Aula Bunker Pagliarelli, tribunale di Palermo (foto LaPresse)

Emergenza finita: a Palermo è ripartito tutto, tranne la giustizia

Riccardo Lo Verso

Il volto rigido dei protocolli. Nella trincea della lotta alla mafia, aule deserte e diecimila processi in attesa di giudizio

Palermo, una mattina di fine maggio. Calma piatta in tribunale. Si amministra poca, pochissima giustizia ai tempi del coronavirus. All’ingresso giganteggiano le foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli altri morti ammazzati per mano mafiosa. Di Falcone pochi giorni fa si è commemorato il ventottesimo anniversario dell’eccidio con un richiamo collettivo al dovere che tutti sono chiamati a compiere. Impossibile farlo se l’avamposto della legalità è silente. Senza processi, senza il quotidiano confronto tra accusa e difesa, la giustizia non esiste. Esiste solo una finzione che si ostinano a chiamare giustizia.

 

Il carabiniere anticipa i movimenti di chi si presenta all’ingresso del tribunale. E’ “armato” di termometro d’ordinanza per misurare la temperatura. L’ultimo rischio che corre è di scaricare le batterie per la troppa attività. Non c’è fila al metal detector. All’interno corridoi semivuoti, aule chiuse. Niente chiacchiere e carta bollata, niente avvocati che salgono e scendono per le scale, niente praticanti e segretarie che fanno l’impagabile lavoro di cancelleria.

 

Ha ragione il presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati palermitani Giovanni Immordino quando dice che la “giustizia è rinviata a data da destinarsi”. Tutto fermo o quasi fino al 31 luglio. Colpa del Covid-19 che, però, intorno al palazzo di giustizia non preoccupa più di tanto.

 

Il silenzio della cittadella giudiziaria stride con la frenesia dell’ambiente che la circonda. A destra il corso intitolato a Camillo Finocchiaro Aprile, garibaldino, mazziniano, politico e giurista. Corso Olivuzza, lo chiamano i palermitani. Si dice che fosse il diminutivo di Oliva, la donna che gestiva un ricovero per i cacciatori di conigli in quella che un tempo era una zona verde e ora è una affollata strada commerciale. A sinistra c’è il Capo, uno dei mercati storici della città con la bancarelle di frutta, verdure e pesce, e le botteghe di generi alimentari. La città si è ripresa la sua caotica normalità che in parte non aveva abbandonato persino nei giorni di paura e lockdown.

 

A Palermo si può lasciare la macchina parcheggiata in terza fila (l’abitudine della doppia fila ha alzato l’asticella della trasgressione), ci si può accalcare (assembrare, pardon) davanti alle bancarelle autorizzate e (molte) abusive, si può comprare il pane stipato dentro i furgoncini che rispettano un protocollo igienico-sanitario tanto autonomo quanto imperscrutabile, ci si può confondere tra la folla dei mercatini rionali.

 

E ancora da qualche altra parte della città si può andare in palestra, passeggiare al parco, fare l’aperitivo e un tuffo al mare seguendo (quasi del tutto) il canovaccio di sempre. E’ ripartito tutto, tranne la giustizia. Negli uffici giudiziari lo stato mostra il volto rigido dei protocolli. Poco importa ciò che accade attorno alla fortezza che resiste al Covid, compreso il fatto che la situazione sanitaria in Sicilia non sia mai stata preoccupante. I livelli del contagio sono rimasti sempre sotto controllo. La giustizia non cede alla tentazione del ritorno frettoloso alla normalità. Predica calma e prudenza, e non solo a Palermo. Resta sospesa, ma così rischia di sprofondare sotto il peso dei numeri, tenuto conto che l’erosione della credibilità ne ha già minato le fondamenta.

