Nino Di Matteo (foto LaPresse)

Di Matteo in Antimafia, la resa dei conti nel M5s tra Morra e Bonafede

Valerio Valentini

Il presidente della Commissione accoglie la richiesta del centrodestra di ascoltare il magistrato e il Guardasigilli torna “sotto processo”

Roma. In un sospiro d’atarassia, Maurizio Lupi dice che “non c’è da sorprendersi se il Pd si ritrova a difendere Alfonso Bonafede dalle insidie del M5s, perché qui ormai siamo al trionfo del paradosso”. Lo dice, l’ex ministro, pensando in generale alla politica italiana; ma lo dice con riferimento più esatto, più concreto, a quella commissione Antimafia dove il deputato centrista rappresenta il gruppo Misto e che è diventata l’epicentro delle tensioni tra il Guardasigilli e il suo stesso partito. Lo si è capito giovedì, durante l’audizione – paradossale, appunto – del magistrato Nino Di Matteo, membro del Csm: un’audizione che era chiaro fin dalla vigilia che sarebbe stata un’imboscata per il ministro della Giustizia. “E infatti la richiesta è partita dalle opposizioni”, dice Davide Aiello, deputato che rappresenta il M5s nell’ufficio di presidenza dell’Antimafia. Dove, nei giorni scorsi, è accaduto l’impensabile: e cioè che, malgrado le perplessità del M5s, e la netta contrarietà del Pd e di Leu, alla fine Nicola Morra, grillino tutto d’un pezzo che presiede la commissione, ha deciso di accogliere la richiesta strumentale del centrodestra. “Noi abbiamo subito considerato non pertinente la convocazione di Di Matteo”, spiega Franco Mirabelli, senatore dem, “perché esulava dal tema su cui stavamo indagando”. E cioè quello delle scarcerazioni di certi esponenti delle cosche durante l’emergenza Covid. “Un caso che ha a che vedere – dice Mirabelli – con la sciatteria burocratica degli uffici del Dap, e non certo con presunti ricatti dei boss”.

 

Ma questo è appunto quello che sostiene il Pd. Di Matteo è invece convinto del contrario: e anzi giovedì ha proposto un parallelismo assai ardito tra la sua mancata nomina alla direzione del Dap nel giugno 2018, le scarcerazioni del maggio scorso e la presunta trattativa del 1992-93, adombrando perfino il dubbio che, se lui non avesse sollevato il polverone telefonando a Massimo Giletti, “questa ondata di scarcerazioni sarebbe continuata all’infinito”. Insomma, tutto un guazzabuglio di insinuazioni e complottismi che però, mentre veniva contestato dal Pd, veniva intanto legittimato da certi interventi, più o meno consapevoli, dei grillini. Consapevole lo era invece, di certo, il presidente Morra. “Che tra il difendere Di Matteo e il difendere Bonafede, ha già deciso cosa fare”, osserva Lupi. Lo aveva già deciso settimane fa, quando con tweet allusivi aveva rinfacciato a Bonafede le nomine che aveva fatto, salvo poi schermirsi di fronte a chi traeva le inevitabili conclusioni: “Anche oggi apprendo da opinionisti che sarei in contrapposizione a colleghi del M5s. Anche oggi Morra tramerebbe contro il ministro. Ma Morra combatte e si batte contro il sistema oggi, ieri e domani”, scriveva il 30 maggio, con una prosopopea di sé, in terza persona, che manco Napoleone ad Austerlitz. “Ma credo che in effetti lui voglia solo dimostrare di essere il più puro paladino dell’Antimafia a 5 stelle”, dice Lupi. Il che, certo, andrebbe relegato a episodio marginale di quel filone di letteratura dadaista che è la politica interna del M5s.

 

Se non fosse che Morra, nelle sue ansie di gloria, rischia adesso di creare un problema al governo. Perché, come dice Mirabelli, “è sbagliato usare Di Matteo per delegittimare Bonafede”. E perché, come aggiunge Lupi con perfida logica, “i grillini dicevano che quella tra Bonafede e Di Matteo era stata un’incomprensione di una sera. E invece a distanza di oltre un mese dalla telefonata a Giletti, il magistrato è venuto in una sede istituzionale a ribadire tutte le sue critiche all’operato del ministro. Per questo noi ora vogliamo audire Bonafede. E Morra non potrà impedircelo”. Potrebbe, in verità, anche perché è quello che gli chiederanno Pd, Leu e M5s. Ma il punto è capire se vorrà: e lo si capirà martedì prossimo, nell’ufficio di presidenza. “Audire di nuovo il ministro non serve”, spiega Mirabelli. “Mi sembra evidente che abbiamo cose molto più urgenti di cui occuparci, in questa fase in cui le mafie, approfittando della crisi, comprano negozi e scalano aziende”. E però, nel trionfo del paradosso, le evidenze vanno a farsi benedire.

Di più su questi argomenti: