi, talvolta con palese indifferenza al merito delle questioni e alle capacità individuali” e ribadendo il fatto che nel mondo della magistratura, “a ciascuno è richiesto il coraggio di abbandonare atteggiamenti fondati su prospettive limitate, di corto respiro, che, distorcendo la vita delle istituzioni, rischiano di delegittimarle. E’ un dovere istituzionale che grava su ciascuno. E che non può essere eluso”.

   

In entrambe le occasioni, la classe politica e il mondo dell’informazione hanno salutato con grande entusiasmo le parole del presidente della Repubblica e dedicato al capo dello stato un’ovazione mediatica. Ma l’entusiasmo per le parole di Mattarella mostrato da una buona parte della classe dirigente italiana è un entusiasmo che suona in modo quantomeno grottesco e se si sceglie di osservare la vicenda Palamara allargando l’inquadratura ci si accorgerà facilmente che gli applausi rivolti oggi al presidente della Repubblica sono simili a quelli che vennero rivolti a Giorgio Napolitano nel 2013 quando l’allora capo dello stato spiegò in Parlamento la ragione per cui aveva scelto di accettare il secondo mandato. Napolitano, in un discorso molto applaudito, disse, in buona sostanza, di aver accettato quell’incarico per togliere le castagne dal fuoco a una classe dirigente politica irresponsabile e la stessa classe dirigente politica accusata con parole di fuoco di essere irresponsabile non perse occasione per ringraziare di cuore l’allora presidente per quelle preziose parole. La scena che l’Italia sta osservando oggi, attorno al caso Palamara, è una scena molto simile perché, a differenza di molti, il presidente della Repubblica, rispetto al caso Palamara, ha chiesto di accendere un riflettore non solo sulla storia di un magistrato poco raccomandabile, diventato impresentabile anche per tutti coloro che fino a qualche mese fa lo consideravano più che presentabile per raggiungere i propri obiettivi nel mondo della magistratura, ma su una storia ben più importante che in troppi fanno finta di non vedere, concentrandosi molto sulla mela marcia e poco invece sull’albero da cui quella mela proviene. E la ragione per cui la classe politica e il mondo dell’informazione hanno scelto di illuminare più la mela marcia che l’albero da cui quella mela proviene è una scelta che si spiega in un modo molto semplice: buttare via una mela marcia non costa molto, buttare via l’albero da cui quella mela proviene, e spiegarne il perché, significa anche dover ammettere che i problemi della magistratura italiana non sono legati alla presenza di un magistrato poco raccomandabile ma sono legati a una lunga serie di problemi più culturali che strutturali, senza affrontare i quali i problemi osservati in questi mesi si ripresenteranno presto come capita con i nodi che senza essere sciolti arrivano regolarmente al pettine.

 

In questo senso, il caso Palamara non è il caso di un magistrato senza scrupoli ritrovatosi per caso a trafficare in quella complicata zona grigia che esiste tra il mondo della giustizia e la politica. Il caso Palamara, per chi lo vuole osservare davvero, è l’espressione di un mondo della magistratura gravemente ammalato per almeno dieci motivi diversi. Malato per aver accettato il principio che le correnti della magistratura potessero essere serenamente trasformate più in correnti di potere che in correnti di opinione. Malato per aver accettato il principio che le promozioni potessero essere serenamente affidate più all’appartenenza che al merito. Malato per aver accettato il principio che i magistrati che sbagliano sono magistrati che non meritano di essere puniti ma che meritano al massimo di essere spostati. Malato per aver accettato il principio che le oscenità del processo mediatico diventano oscenità solo quando a essere colpiti dalle suddette oscenità sono gli stessi magistrati. Malato per aver accettato il principio che l’utilizzo truffaldino delle intercettazioni irrilevanti diventa truffaldino solo quando a essere vittime di intercettazioni che non andavano trascritte sono gli stessi magistrati. Malato per aver accettato il principio che la guerra per bande tra magistrati potesse diventare un problema non nei casi in cui a fare le spese di questa guerra sono i singoli cittadini ma solo nei casi in cui a farne le spese sono i singoli magistrati. Malato per aver accettato il principio che le correnti della magistratura pericolose sono sempre quelle a cui appartengono gli altri. Malato per aver accettato il principio che le commistioni pericolose tra procure e partiti sono sempre le commistioni degli altri. Malato per aver accettato il principio di dover legare i propri destini alla non separazione delle carriere tra pm e giornalisti. Malato per aver accettato per troppo tempo di delegare l’immagine di un’intera categoria a una parte minoritaria della magistratura, i pm, che rappresenta il 20 per cento del mondo togato ed è conosciuta nel paese più per i successi nei talk-show che per i successi in tribunale. Malato per aver accettato il principio di avere un Csm del tutto disinteressato a difendere un tema che dovrebbe essere vitale all’interno di uno stato di diritto: la tutela della terzietà e dell’indipendenza della figura del magistrato.

 

Il caso Palamara – le cui conversazioni private sono state pubblicate sui giornali grazie alla presenza nel telefonino di un trojan che la procura indagante ha potuto piazzare in virtù della presenza di un’accusa contro Palamara, corruzione per atti giudiziari, uno dei due capi di imputazione a cui deve rispondere l’ex capo dell’Anm, che la stessa procura ha poi ammesso essere un’accusa priva di fondamento – non è un caso che riguarda il cattivo atteggiamento di un singolo magistrato. Ma è un caso che riguarda il cattivo funzionamento di un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario. Per combattere il quale non è sufficiente, come sembra auspicare purtroppo oggi buona parte della nostra classe politica, combattere per “una grande riforma del Consiglio superiore della magistratura” ma è necessario combattere per qualcosa di più importante, che ha a che fare più con una rivoluzione culturale che con una rivoluzione del Csm: smetterla di fischiettare di fronte ai troppi casi in cui l’Italia sceglie di mettere la giustizia più al servizio dei propri pm che del paese.

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.