Da sinistra Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo

Il grillismo del '92

Michele Brambilla

L’orda moralista è cominciata nei giorni di Mani pulite, con un’intera classe dirigente sotto accusa e l’ipocrita autoassoluzione di un popolo

All’inizio del millenovecentonovantadue facevo il cronista giudiziario al Corriere della Sera e il 17 di febbraio era stato uno di quei giorni loffi che mi avevano indotto, verso le sette di sera, a dire “capo, oggi non c’è niente” e ad alzare i tacchi. Quando si dice il fiuto. Alle nove il “capo”, che era poi il formidabile Ettore Botti, grande giornalista y hombre vertical, mi telefonò a casa – allora di cellulari ne giravano pochissimi, e quei pochissimi non erano alla nostra portata – e mi diede la notizia che avrei dovuto dare io a lui: “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “Non ci credo neanche se lo vedo in manette”, gli risposi. Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio, a Milano non era un uomo di potere: era, più semplicemente, il potere. Lo sapevano tutti, a partire da quei tanti colleghi che da Chiesa si erano fatti dare, a equo canone, appartamenti che non si sarebbero potuti altrimenti permettere. E poi Chiesa era socialista, e socialista a Milano voleva dire Craxi, e Craxi voleva dire un sistema – non uso questo termine in senso dispregiativo – un sistema che nessuno si sognava neppure di scalfire. “Puoi non crederci quanto vuoi ma adesso alzi il sedere e torni in redazione”, furono le parole con cui Botti chiuse le comunicazioni. Ecco, può sembrare bizzarro, può sembrare fantasioso, ma in un certo senso il grillismo è nato quella sera lì, al termine di una giornata loffia in cui non era successo niente.

 

La mattina dopo, il 18 febbraio, Mario Chiesa si svegliò a San Vittore e a Palazzo di giustizia noi cronisti giudiziari ci andammo come tutti i giorni ma con una sensazione nuova: che un mondo stava per crollare. Perché Chiesa lo avevano

Il 18 febbraio Mario Chiesa si svegliò a San Vittore. In noi cronisti giudiziari una sensazione nuova: che un mondo stava per crollare

preso con le mani nel sacco, o meglio nella marmellata come ci disse Di Pietro, e questo ci faceva pensare che non ci sarebbero stati i cavilli, gli arzigogoli, insomma tutto quello che aveva portato a insabbiare, gli anni passati, altre inchieste sui mammasantissima socialisti, i quali socialisti a Milano imperversavano davvero, diciamo la verità, pure con una qualche arroganza, anche se il tempo poi li avrebbe rivalutati, ma questo è un altro discorso. E’ che Di Pietro era un poliziotto e le inchieste le faceva alla Tex Willer, non in punto di diritto. A tale Luca Magni, piccolo imprenditore delle pulizie, aveva dato in mano un po’ di banconote segnate: così quando Chiesa provò a dire ai carabinieri “Ma questi soldi sono miei”, Di Pietro – che era lì sul posto, uomo d’azione e non di pensier – poté intervenire con un colpo di teatro – “Miei un piffero!” – e ordinare le manette.

 

Alla procura di Milano, dov’era arrivato più o meno cinque anni prima, Di Pietro era ancora un intruso, un marziano. “E’ uno sbirro”, dicevano con un po’ di sussiego se non di disprezzo molti dei suoi colleghi, che di questo molisano che abitava in provincia di Bergamo ricordavano i trascorsi in commissariato. Orrore degli orrori, questo ex poliziotto non si serviva di carta carbone e faldoni ma di computer e floppy disk; e al posto dei cancellieri mezzemaniche aveva ingaggiato giovani carabinieri laureati in informatica. Immagazzinava così decine, centinaia, migliaia di informazioni e verbali che poteva tirar fuori al momento giusto, durante gli interrogatori, per far cadere in contraddizione un teste, un imputato, insomma un qualunque sventurato gli capitasse sotto tiro. L’informatica gli permetteva una velocità di riscontro impensabile e impensata per colleghi che ancora si ostinavano, nel far le indagini, a metter le mani fra la polvere degli scaffali.

