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Brutte storie di carcere: se la vita vale meno del poliuretano

Ermes Antonucci

Materassi infiammabili e fumi letali che non dovrebbero esserci da decenni. Invece no. Tra appalti, Dap e inchieste

Roma. Poco più di 28 anni fa, il 3 giugno 1989, undici donne (nove detenute e due agenti di custodia) morirono in un incendio divampato nella sezione femminile del carcere Le Vallette di Torino. Morirono in pochi minuti, stordite e soffocate dalle esalazioni letali rilasciate dal rogo di trecento materassi di poliuretano accatastati sotto un portico, appena arrivati per sostituire quelli vecchi utilizzati nelle celle. La perizia tecnica redatta nel corso del processo che seguì la strage evidenziò il pericolo mortale dell’utilizzo di questo materiale (resina poliuretanica espansa) all’interno delle carceri, ricostruendo l’intera dinamica che aveva trasformato la sezione femminile dell’istituto penitenziario torinese in una grande camera a gas: i materassi coinvolti nell’incendio avevano alimentato il rogo, facendo sviluppare fiamme ancora più intense, e avevano rilasciato fumi altamente tossici contenenti acido cianidrico e acido cloridrico. “In presenza di queste condizioni – scrissero i periti – la morte sopraggiunge nel giro di pochi minuti”.

 

Undici vittime sembrano non essere bastate. A distanza di quasi trent’anni dalla strage, infatti, si scopre che il poliuretano viene ancora utilizzato, in silenzio, nelle carceri italiane. Non solo: a richiederne l’utilizzo alle aziende che si occupano di ristrutturare le varie sezioni, i padiglioni e i sistemi di sicurezza delle carceri è proprio il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) istituito nell’ambito del ministero della Giustizia. Cioè lo stato.

 

A denunciarlo, carte alla mano, è Egeo Marsilii, abruzzese di 80 anni, definito “il signore delle sbarre” per aver guidato per decenni l’azienda leader nella fornitura di sistemi di sicurezza (sbarre, porte, serrature, chiavi) alle case circondariali italiane. Da nord a sud, dal carcere di Trieste all’aula bunker di Palermo, la Marsilii srl ha fornito chiavi in mano servizi anti-evasione ritenuti insuperabili, grazie alle innovazioni introdotte nel campo, come nel caso delle serrature Custos – fiore all’occhiello della ditta – richieste in tutta Europa.

 

Un impero giunto al capolinea quando Marsilii ha cominciato a denunciare le presunte irregolarità di alcuni appalti affidati dal Dap nell’ambito del piano carceri del 2010 da 675 milioni di euro. Non una voce isolata, visto che nel 2013 il magistrato Alfonso Sabella, ex direttore generale delle risorse del Dap ha deciso di presentare un esposto da 60 pagine per denunciare sprechi e anomalie, e che anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha voluto segnalare ai magistrati illeciti nei lavori effettuati in alcune carceri, aprendo anche un’inchiesta interna. I rilievi hanno spinto la procura di Roma a indagare e ad annunciare nel giugno 2014 l’iscrizione nel registro degli indagati del prefetto Angelo Sinesio, allora commissario straordinario per il Piano carceri, e di sei funzionari del Dap, con l’accusa di aver falsificato le carte per affidare gli appalti per i lavori nelle carceri sempre alle stesse ditte, guidate da familiari di funzionari del Dap stesso.

 

E’ in questo ambito che si colloca la denuncia di Marsilii sull’uso di poliuretano negli istituti penitenziari. Le carte dimostrano che è lo stesso Dap a richiedere nei capitolati degli appalti la fornitura di porte di sicurezza fabbricate con l’iniezione di “schiuma poliuretanica” al loro interno. Un modo per abbattere i costi rispetto alle porte di sicurezza tradizionalmente fabbricate con l’uso di lana minerale (materiale che, a differenza del poliuretano, è ignifugo e non fa propagare il fuoco), a danno però della salute, e potenzialmente della vita, dei detenuti e degli agenti penitenziari: “Basterebbe che un detenuto desse fuoco a un po’ di carta e la accostasse alle sbarre della propria cella per scatenare un incendio altamente tossico, in grado di uccidere decine di persone in pochi minuti, insomma per vivere un’altra strage come le Vallette”, spiega Marsilii, che non ha mai accettato di sottostare a questo “gioco” al ribasso.

 

Per comprendere appieno il pericolo basta considerare la frequenza con cui le cronache ci segnalano incendi nelle carceri italiane. Il 20 maggio un detenuto del carcere di Ivrea ha dato fuoco al materasso della propria cella usando il fornellino in dotazione. L’intera sezione è stata invasa dal fumo e un poliziotto penitenziario, benché fosse da solo, ha salvato il giovane che si era rinchiuso nel bagno e che era semi-svenuto. Poi è stata la volta del carcere minorile Beccaria di Milano, del carcere di Pesaro (dove un gruppo di detenuti ha appiccato per protesta un incendio nella propria cella), poi del carcere di Pisa e alcuni giorni fa, il 18 giugno, del carcere di Poggioreale, dove un detenuto in stato confusionale ha incendiato il materasso e tutte le suppellettili presenti nella cella, intossicando tutta la popolazione detenuta e il personale di polizia penitenziaria. Un quadro aggravato dall’arrivo della calura estiva, quest’anno peraltro particolarmente forte.

 

I progetti di ristrutturazione richiesti dall’amministrazione penitenziaria che prevedono esplicitamente l’uso di schiuma poliuretanica, giunti all’attenzione di Marsilii, riguardano lavori compiuti nel corso degli ultimi dieci anni nella Seconda sezione detentiva e nel nuovo padiglione del carcere romano di Rebibbia, nelle case circondariali di Frosinone, Sulmona e Carinola (Caserta) e nel nuovo padiglione del carcere di Modena. Ma il dubbio, inquietante, è che i casi siano molti di più.

 

Il Dap, interpellato del caso, non ha fornito risposte.


 

In riferimento all'articolo del 30 giugno "Brutte storie di carcere...", il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria precisa quanto segue.
L'uso di coibenti poliuretanici negli infissi adottati negli istituti penitenziari ​non risulta avere dato problemi di funzionalità, neanche sotto il profilo della prevenzione di incendi. Il confinamento di tali materiali in volumi ristretti e chiusi dagli involucri metallici (ad esempio gli sportelli delle finestre o i pannelli tamburati delle ante delle porte) di fatto, in sostanziale assenza o carenza di ossigeno comburente, non ne consente o ne abbatte l'infiammabilità. Nel settore della prevenzione incendi vengono utilizzate schiume poliuretaniche ignifughe ad alta resistenza (REI 240) per la sigillatura manuale di fonometrie per passaggio tubazioni o altri tipi di vuoti, onde impedire il passaggio di calore, fumi e fiamme. Dunque il rischio paventato non sembra essere sostenuto dalle esperienze maturate negli istituti penitenziari.​
Ufficio Stampa DAP
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