Una scena di "In nome del popolo italiano" di Dino Risi

Il Tognazzi di "In nome del popolo italiano" e la comica letale del "paese normale"

Guido Vitiello

L'obbligatorietà dell'azione penale e il prologo dei nostri guai. L'essenziale per capire l'Italia e il caso Consip era già tutto nel film di Dino Risi del 1971

In un paese normale… Esiste preambolo più inavvertitamente comico, in Italia? E ancor più comico è chi riesce a servirsene senz’ombra di ironia, senza sentire nelle orecchie l’eco della propria voce che gli fa il verso. In un paese normale: come suona buffo! Il duello a colpi di hashtag #inunpaesenormale tra Luigi Di Maio e i lettori di Repubblica, dopo la notizia sull’incontro Salvini-Casaleggio, avrebbe dovuto illuminare anche i ciechi sul fatto che “paese normale” è in Italia una locuzione swiftiana, da utopia satirica, e che tanto varrebbe cominciare i discorsi citando Lilliput o Brobdingnag. Io per esempio mi mordo la lingua quando mi vien da dire che in un paese normale non si parlerebbe d’altro che del caso Consip, e che tutti, dalle massime autorità istituzionali in giù, maggioranza e opposizioni, giornali amici e nemici del governo, sarebbero impegnati a far luce sulle vie dell’eversione mediatico-giudiziaria, sulla manipolazione delle prove, sui depistaggi, sui passaggi orchestrati di informazioni, su come tutto questo si tiene e fa sistema; ma d’altronde nel leggendario Paese Normale questa luce la si sarebbe cercata, e pretesa, già venticinque anni fa, nel fatale 1992. “Un paese nel quale capita un fenomeno come Tangentopoli e non si fa un’indagine per capire che cosa è successo”, mi disse una volta uno straniero in patria, Giuseppe Di Federico, “che razza di paese è?”.

 

Non è un paese normale, appunto. E allora invece di inseguire questo miraggio, invece di affaticarsi a issare l’essere in cima al dover essere per poi vederselo rotolare addosso, condannandosi a diventare figure involontariamente comiche, meglio imboccare la via della comicità volontaria. C’è chi ha scritto che il caso Consip è roba da thriller fantapolitico, ma questa citazione di un genere per lo più americano mi pare l’ennesimo sintomo di un fenomeno preoccupante: l’oblio della commedia in Italia. Perché l’essenziale era già tutto in un film di Dino Risi del 1971, “In nome del popolo italiano”. C’era un giudice istruttore, Ugo Tognazzi, così persuaso della propria missione che era pronto a distruggere la prova che avrebbe scagionato il suo nemico antropologico, un industriale cialtrone, corrotto e inquinatore interpretato da Vittorio Gassman. Il nostro Massimo Bordin, ai tempi del Riformista, notò che il film di Risi racconta, con vent’anni di anticipo, “come Tangentopoli abbia prodotto in politica il fenomeno Berlusconi, che somiglia a quel Gassman, e in magistratura la cultura di pubblici ministeri che somigliano a quel Tognazzi”.

 

Certo, il giudice compiva deliberatamente un delitto, stracciava la legge in nome di un’investitura ideologica superiore, e fare di un criminale un caso esemplare potrà apparire una scelta malevola. Ma i classici bisogna saperli vedere e rivedere, ci trovi sempre qualcosa. E così, settimane fa, un amico avvocato mi ha fatto notare un dettaglio all’inizio del film che mi era sfuggito. Il magistrato si alza dal letto, ancora in pigiama raccoglie i fascicoli dalla scrivania e se li porta in bagno. Di cosa occuparsi oggi? Vediamo un po’, villette abusive a Tor Caldara, tratta di domestiche dal Madagascar… No, scegliamo il delitto di Silvana L., che sembra più appassionante. Un arbitrio ordinario e distratto: il prologo del film è dunque la grande ipocrisia dell’obbligatorietà dell’azione penale. E’ anche il prologo di tutte le vicende italiane da Mani pulite al caso Consip, delle indagini condotte bene come delle indagini condotte male.

 

In un paese normale, sarebbe al centro del dibattito da un quarto di secolo. Ma nel nostro mondo alla rovescia l’unico a farne il centro di un’ostinata predicazione politica improntata al più elementare buon senso pragmatico era il matto del villaggio, un digiunatore con la coda di cavallo che fumava mille sigarette.

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