 

Di Pietro aveva avuto insomma la prova regina per incastrare Chiesa, e con lui il Psi, e con il Psi la Prima Repubblica. “Se cade Chiesa, o meglio se parla Chiesa, cadono tutti”, pensammo noi cronisti giudiziari. I nostri colleghi che seguivano Palazzo Marino a Milano e il Parlamento a Roma invece no, loro pensavano che alla fine Di Pietro sarebbe stato

Il grillismo è nato in quei giorni, in quel primo gigantesco Vaffa, nella divisione degli italiani fra corrotti e onesti. Le responsabilità dei giornali

ingoiato dalla politica e spedito a fare il vigile urbano a Gallarate: Craxi e i suoi avrebbero trovato il modo. Avevamo ragione noi, perché la magistratura avrebbe vinto la partita con quella classe politica. Ma forse è più corretto dire che avevamo visto giusto, non che avevamo ragione: perché al fondo avevamo torto, dal momento che eravamo già finiti in una trappola: senza capirlo, ma con colpevole inerzia, avevamo scelto di non fare i giornalisti ma i tifosi. Perché? Mah, un po’ perché i socialisti erano arroganti e pure un po’ ladri, quindi stavano sulle balle, come i democristiani (i comunisti no, alla maggior parte di noi non stavano sulle balle), quindi era giusto che si facesse piazza pulita. Cominciò allora, cominciò in quei giorni l’orda moralista che portava a non distinguere, a non discernere, a vedere i bianchi e i neri, i buoni e i cattivi, e quel che è peggio gli onesti e i ladri.

 

Legioni di giornalisti arrivarono a Milano da tutta Italia e cominciò a Palazzo di giustizia il delirio di dirette tv dalle quali non veniva fuori mezza notizia – al massimo Paolo Brosio che gridava “sta venendo giù tutto, sta venendo giù tutto!” – perché nel frattempo i magistrati si erano chiusi a riccio, con tutte quelle telecamere davanti alle porte dei loro uffici.

 

Sapevamo però, noi vecchie baldracche del Palazzo, che Di Pietro era un marziano, in procura, anche perché era l’unico che aveva la bizzarra concezione secondo la quale la giornata di lavoro si compone, in genere, di una mattina e di un pomeriggio. Era infatti abitudine a quei tempi, e suppongo lo sia ancora, che i Palazzi di giustizia si svuotassero nelle ore pomeridiane: niente udienze e niente interrogatori, oh non perché i magistrati non lavorino s’intende, ma perché il lavoro se lo portano a casa. Così il pomeriggio i giornalisti forestieri, piombati da tutta Italia, sparivano, e andavano in redazione o in albergo a scrivere sul nulla. Fu Paolo Colonnello, allora al Giorno e oggi alla Stampa, a darmi la dritta: “Uhè, va’ che Di Pietro va a lavorare anche il pomeriggio”. Cominciammo così a girare, dopo pranzo, in un Palazzo di giustizia deserto, arrivando in tutta tranquillità – senza più scorte e sbarramenti, senza più Brosio e telecamere – davanti all’ufficio di Di Pietro. Un giorno lo intravvedemmo, dalla porta socchiusa, mentre interrogava stando seduto con le gambe larghe su una sedia girata all’incontrario, con le braccia conserte e il mento appoggiati allo schienale, i pantaloni tirati su fino al ginocchio e i calzini corti. Urlava mentre si grattava gli stinchi e i polpacci, furibondo perché il malcapitato che aveva di fronte si ostinava a dire che non ricordava chissà che cosa. Sarà stata suggestione, o forse no, ma ci parve di sentirlo gridare: “Mannaggia a chi t’è muort! Mannaggia a chi t’è muort!”. Erano appunto gli interrogatori alla Tex Willer, che facevano inorridire tanti suoi colleghi perbene, ma che portavano a casa confessioni e, ensuite, qualche altro arresto o avviso di garanzia. Fu in quei pomeriggi lì, tra qualche colloquio confidenziale con lui – o con qualche avvocato, o con gli imprenditori che si mettevano in fila per dirsi vittime del sistema delle tangenti – fu in quei pomeriggi lì che i giornali raccolsero un’enorme massa di notizie su un mondo che stava crollando.

 

E non era un mondo, va detto, che meritasse d’esser rimpianto. La corruzione c’era, eccome se c’era; e non era solo finanziamento della politica, era anche arricchimento personale a volte, anche arroganza, anche impunità. Ma il nostro errore – per “nostro” intendo di noi cronisti giudiziari – fu quello di pensare di essere in un film americano, i buoni contro i cattivi. Non sapemmo distinguere, non sapemmo cogliere l’impazzimento di una giustizia che stava diventando giustizialismo, ghigliottina e tricoteuses, e più per colpa nostra che delle procure. Un giorno demmo – me ne ricordo ancora con vergogna – la notizia dell’avviso di garanzia contro un parlamentare democristiano accusato di violazione della legge sul funzionamento pubblico dei partiti. Solo dopo che l’avevamo sputtanato scoprimmo che la “violazione del finanziamento pubblico dei partiti” era l’aver

