Antonio Di Pietro al congresso di Buenos Aires (foto LaPresse)

In Argentina Di Pietro torna manettaro e celebra Mani pulite con l'alter ego Sergio Moro

Angela Nocioni

L'ex pm invitato a un congresso su giustizia e democrazia insieme al suo fan argentino, titolare dell'inchiesta Lava Jato che coinvolge il presidente Macri

Ma quale autocritica. A sentire quel che dice Antonio Di Pietro quando, nell’Argentina smaniosa di avere presto una Mani pulite locale, è accolto con ovazioni come fosse il Jeeg Robot d’acciaio della giustizia planetaria, non pare proprio abbia dubbi su quanto bene fece quell’inchiesta alla storia d’Italia.

 

Sarà che l’aggettivo più sobrio usato da quelle parti per presentarlo è stato “leggendario”. Sarà che il governo Macri l’ha invitato a dare istruzioni su come evitare il lavaggio di denaro. Fatto sta che Di Pietro ha usato toni da supereroe per spiegare il suo ruolo in Tangentopoli. Invitato a parlare al “Congresso sulla sicurezza giuridica e la lotta contro la povertà e la corruzione” organizzato a Buenos Aires dall’Università di Girona e dal ministero della Giustizia argentino, l’ex pm giovedì ha duettato con il giudice Sergio Moro, il simbolo mediatico dell'inchiesta Lava Jato, la Mani pulite brasiliana che sta terremotando la politica in Brasile.

 

Così Di Pietro ha illustrato agli argentini il recente passato italiano: “L’inchiesta italiana fu fermata per volontà politica. Dall’inizio Mani pulite fu realizzata da magistrati molto più qualificati di me: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. Ma siccome in quel momento il sistema politico e imprenditoriale erano governati da un sistema mafioso, entrambi furono assassinati. Io mi sono occupato di investigare le relazioni tra il sistema politico e quello imprenditoriale al di fuori della mafia. All’inizio pensarono di assassinare anche me, però dopo trovarono un’altra soluzione: delegittimare il mio lavoro. Sono stato accusato di mille abusi nella mia attività come magistrato, al punto che mi sono visto obbligato a rinunciare affinché non continuassero”. E infine la raccomandazione: “Bisogna incoraggiare la figura del pentito, mostrare interesse per ottenere il pentimento, che non è divino, il pentito parla perché cerca un vantaggio”.

 

Musica per le orecchie di Sergio Moro, che ha costruito il suo personale successo sulla “delazione premiata”, così si chiama la collaborazione di giustizia nella lessicalmente onesta legge brasiliana. Prevede per chi si pente la firma di una specie di contratto con gli inquirenti, tanto che molti studi legali si stanno specializzando nel contrattare le clausole della delazione premiata.

 

“Abbiamo bisogno di leggi che ci permettano di dare un premio a chi decide di collaborare, di rivelare un reato in cui è stato coinvolto. E bisogna farlo con attenzione perché ciò ha un prezzo”, ha chiesto Moro. E giù applausi.

 

Moro è un fan di Di Pietro. Nel 2004, ben prima di cominciare la sua inchiesta in Brasile, scrisse nella rivista giuridica “Sej” un saggio-manifesto. “Considerazioni sull'operazione Mani Pulite”. Lì si spertica in elogi verso la figura del collaboratore di giustizia, l’uso della prigione preventiva e la diffusione dei passi dell’inchiesta attraverso giornali e tv.

 

Questo il suo teorema su Tangentopoli, applicato poi alla lettera nella Lava Jato: “La carcerazione (preventiva), le delazioni (premiate) e la pubblicità (giornalistica) data alle informazioni ottenute generarono un circolo virtuoso e lì risiede l’unica spiegazione possibile della grandezza di risultati ottenuti dalla Operazione Mani pulite”. Si esalta Moro per “la delegittimazione della classe politica che dette impeto alle inchieste sulla corruzione e al rinnovamento della magistratura” e per “l’immagine positiva dei giudici nell’opinione pubblica”. In Brasile, in attesa delle presidenziali del 2018, fioccano sondaggi in cui si testa il gradimento popolare di Sergio Moro come presidente: chi voterebbe a un eventuale ballottaggio tra Lula da Silva e il magistrato? Da notare che l’ex presidente Lula da Silva, dato (almeno fino al giorno della sentenza di primo grado) come vincitore del primo turno alle presidenziali con il 30 per cento dei consensi da tutti i sondaggi, è stato condannato a nove anni e mezzo dal giudice di prima istanza Sergio Moro.