Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Alla Festa del Fatto, Davigo lancia un nuovo cavallo di battaglia: il complottismo

Annalisa Chirico

Il giudice di Mani pulite rilancia il suo consueto populismo penale. Ma stavolta aggiunge un pizzico di visione “giuristocratica”, quella che pone al centro della vita pubblica il magistrato

“Non mi occupo di politica”, è la premessa di Piercamillo Davigo. Accolto come una star alla Festa del Fatto quotidiano, il magistrato in servizio si lascia andare a qualche commento dal sapore vagamente politico, si fa per dire, poi superato dagli eventi nelle ore successive ("Governo Lega-Cinque Stelle? Ne ho viste talmente tante prima che faccio fatico a immaginarmi qualcosa di peggio di ciò che ho già visto”). Di Maio e Salvini, dopo l’inaspettata benedizione di Marco Travaglio, incassano il tacito benestare del giudice simbolo di Mani pulite, oggi presidente di sezione della Corte di Cassazione e candidato, in quota Autonomia e Indipendenza, candidato per un posto nel prossimo Csm.

 

A dire il vero, il sospetto di una convergenza parallela tra Davigo e i gialloverdi aleggiava tra le paginette dedicate alla giustizia nel contratto di governo. Sebbene lui, intervistato sul palco da Travaglio, precisi di condividere alcune misure, altre meno, l’impostazione del programma di pentastellati e leghisti è davighiana al cento per cento. Più carcere, condanne più elevate, stop alle misure alternative. Depenalizzazioni? Neanche a parlarne. Populismo penale allo stato puro. A Taneto di Gattatico, dove si svolge la consueta Festa del Fatto, Davigo sfodera l’armamentario ideologico che l’ha trasformato nel popolarissimo paladino dei Di Maio e dei Di Battista. “Noi viviamo con una classe dirigente che si rifiuta di rispettare la legge e di affrontare un processo”, scandisce il magistrato. “Il nostro codice è stato scritto per tutelare i delinquenti. L’Italia è uno dei posti dov’è più facile, ci manca la serietà”. “Abbiamo un Parlamento che non riesce a cambiare la prescrizione”. “I garantisti? Vogliono tutelare solo i diritti dei delinquenti. Ne sentissi uno che vuole tutelare i diritti delle persone perbene”. “Ho la sensazione che ci facciano fare processi inutili per non farci fare quelli utili”.

 

Ai soliti cavalli di battaglia stavolta Davigo aggiunge un argomento nuovo: il complotto – ordito, manco a dirlo, da una classe politica di corrotti conclamati e potenziali – per disarcionare i magistrati più intrepidi e valorosi. Una visione “giuristocratica” che pone al centro della vita pubblica il magistrato, tutore della morale pubblica, suprema autorità incaricata di assicurare alla giustizia i reprobi di ogni risma. Al togato spetta non già, in una versione minimale, la repressione delle condotte illegali ma il cosiddetto “controllo di legalità”, tanto pervasivo quanto minaccioso. E' così che ogni nostro comportamento viene sottoposto al vaglio della liceità morale, ancor prima che giudiziaria. Il “davighismo” fa rima con moralismo. Da qui il via libera all’agente provocatore, antico pallino di Davigo, cristallizzato, che coincidenza, nel programma di governo giallo-verde. Che cos’è il poliziotto che finge una messinscena per indurre l’ignaro cittadino in tentazione se non l’apoteosi di una giustizia etica? L’orgasmo della forca. Il reato non c’è, ma viene creato appositamente, in laboratorio, al fine di testare la tenuta morale del singolo. I processi non arrivano a sentenza? Davigo e i suoi groupie sognano di farne a meno, cancelliamola pure con un tratto di penna. Sarebbe un favore ai colpevoli, uno schiaffo in faccia alle vittime costrette a un’attesa interminabile. Il garantista – e forse Davigo se ne stupirà – non vuole vivere nel bengodi degli impuniti. La “certezza della pena” – formula abusatissima per giustificare ogni storpiatura inquisitoria – è un pilastro dello stato di diritto. Fu Cesare Beccaria, intorno alla metà del Diciottesimo secolo, a teorizzarne per primo l’essenzialità in un’opera che intendeva essere l’antidoto all’istinto della bava alla bocca, alla ferocia giacobina del cappio e della ruota. Tetra assonanza con il tempo presente. O, se volete, corsi e ricorsi vichiani.