 

Si calcola che in questi mesi di stop, totale e parziale, siano stati rinviati diecimila processi. “Assisto degli impiegati della Regione siciliana imputati per corruzione e abuso d’ufficio – spiega l’avvocato Enrico Sanseverino, ex presidente dell’Ordine – e il processo è stato aggiornato a febbraio 2021. Un carico pendente in Italia è peggio di una sentenza. Qualcuno è stato trasferito in altro ufficio nell’attesa di conoscere le sorti processuali”. Un carico pendente sine die è un danno per l’imputato, ma anche per la pubblica amministrazione che deve sapere in fretta se può fidarsi ancora di un impiegato.

 

Solo quando e se si ripartirà a pieno regime si capirà l’entità dei danni provocati dalla chiusura prima e della ripartenza a scartamento ridotto poi. Negli ultimi anni, seppure con percentuale ancora basse, si è riusciti a smaltire parte dei vecchi fascicoli. I rinvii di oggi ingrosseranno le statistiche sui processi pendenti.

 

Prima del coronavirus in ciascuna sezione del Tribunale venivano fissati in media trenta processi al giorno con punte di sessanta (molti a onor del vero venivano chiamati per meri rinvii). Oggi al massimo si svolgono una decina di processi. A dettare le limitazioni è stato il presidente del Tribunale Salvatore Di Vitale, costretto a usare il metro. Gli spazi delle aule al secondo piano sono ristretti. Lo stesso Di Vitale, ormai prossimo alla pensione, spera di lasciare sul tavolo del suo successore un programma che inverta la tendenza. Nel frattempo si va avanti piano in attesa delle ferie estive quando, con o senza coronavirus, il tribunale andrà in regime feriale.

 

Va decisamente meglio al primo piano, in Corte d’appello, dove il presidente Matteo Frasca ha scelto una linea più morbida. Può contare su aule più grandi, davanti alle quali si incontrano gli avvocati in attesa. Distanziati e con le mascherine. Insomma, basta fare una rampa di scale e le regole cambiano. Non c’è da meravigliarsi. L’organismo congressuale forense ha calcolato, infatti, che in giro per l’Italia sono stati applicati 200 protocolli diversi.

 

Nei nuovi uffici giudiziari, alle spalle del vecchio palazzo di giustizia, che per le ampie vetrate ricordano la architetture della Défense parigina, gli adesivi piazzati per terra indicano i percorsi separati per salire e per scendere. Il nastro isolante evita che qualcuno faccia confusione. Al pianterreno sono state tracciate delle aree di sosta che possono ospitare fino a nove persone per volta. Qualcuno le ha già soprannominate “i recinti”, tradendo la scarsissima voglia di finirci dentro. Vi devono stazionare gli avvocati in attesa di essere chiamati per i processi o per la consultazione degli atti. E qui la faccenda si fa ancora più complicata. In caso di misure cautelari o avvisi di conclusione delle indagini, ad esempio, bisogna chiamare in cancelleria e prenotarsi per leggere gli atti. Il giorno prestabilito il fascicolo si troverà sul tavolo della sala avvocati. Una sala piccola, il turno è inevitabile.

 

Alcuni processi vengono celebrati da remoto. Giudice, pubblico ministero e avvocato si guardano negli occhi via computer. Almeno in questo a Palermo si è dato ascolto alla protesta dei penalisti che vedono nel video collegamento lo svilimento della professione e una lesione del diritto di difesa. Anche molti magistrati considerano il processo da remoto un metodo da archiviare il prima possibile. Al momento con questa modalità si svolgono per lo più le udienze di convalida degli arresti, in aggiunta a quelle con i detenuti collegati in video conferenza dal carcere.

 

I processi con i detenuti vanno trattati con priorità, tenuto conto anche dei termini di scadenza di custodia cautelare, assieme a quelli dove c’è una parte civile costituita e quelli, come i cosiddetti codici rosi, dove fare presto significa tutelare le vittime di violenze e abusi. Stessa cosa nel settore civile per le cause legate a questioni familiari, dal divorzio agli alimenti, o di lavoro.

