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Un bonifico di cui Grillo non parla

Claudio Cerasa

Il tribunale di Genova ci dà una notizia: evocare vecchi pagamenti in nero di Grillo è un diritto, non diffamazione. Storia di una causa persa dal capocomico e di una confessione raccolta dai carabinieri. Documenti spassosi per i moralismi grillini

Fascicolo 5397/14, fatti relativi al novembre 2012, atti del 2014, sentenza del 2015, tribunale di Genova. Negli ultimi tempi, lo abbiamo visto, il Movimento 5 stelle ha avuto un certo numero di problemi legati ad alcuni bonifici taroccati dai deputati grillini. La formula la conoscete tutti: i grillini avevano promesso ai propri elettori di restituire una parte cospicua del proprio stipendio da parlamentari a un fondo per le piccole e medie imprese e alcuni grillini hanno ingannato gli elettori presentando nel rendiconto mensile le immagini di bonifici poi revocati un attimo dopo essere stati fotografati. Quello che però gli innocenti elettori grillini non sanno è che nel mondo del M5s c’è un mistero sui bonifici persino più grande rispetto a quello scoperto dalle “Iene”. Un mistero che riguarda non un qualsiasi parlamentare grillino ma direttamente il capo tribù. Proprio lui: Beppe Grillo.

 

Il tema è noto e potremmo sintetizzarlo così: che cosa combinava con i soldi Beppe Grillo quando faceva il comico tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta? E soprattutto: come veniva pagato? Per capire qualcosa di più su questo tema il Foglio ha pescato un documento finora inedito e misteriosamente sfuggito anche ai segugi di alcuni giornali contigui alle procure. Fascicolo 5397/14, fatti relativi al novembre 2012, atti del 2014, sentenza del 2015, tribunale di Genova. La storia è questa. Il 20 novembre del 2012, l’avvocato di Beppe Grillo, Enrico Grillo, nipote del comico, si presenta alla procura di Genova per denunciare Luca Barbareschi per alcune sue dichiarazioni rese su Radiodue il 17 novembre del 2012. Cosa disse Barbareschi? Ecco qui: “Oggi ridevo sentendo Grillo in televisione che diceva che faremo la verifica fiscale a tutti i parlamentari italiani. Io gli risponderei che faremo la verifica fiscale a Grillo, dove ci racconterà tutte le volte che veniva pagato in nero per vent’anni della sua vita… lo sanno tutti… è luogo comune”. L’avvocato di Grillo, leggiamo dal verbale di denuncia ottenuto dal Foglio, chiede alla procura di condannare per diffamazione Barbareschi, in quanto con “l’utilizzo di tale espressione si evidenzia come abbia una connotazione oggettivamente e comunemente recepita in senso negativo anche al di là della sua eventuale anti giuridicità”. L’avvocato ricorda che il tono di Barbareschi è “gratuitamente offensivo” (e si sa come Grillo lotti da una vita per non promuovere la politica degli insulti), ricorda che “il diritto di cronaca e di critica non sono correttamente esercitati laddove le informazioni vengono utilizzate per ricostruzioni o ipotesi giornalistiche autonomamente offensive” (e si sa come Grillo lotti da una vita per non infangare gratuitamente le persone) e in base a questi principi chiede di condannare per diffamazione Luca Barbareschi. La tesi di Grillo è chiara: non si può dire che Grillo abbia ricevuto soldi in nero, è diffamazione. Il 23 aprile 2015 il tribunale di Genova emette la sua sentenza. E la sentenza è potente: il giudice per le indagini preliminari Massimo Cusatti accoglie la richiesta di archiviazione per Luca Barbareschi proposta dal pm Francesco Paolo Cardona Albini. Riconosce che “la considerazione svolta dall’indagato nei confronti del querelante ha un obiettiva capacità lesiva dell’onorabilità dello stesso”, ricorda che per Grillo su questo fronte “non è emerso alcun procedimento amministrativo o giudiziario in relazione alle ipotesi di evasione o frode fiscali” ma ammette e certifica che, “quantomeno sotto il profilo della sussistenza dell’esercizio del diritto di critica”, Barbareschi aveva tutto il diritto di usare quella frase per parlare di Grillo. E il diritto di Barbareschi è legato non solo al sentito dire, non solo alle parole raccolte in passato da alcuni quotidiani (il Secolo XIX e il Giornale), che in due occasioni hanno avuto la possibilità di raccogliere da Raffaello Liguori, gestore del locale “Covo di Nord-Est di S. Margherita Ligure”, dichiarazioni di fuoco sui “pagamenti in nero” delle prestazioni di Grillo. Ma è legato a qualcosa di più. 

