Milano, Roberto Formigoni agli arresti domiciliari visita la Chiesa Sant'Ildefonso (Foto LaPresse)

Il Travaglio del diritto

Ermes Antonucci

Al Fatto non bastano i domiciliari a Formigoni. Quando il richiamo delle manette è più forte delle leggi

Con un lungo editoriale pubblicato mercoledì, il Fatto quotidiano è tornato a chiedere a gran voce il ritorno in carcere dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione e scarcerato lo scorso 22 luglio dal Tribunale di sorveglianza di Milano, dopo cinque mesi di detenzione a Bollate. Formigoni sconterà il resto della pena agli arresti domiciliari a casa di un amico, che si è offerto di ospitarlo e di fornirgli anche l’aiuto necessario sotto il profilo economico, visto che l’ex governatore è rimasto senza un soldo, ancor di più dopo la decisione del Consiglio di presidenza del Senato di sospendergli l’erogazione della pensione e del vitalizio.

 

Ma che Formigoni sia ormai ridotto in rovina e costretto a trascorrere le sue giornate all’interno delle quattro mura di casa (se si escludono le ore in cui gli è consentito di svolgere attività di volontariato all’esterno con anziani e disabili) al Fatto quotidiano sembra non bastare. Il richiamo delle manette e del tanfo di una cella sovraffollata è irresistibile, soprattutto se a essere coinvolto è un membro decaduto della tanto odiata “casta” politica. “Formigoni doveva rimanere in carcere”, ha scritto Antonio Esposito sul quotidiano diretto da Marco Travaglio, che nei giorni scorsi aveva già criticato la decisione di scarcerare l’ex senatore.

 

Dopo avere ironizzato sulla decisione di spedire Formigoni “ai domiciliari a casa di un amico ove trascorrerà comodamente i restanti 5 anni e 5 mesi” (dimostrando di non conoscere minimamente, per sua fortuna, le sofferenze che anche la detenzione domiciliare è in grado di provocare nelle persone coinvolte), l’autore dell’articolo ha avanzato una critica “tecnica” ai giudici, che però non sta minimamente in piedi, e anzi finisce per travisare leggi e decisioni giudiziarie.

 

Secondo il Fatto quotidiano, Formigoni non sarebbe dovuto essere scarcerato perché condannato per un reato contro la pubblica amministrazione che la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, varata dal governo gialloverde ed entrata in vigore a gennaio, ha inserito nell’articolo 4-bis dell’Ordinamento penitenziario, cioè tra i reati ostativi alla concessione dei benefici penitenziari (incluse le misure alternative al carcere). E l’articolo 58-ter dell’Ordinamento penitenziario, sottolinea ancora il Fatto, prevede che questa limitazione alla concessione dei benefici penitenziari possa essere superata solo se il condannato ha collaborato con l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione dei reati, cosa che – sempre secondo il giornale – non sarebbe avvenuta nel caso di Formigoni.

 

In realtà, la nuova norma introdotta dalla legge “spazzacorrotti” non si sarebbe neanche dovuta applicare al caso dell’ex governatore, visto che il suo processo riguarda fatti antecedenti all’entrata in vigore della legge e uno dei princìpi basilari dello stato di diritto è quello secondo cui una legge penale sfavorevole non può essere applicata in maniera retroattiva. Quindi, avendo più di 70 anni (ne ha 72) Formigoni avrebbe potuto evitare il carcere ed espiare la pena ai domiciliari fin dall’inizio. Vista però la mancanza di regolamentazione della fase transitoria, la nuova norma è stata applicata anche al caso Formigoni, così come a tanti altri, sulla base di un’interpretazione che ora è finita di fronte alla Corte costituzionale (e che contrasta con la recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale anche le norme che riguardano l’esecuzione della pena hanno una natura sostanziale analoga alle norme penali).

 

Ma andiamo avanti. Il Fatto ora sostiene che Formigoni non sarebbe dovuto essere scarcerato perché non ha collaborato con la magistratura. In realtà, nel concedere gli arresti domiciliari i giudici del Tribunale di sorveglianza di Milano hanno preso atto, da un lato, del “percorso di cambiamento” dell’ex governatore (che ha riconosciuto il “disvalore” del proprio comportamento) e, dall’altro, del fatto che ora per Formigoni non ci sono più “spazi” per collaborare al processo, sottolineando inoltre che su questo punto i pm hanno portato solo “presunzioni” e non elementi “per fondare una possibilità” di collaborazione.

 

Il Fatto, però, non si dà pace e afferma che l’ex governatore potrebbe collaborare, dando risalto alle generiche contestazioni dei pm. Un po’ come se di fronte all’assoluzione di un imputato dall’accusa di omicidio si continuasse comunque a sostenere la sua colpevolezza semplicemente sulla base delle tesi (sconfessate) dei pm.

 

Nel parere presentato al Tribunale di sorveglianza, per esempio, i pm spiegano che Formigoni, “se volesse, potrebbe contribuire ad accertare eventuali altri fatti di corruzione, ovvero di riciclaggio o autoriciclaggio”. Ipotesi astratte, appunto, e non fondate su elementi concreti. 

 

Il Fatto si spinge ad avvalorare pure un’altra tesi dei pm, e cioè che Formigoni potrebbe collaborare anche in un altro processo che lo vede coinvolto a Cremona. Anche in questo caso però risulta che i giudici non abbiano rintracciato elementi concreti da parte dei pm. Ciò probabilmente tenendo anche ben a mente l’insegnamento di alcune recenti sentenze della Cassazione, secondo cui bisogna evitare di trasformare la collaborazione prevista dall’articolo 58-ter dell’Ordinamento penitenziario in quella dei collaboratori di giustizia. Anche questo non fa parte dello stato di diritto. Ma è comprensibile che per il Fatto sia difficile da capire