 

Anche nel nuovo palazzo di giustizia l’ingresso nelle aule è contingentato. Più si sale e maggiori sono i problemi. Al terzo piano c’è l’aula delle udienze preliminari che in una terra segnate da blitz, più o meno grandi, è spesso affollata. Qualche giorno fa un gip ha preso atto dell’assembramento e delle proteste degli avvocati costretti a stare in corridoio. Meglio trasferire il processo nella vecchia ma molto più ampia aula bunker dell’Ucciardone. Quella del maxi processo per intenderci. Il clima si era surriscaldato, anche nel senso letterale della parola. Il terzo piano è vicino al tetto panoramico a vetri e il sole di maggio picchia forte. Fra pochi giorni sarà una fornace e il protocollo stabilisce che l’aria condizionata va tenuta rigorosamente spenta.

 

E in Procura? Negli uffici del vecchio palazzo che ospita i pubblici ministeri e le cancellerie l’accesso è regolamentato. Chi ha bisogno di parlare con un pm o depositare un’istanza accede al portale e si prenota online. Facile a dirsi, meno a farsi. Il 30 per cento del lavoro di cancellieri e assistenti giudiziari viene svolto a rotazione da casa, in smart working, per evitare la presenza simultanea di troppe persone in una stessa stanza. Chi lavora da casa, però, non ha accesso al sistema informatico dell’ufficio (ci sono protocolli di sicurezza e riservatezza ancora prima che sanitari da rispettare). La digitalizzazione della giustizia è ancora troppo lontana. “I provvedimenti emanati – dice l’avvocato Michele Calantropo, del gruppo di minoranza dei penalisti dell’Ordine – a nulla servono se mancano personale e strumenti”.

 

Non va meglio fuori dal palazzo. In carcere, ad esempio, sono ripresi i colloqui degli avvocati con i detenuti. Ma serve tanta pazienza. Si entra uno alla volta. L’attesa prima di parlare con gli assistiti può durare ore. E una volta dentro bisogna fare in fretta.

 

La verità è che la pandemia ha mostrato tutti i limiti strutturali e organizzativi del paese e solo degli inguaribili ottimisti potevano pensare che il sistema giustizia potesse reggere la botta. Da decenni si annunciano roboanti riforme. La magistratura sceglie la sacralità dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, quando si indossano gli ermellini di porpora, per dire che “così non va”. Il rappresentante di turno del governo sta lì, annuisce e annuncia il massimo impegno. Alla fine arrivano scelte che incidono poco sui tempi dei processi. Per accelerali si è deciso per ultimo, prima ancora dell’emergenza sanitaria, che bisogna fermare il decorrere della prescrizione. Fermare per velocizzare (?), il blocco della prescrizione come rimedio contro la lentezza della giustizia. Il corso della prescrizione rimane sospeso per il tempo in cui il procedimento è stato rinviato a causa dell’emergenza sanitaria.

 

Il coronavirus dovrebbe imporre l’obbligo, oltre all’utilizzo di guanti e mascherine, di affrontare seriamente il tema della giustizia. La giustizia vera, non quella che fa palcoscenico per l’esibizione delle figure dell’antimafia, cadute giù un dopo l’altra, delle trame oscure da svelare. Non dovrebbe essere, la giustizia, il terreno di scontro delle correnti che si manifestano in chat maleodoranti per piazzare gli uomini al comando degli uffici giudiziari.

 

Si grida allo scandalo per le scarcerazioni facili dei boss che poi non sono né tutte facili, né tutti boss. Si esulta per il ritorno in cella di detenuti malati di tumore a cui restano da scontare pochi mesi di galera. Nel frattempo la gente nei tribunali mangia pane e ingiustizia perché un processo lungo è ingiusto per l’imputato e per la vittima. Passata la stagione degli scandali, e pure quella del coronavirus, ci si ritroverà di nuovo immersi in quella grande finzione che chiamano giustizia.

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