  

E’ legato ad alcune dichiarazioni offerte proprio da Liguori agli inquirenti della procura di Genova. Ecco cosa scrive il pm Cardona Albini. Tenetevi forte: “Il Liguori, nei cui confronti non risulta sia mai stata sporta querela, sentito a sommarie informazioni su tali fatti, li confermava integralmente, riferendo di aver pagato in più circostanze, negli anni 80/90, in quattro o cinque serate l’importo dovuto prevalentemente in contanti e senza alcuna fatturazione o ricevuta da parte dell’artista”. Avete capito bene: per la prima volta, il gestore del locale dove Beppe Grillo si esibiva tra il 1980 e il 1990 non rilascia una volatile dichiarazione a un giornale ma rilascia delle dichiarazioni sommarie ai carabinieri della Stazione di Santa Margherita Ligure. Direbbe forse Luigi Di Maio: e che ne sapete voi di che cosa ha detto il dottor Liguori ai carabinieri? Facile: abbiamo letto il verbale. E’ il 21 febbraio del 2015 e Raffaello Liguori parla così di fronte ai carabinieri: “Beppe Grillo in quegli anni non era molto famoso ed io avevo organizzato circa 4/5 serate nei miei locali, sia al Covo di Nord-Est di Santa Margherita Ligure che allo Studio 54 di Milano. Per le serate gli accordi erano che io personalmente pagavo nelle mani del comico Beppe Grillo un assegno di 10 milioni delle vecchie lire e i 60 milioni in nero e in contanti. Ribadisco che tutto ciò avveniva tra me ed il comico direttamente”. Alla luce di queste dichiarazioni il gip di Genova archivia la querela per diffamazione richiesta da Grillo. E lo fa con queste parole: “Alla luce di tali emergenze, pare possibile ritenere che la circostanza già riferita dal Liguori, confermata direttamente dalla fonte della notizia, avuto riguardo alla dimensione pubblica del personaggio ed all’obiettivo interesse che può riconoscersi a tali fatti, anche per le polemiche scatenate in ambito politico dalle rispettive prese di posizione all’interno degli opposti schieramenti sul tema dell’evasione fiscale e delle retribuzioni dei parlamentari, siano tutte circostanze che valgono a riconoscere l’avvenuto esercizio di un diritto di critica da parte dell’indagato, che è stato comunque espresso in modo contingente, essendosi questi limitato al riferimento a circostanze che erano già state rese pubbliche, di obiettiva rilevanza sociale e mai smentite direttamente dall’interessato”. In altre parole, dire che “faremo la verifica fiscale a Grillo, dove ci racconterà tutte le volte che veniva pagato in nero per vent’anni della sua vita… lo sanno tutti… è luogo comune” non costituisce una diffamazione di Beppe Grillo.

 

La dichiarazione di Liguori oggi non ha alcun tipo di effetto perché fatti degli anni Ottanta oggi non hanno alcun rilievo penale. Fossimo in Luigi Di Maio però chiederemmo a un avvocato cosa sarebbe successo se le storie raccontate da Liguori fossero state rese note – e confermate – qualche anno prima. Difficilmente, di fronte a questa domanda, l’avvocato suggerirebbe a Di Maio di intonare il coro grillino: onestà, onestà. Qui, lo sapete, consideriamo ogni accusato innocente fino a prova contraria. Noi possiamo permettercelo. I moralisti grillini forse no.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.