Alfredo Romeo (Foto La Presse)

Romeo e il tic del giustizialismo: se non vieni condannato, l'hai fatta franca

Claudio Cerasa

Scarcerati, innocenti o assolti poco importa. Per il processo mediatico sono tutti sospetti

La disattenzione pressoché generale mostrata dai grandi mezzi di informazione di massa sul caso di Alfredo Romeo – e in particolare sul caso dei centosessantotto giorni passati in custodia cautelare dall’imprenditore napoletano per ragioni incomprensibili e non giustificabili, come ha ammesso due giorni fa il Tribunale del riesame di Roma che ha annullato definitivamente l’ordinanza di carcerazione – ci potrebbe permettere di affrontare un numero immenso di questioni legate al cattivo funzionamento della giustizia, a cominciare, per esempio, dall’indifferenza assoluta esplicitata da gran parte della nostra opinione pubblica rispetto a un grande dramma italiano come l’abuso della carcerazione preventiva, i cui dati mostruosi (il 33 per cento dei detenuti, in Italia, si trova in attesa di giudizio) sembrano ormai scandalizzare in una misura inferiore rispetto alla notizia di un delfino morto per “eccesso di coccole”. Ma la ragione vera per cui i giorni passati ingiustamente in carcere da Alfredo Romeo non hanno scatenato alcun tipo di emozione o di reazione è legata a una questione più complessa sintetizzabile nel raggio di una domanda cruciale: che cos’è un’ingiustizia?

 

Il vocabolario della Treccani definisce un’ingiustizia “un atto ingiusto, non conforme cioè a giustizia, o che comunque costituisce una violazione, deliberata o no, del diritto altrui”, ma nell’Italia dominata dall’egemonia delle verità alternative l’ingiustizia sembra essere diventata qualcosa di diverso, di più complesso e di più arbitrario, che potremmo facilmente definire così: un qualsiasi atto non conforme alla realtà costruita all’interno del perimetro del processo mediatico. Se si osserva dunque il caso Romeo seguendo questa logica, si capirà bene perché ogni decisione disallineata alla tesi messa in campo dal magistrato che rappresenta l’accusa, chiunque egli sia, finisce per essere sempre percepita come una decisione in un certo modo ingiusta. Sei stato in carcere per molti giorni sulla base di accuse fragili e non dimostrate e dopo 168 giorni un giudice decide di annullare la tua ordinanza di arresto? Dubbi non ce ne sono: in un mondo dominato dalle logiche del processo mediatico, l’ingiustamente arrestato che finisce in libertà non è un indagato che ha subìto una grave ingiustizia, ma è un indagato che ancora una volta, come sempre capita ai “potenti”, l’ha fatta franca. E in base allo stesso criterio, un’indagine archiviata su un potente non sarà mai solo un’indagine archiviata, ma sarà sempre il frutto di un qualcosa di losco grazie al quale il potente sarà riuscito a farla franca. La potenza di fuoco messa in campo dai professionisti del processo mediatico – che sono gli unici veri poteri forti di cui si dimenticano costantemente di parlare tutti i giornalisti specializzati nel denunciare la forza dei poteri forti del nostro paese – contribuisce a considerare falsa qualsiasi ipotesi venga formulata in alternativa alla dottrina delle procure e grazie a questo sistema perverso chiunque tenti di mettere in discussione le tesi dei magistrati viene generalmente considerato, e descritto come, un complice del farabutto di turno: un innocentista, non un garantista. La facilità con cui i cavalieri del circo mediatico appiccicano il bollino dell’infamia a tutti coloro che osano mettere in discussione le ipotesi di accusa – sommata all’incapacità di una buona parte della stampa italiana a formulare critiche contro gli stessi pm da cui dipendono i destini dei giornalisti che si abbeverano quotidianamente ai propri personali pusher di carte giudiziarie – ha una ragione esplicita e una conseguenza implicita.

 

La ragione esplicita parte dall’assunto che i potenti, essendo potenti, in un modo o in un altro riusciranno a farla franca e tanto vale allora fargliela pagare marchiandoli a vita con una delle pene previste dal processo mediatico: il sospetto, a vita, che abbiano fatto qualcosa che prima o poi emergerà. Ma dall’altra parte la timidezza con cui il circo mediatico italiano combatte le post verità costruite nell’ambito del processo mediatico ha un impatto devastante sul nostro sistema giudiziario, contribuendo ad alimentare quotidianamente il senso di ingiustizia e contribuendo a considerare quotidianamente un teorema di una procura infinitamente più importante dei fatti a supporto di quello stesso teorema. Il caso Romeo, così come altri casi, dimostra dunque un concetto semplice: che i veri nemici della giustizia giusta sono coloro che non sanno capire la differenza tra un sistema giudiziario equilibrato, dove le tesi della difesa hanno una legittimità pari alle tesi dell’accusa, e un sistema caratterizzato da una giustizia fai da te – dove le ingiustizie vere finiscono sempre in un boxino a pagina venti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.