(foto LaPresse)

Basta status quo

Carmelo Barbieri

La riforma del Csm può esistere solo se si aprono gli occhi sulle ipocrisie degli incarichi direttivi

Il Csm va riformato, su questo tutti d’accordo. La domanda è: come? Quali sono le pietre angolari da spostare? In che direzione? Probabilmente sono due: la modifica del sistema elettorale e un ripensamento dei confini della discrezionalità dell’Organo di autogoverno. Il primo intervento potrà concorrere a ridurre il peso delle correnti valorizzando la componente personalistica ma, per l’elevato tasso di tecnicismo che lo connota e, più in generale, in forza del principio di neutralità della legislazione elettorale che, tanto più per un organismo di garanzia qual è il CSM, ha consistenza costituzionale, si tratta di un intervento che non potrà cambiare l’anima del Consiglio. In ogni caso, va posta grande attenzione rispetto a proposte dirette ad introdurre formule a forti effetti maggioritari, che potrebbero ridurre il pluralismo che va, invece, preservato e valorizzato; nella generale consapevolezza che è estremamente difficile preventivare quali siano gli esiti reali di una legge elettorale che possono essere riscontrati soltanto dopo la prova del voto. Il sorteggio, al di là dei gravi dubbi di compatibilità costituzionale, non convince: non può essere il caso a decidere chi andrà a comporre l’Organo di autogoverno della magistratura. Uno non vale uno: il grave momento storico in corso, con la richiesta di competenza, responsabilità e soluzioni consapevoli, dovrebbe avercelo insegnato. Le correnti dovrebbero tornare a rappresentare all’interno della magistratura i riferimenti ideali e politico-programmatici, abbandonando le logiche corporative e di vera e propria consorteria in cui sono tristemente sprofondate. Ci vorrà del tempo, ma è questo l’obiettivo da porsi.

 

Il secondo intervento, quello diretto a tracciare nuovi confini della discrezionalità del Consiglio è assai delicato. Il sistema dell’autogoverno autonomo è la pietra miliare dell’ordinamento costituzionale della magistratura. L’indipendenza della magistratura resterebbe probabilmente un’enunciazione di principio se non ci fosse il sistema di autogoverno a presidiarla. E’ corollario dell’indipendenza la politicità della giurisdizione, che costituisce uno dei poteri dello Stato esercitato in modo autonomo dagli altri poteri e che con essi promuove i processi di Policy. In fondo, la democrazia si basa sul mettere un potere contro un altro potere, perché la cosa funzioni è necessario che ciascuno di essi sia all’altezza del compito. Il CSM è chiamato ad esprimere, per così dire, un proprio indirizzo di politica giudiziaria, diretto ad attuare i fini che la Costituzione gli assegna. Naturalmente, tale indirizzo va espresso nel rispetto delle riserve di legge contenute nella Costituzione e nell’evidente presa d’atto della superiorità della fonte legislativa. Per queste ragioni un intervento riformatore diretto ad erodere la discrezionalità dell’Organo di autogoverno, probabilmente opportuno e inevitabile a causa del terribile momento che il sistema consiliare sta attraversando, non può consistere nel fissare criteri di fonte legislativa predeterminati in termini così analitici e dettagliati da rendere strettamente esecutive e vincolate le scelte del Csm. Negli atti della Commissione Paladin (istituita presso la Presidenza della Repubblica all’inizio degli anni novanta per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura) si legge “l’esistenza di un organo quale il Csm rischierebbe di non avere senso, se i provvedimenti ad esso spettanti fossero del tutto vincolati alla necessaria e meccanica applicazione di previe norme di legge”. Uno degli aspetti più controversi di esercizio della discrezionalità consiliare è quello del conferimento degli incarichi direttivi: si è assistito a casi di grave incoerenza delle scelte e di non adeguatezza delle motivazioni. Negli ultimi anni la logica corporativa e consortile, come impietosamente testimonia il contenuto delle intercettazioni pubblicate, ha prevalso su valutazioni meritocratiche e di politica giudiziaria.

 

Le proposte di riforma che si scorgono sembrano investire sul criterio dell’anzianità e su quello di rotazione degli incarichi direttivi, abbandonando o ridimensionando la componente meritocratica. Questa soluzione non persuade. La guida di un ufficio giudiziario deve essere fondata su una specifica professionalità e sull’acquisizione di puntuali capacità organizzative all’esito di una formazione mirata, come avviene per tutte le organizzazioni, più o meno complesse, pubbliche o private. L’indipendenza della magistratura non la colloca su un “altro universo. La strada non sembra quindi quella di abbandonare criteri (autenticamente) meritocratici in favore di automatismi (anzianità) e di strumenti di incessante rotazione nell’incarico, che non consentono una minima programmazione gestionale e, soprattutto, disconoscono ogni ruolo alle concrete capacità organizzative. Occorre, piuttosto, investire su scelte trasparenti e verificabili e, soprattutto, su di una rigorosa procedura di conferma nell’incarico non più basata su un metodo burocratico di controllo (incapace di individuare coloro che non sono veramente idonei) ma, piuttosto, su specifici indici di performance e soprattutto sulle informazioni provenienti da “punti di vista” esterni (in particolare dai magistrati dell’ufficio, dagli avvocati e dalle parti). E’ necessario e urgente rinnovare le fondamenta ideali e culturali del sistema dell’autogoverno; le riforme legislative, in questo momento indispensabili, dovranno tracciare la strada ma non basteranno. Prendendo in prestito le parole pronunciate da Winston Churchill a Zurigo nel settembre del 1946 “tutto ciò che occorre è la risoluzione di migliaia di uomini e di donne di agire bene piuttosto che male e di meritare la ricompensa di essere benedetti invece che maledetti”. 

 

Carmelo Barbieri è magistrato del Tribunale di Milano

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