Di Pietro era un poliziotto e le inchieste le faceva alla Tex Willer. Alla procura di Milano era ancora un intruso, un marziano

pagato i panini agli scrutatori della Dc in un seggio elettorale, alle politiche del 1992. Non sapemmo distinguere ma soprattutto non sapemmo rispettare il nostro ruolo, che non poteva essere quello di una parte nel processo: poteva anzi doveva essere quello di un soggetto terzo, “un potere” terzo se volete, cui spettava l’onere e l’onore di informare gli italiani. Molto semplicemente dovevamo fare i giornalisti, e non lo facemmo. Credo sbagliarono, e di molto, anche i direttori di giornali, i quali lasciarono le inchieste sulla cosiddetta Tangentopoli (copyright Piero Colaprico di Repubblica) nelle mani dei soli cronisti giudiziari. E i cronisti giudiziari, spiace dirlo ma lo sanno tutti che è così, si sentono spesso un tutt’uno con le procure. Ricordo con vergogna anche un altro episodio: una sera che ci invitarono, noi tutti cronisti giudiziari, a “Milano Italia” di Gad Lerner e ci fecero accomodare, si far per dire, su una tribunetta, una specie di curva da stadio dalla quale facevamo il tifo per Di Pietro & Co. “Ecco a voi il pool dei giornalisti di Mani pulite”, disse Gad nel presentarci, e fu una cosa orribile, ma non per colpa sua, era colpa nostra che in effetti eravamo diventati un pool: tutti i giorni le stesse notizie su tutti i giornali, l’informazione concordata dopo aver sentito le medesime fonti. Eravamo diventati la voce della procura, peggio ancora la Pravda di Mani pulite.

 

Grillo a quei tempi faceva il comico, ma il grillismo è nato in quei giorni, in quel primo gigantesco Vaffa, in quella diabolica divisione degli italiani fra corrotti e onesti. Il grillismo nasceva o almeno veniva concepito allora, durante quelle fiaccolate in cui si consumavano insieme la messa in stato d’accusa di un’intera classe dirigente e l’ipocrita autoassoluzione di un popolo. Ed è paradossale che molti anni dopo, nelle piazze rabbiose dei Vaffa day e poi in tanti e tanti processi popolari sul web, Grillo e i suoi abbiano additato al pubblico disprezzo proprio i giornalisti, imputandoli di collusione con i poteri marci, con la politica, con la casta. E’ paradossale perché il rancore di un popolo intero è stato alimentato per anni – a partire da Mani pulite, appunto – proprio dai cosiddetti “giornaloni”, come li chiamano loro. Sono stati i “giornaloni”, dal 1992 in poi, a dare agli italiani l’immagine di una politica sempre corrotta, di una sanità che è sempre “mala”, di un paese che è sempre allo sfascio, di una scuola che è sempre alla deriva, di una classe dirigente che è sempre una casta. Certo il grillismo e lo sfascismo hanno tratto grande forza e alimento dal mondo fuori controllo dei social. Oh è ovvio che è così. Ma i social non danno notizie (semmai le inventano): i social commentano quello che leggono sui giornali. E sono stati i giornali a instillare negli italiani, anno dopo anno, un senso di sfiducia nel presente e nel futuro. Il web è stata solo l’arma finale: il terreno per la bava alla bocca l’avevano preparato quei “giornaloni” contro i quali i grillini hanno invocato di tutto, perfino la forca. Ma senza i “giornaloni” Grillo sarebbe rimasto un comico.

 

Eravamo già finiti in una trappola: senza capirlo, ma con colpevole inerzia, avevamo scelto di non fare i giornalisti ma i tifosi

Una sera molto tardi di quel 1992, a rivoluzione morale ormai saldamente avviata nel paese, ero in redazione con un collega, in attesa di andare a mangiare da Bebel’s in via San Marco, il ristorante di noi nottambuli. Questo collega stava facendo la nota spese. “Metto dentro un po’ di ricevute di cene con mia moglie, un po’ di chilometri a caso e un po’ di mance a informatori, così mi arrotondo lo stipendio”. “Ma scusa – gli dissi – proprio tu che ti stracci ogni giorno le vesti per ladri e tangentari”. “Che c’entra – replicò lui – quelli delle tangenti sono soldi pubblici, è diverso”. Le procure combattevano la corruzione delle mazzette, ma un’altra corruzione, più profonda e più subdola, più insidiosa e più foriera di sviluppi futuri, stava impadronendosi degli italiani, o almeno di tanta parte di loro.