Edmondo Bruti Liberati (foto LaPresse)

La guerra tra Robledo e Bruti Liberati su due modelli di magistratura

Annalisa Chirico

“Palazzo d’ingiustizia”, l’arbitraggio non imparziale di Iacona

I contendenti in campo sono due: l’ex procuratore aggiunto di Milano, Alfredo Robledo, e uno dei padri nobili di Magistratura democratica, già Grande Capo di via Freguglia, Edmondo Bruti Liberati. Il giornalista Riccardo Iacona, autore di “Palazzo d’ingiustizia” (Marsilio), non è arbitro imparziale ma avvertito narratore di uno dei più fragorosi conflitti recenti interni alla corporazione togata. Gli intrighi del potere, questa volta, non investono la politica ma le toghe milanesi, il duello si consuma dapprima tra i corridoi ovattati del Palazzo di giustizia ambrosiano; poi si trasferisce, con il crisma dell’ufficialità, nelle sale di Palazzo de’ marescialli. Al Foglio Robledo confida che il libro gli ha consentito di “trasformare il dolore in testimonianza”; quanto alla silente reazione dei colleghi, la toga con natali partenopei, citando Martin Luther King, lamenta “lo spaventoso silenzio delle persone oneste”.

 

Bruti Liberati, in pensione dopo una carriera lunga quarantacinque anni, mente illuminata di Md, un passato al Csm, già segretario dell’Anm, centellina le parole: “Non mi sono sottratto al confronto con il giornalista che parteggia però per una figura di pm interventista, distante dal modello al quale io mi sono ispirato per una vita intera. Basta scorrere i nomi dei colleghi intervistati. Manca solo Nino Di Matteo…”. Zac. Per la cronaca, i togati interrogati su correntismo e dintorni sono Sebastiano Ardita, Piercamillo Davigo, Nicola Gratteri, Andrea Mirenda e Massimo Vaccari. In effetti, nella contrapposizione tra Robledo e Bruti si fronteggiano due modelli opposti di magistrato: il primo professa il principio assoluto dell’azione penale obbligatoria, pretendendo di agire svincolato da qualunque valutazione extragiudiziaria; il secondo invece è guidato dalla consapevolezza che ogni azione è gravida di conseguenze, pertanto chi è chiamato ad amministrare la legge, in nome del popolo, è investito dal dovere della responsabilità. Robledo taccia il suo capo di allora di aver intralciato il regolare svolgimento dell’attività giudiziaria al fine di insabbiare vicende “politicamente delicate”, indagini e vicende che potevano “far male” alla politica, all’economia e alle istituzioni. Bruti respinge le accuse e, davanti al Csm, evidenzia i buchi neri del lavoro svolto dal suo ex aggiunto, a partire dalle spifferate a favore di Domenico Aiello, avvocato di Roberto Maroni, al quale Robledo avrebbe propalato atti coperti da segreto istruttorio. “Un rapporto di complice confidenza, ma anche il senso di un’utilità corrispettiva da entrambi ricercata, concretizzatasi nello scambio di informazioni”, con queste motivazioni nel maggio 2016 la sezione disciplinare del Csm condanna Robledo alla perdita di sei mesi di anzianità e al trasferimento a Torino.

 

Iacona ripercorre le numerose vicende in cui, a suo giudizio, la giustizia milanese di quegli anni avrebbe deciso di non disturbare troppo. Per esempio, quando Bruti “dimentica” di bloccare l’asta con cui la giunta Pisapia ha deciso di vendere le quote della propria partecipazione nella Sea, società che gestisce gli aeroporti milanesi. Il 25 ottobre 2011 la procura di Firenze invia per competenza a quella di Milano alcune intercettazioni telefoniche sulle presunte interferenze di Vito Gamberale, manager del fondo F2i interessato a quelle quote. La gara è fissata per il 6 dicembre. Ma il fascicolo sparisce, e ricompare solo a tempo scaduto dopo un articolo dell’Espresso. Il procuratore capo ammette di averla dimenticata in cassaforte per due mesi e mezzo. Intanto F2i si aggiudica la gara, offrendo un euro in più sulla base d’asta. “Fu una mia deplorevole dimenticanza – ammette Bruti al Foglio – Avrei potuto dire che stavo studiando il fascicolo, invece ho affermato la verità. Non mi pare tuttavia che quella notizia abbia condotto da qualche parte”. In effetti l’ipotesi di turbativa d’asta finisce su un binario morto, i processi non si costruiscono sui sospetti. Con un epilogo simile si chiudono due inchieste, targate Robledo, su Unicredit e Tim: dopo spezzettamenti e trasferimenti vari, le piste d’indagine sono ritenute non suffragate da sufficienti elementi di prova. E, fuori dai confini di Milano, i fallimenti del pm Robledo non sono certo gli effetti di un ‘complotto’ ordito da Bruti. La vicenda più eclatante però è legata alla piastra di Expo2015. Il consorzio capeggiato dalla Mantovani si aggiudica l’appalto con un ribasso del 42 percento. Bruti assegna il fascicolo a Ilda Boccassini, che insieme a Francesco Greco, suo successore alla guida della procura, considera tra i più fidati collaboratori, e riserva a sé il coordinamento dell’intera area investigativa. Un atteggiamento apprezzato dall’allora premier Matteo Renzi che ringrazia pubblicamente i pm “per aver gestito la vicenda con sensibilità istituzionale”. “Sulla moratoria ho sentito solo chiacchiere – spiega Bruti a Iacona – Oggi si dice che Expo è stata un successo e un volano per la ripresa economica in Italia. Bene, senza quell’impostazione del nostro lavoro tale risultato avrebbe rischiato di non realizzarsi. Se si vuol chiamare questo ‘sensibilità istituzionale’, io sono d’accordo”. Quando lo scontro si sposta a Palazzo de’ marescialli, l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in qualità di vertice del Csm, invia una lettera al vicepresidente Michele Vietti. Con riferimento agli “elementi di disordine e di tensione” nel capoluogo lombardo, il capo dello stato ricorda che il quadro normativo vigente prevede una ‘accentuazione del ruolo del procuratore capo sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti’; a ciò corrisponde la “parziale compressione dell’autonomia dei singoli magistrati dell’ufficio”.

 

Perciò, se Bruti decide di prediligere Boccassini o Greco per specifiche vicende, può farlo, con una “equilibrata elasticità”. Apriti cielo: Marco Travaglio e Antonio Di Pietro si scagliano contro una “tesi da anni Cinquanta”, l’intervento di Napolitano viene stigmatizzato dagli alfieri del “potere diffuso” e dei “pm attivi e coraggiosi”. Sul punto sono illuminanti nel libro le parole di Ardita, procuratore aggiunto di Messina, già relatore alla kermesse grillina di Ivrea: “Più è debole la condizione dei singoli magistrati e aumenta la loro sudditanza alle gerarchie, più la politica può farla da padrone nelle aule di giustizia. Se la lettera che ha presentato Napolitano l’avesse scritta Berlusconi, in Italia sarebbe scoppiata la rivoluzione”.