Marco Prato (immagine Facebook)

Addio Marco Prato, non sapremo mai se eri colpevole o innocente

Annalisa Chirico

Da oggi c’è un imputato in meno. Il processo nel quale lui confidava, si ferma qui. Ma il suo è un suicidio annunciato

Suicidio annunciato. Nel silenzio metallico di una cella si è tolto la vita un detenuto in attesa di giudizio, un compagno di università, un amico. Nella penuria di parole resta lo sgomento implacabile per una morte che si poteva evitare. Già in passato Marco Prato aveva manifestato istinti suicidari, la vita gli stava scomoda, come accade a certe anime votate purtroppo al funambolismo esistenziale. Solitudini insuperabili, sete di trasgressione. Sentirsi a disagio con la vita, intrappolato da una sensibilità che ti rende diverso dalle ombre che ti sfiorano, senza toccarti. Non sapremo mai se Marco Prato fosse colpevole o innocente: da oggi c’è un imputato in meno. Il processo nel quale lui confidava, me lo aveva scritto dal carcere, “voglio le udienze e le prove, riuscirò a dimostrare che io non sono un mostro, so di non aver impedito la morte di Luca ma non l’ho ucciso io”, si ferma qui. Il 23enne Luca Varani, brutalmente seviziato fino alla morte, non tornerà in vita. Mentre Marco se n’è andato, e l’immagine di lui steso sulla brandina, con un sacchetto di plastica e una bomboletta di gas, spezza il fiato.

 

Marco era preda di una disperazione nera, prigioniero del senso di impotenza di fronte all’offensiva mediatica che lo aveva crocifisso nel ruolo di “assassino” anzitempo, che aveva sbandierato come lugubre scoop la sieropositività scoperta dietro le sbarre. Marco pretendeva il processo nell’aula di tribunale, non sulla pubblica piazza. “A volte si dimentica che dietro un nome c’è una persona reale, in carne e ossa”. mi aveva detto pochi mesi fa. “Pure i condannati meritano rispetto, figuriamoci un imputato come me”. A differenza di Manuel Foffo, condannato in primo grado a 30 anni con il rito abbreviato per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà, Marco attendeva il dibattimento ordinario, leggeva ogni carta, inondava di domande gli avvocati, era convinto di poter ricostruire l’esatta dinamica di quella notte maledetta quando nell’appartamento di Foffo al Collatino un festino a base di alcol e droga si è tramutato nella scena degli orrori. Con un ragazzo inerme, colpito un centinaio di volte fino all’epilogo.

 

Marco era convinto di poter dimostrare che lui, pur presente sul luogo del delitto, non aveva ucciso Luca. “Ricordo quasi tutto di quella sera”, mi aveva scritto dalla prigione di Velletri. “Io non ho ucciso Luca, non sono stato io a colpirlo con il martello e con i coltelli. La verità è che non ho avuto il coraggio di fermare Manuel, ero succube della sua personalità”. All’indomani dell’assassinio si era rifugiato in un albergo di piazza Bologna, zona dei nostri aperitivi universitari, per anestetizzare il dolore con un mix di psicofarmaci. Voleva togliersi la vita, lo aveva confidato a me così come ai magistrati, ed è per questo che risulta incomprensibile la decisione di tenerlo in una cella come un detenuto ordinario, senza una sorveglianza a vista, giorno e notte. “Nessuna sorpresa per un suicidio per molti versi annunciato”, ha commentato il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. “Al di là di rassicurazioni informali e generiche, nessuna delle autorità responsabili ha voluto recedere dalla posizione presa, nonostante l’indicazione dell’inadeguatezza della collocazione a Velletri e del rischio suicidario ancora esistente”.

 

Non sapremo mai se Marco dicesse la verità o meno, se fosse innocente o colpevole, soltanto il processo ci avrebbe restituito una verità giudiziaria. Viviamo tra i fantasmi di noi e di quello che crediamo di essere. E lui, da giovane di belle speranze della Roma bene, colto e poliglotta, un po’ tarchiatello e a rischio calvizie, si era trasformato in un pr della movida capitolina, muscoloso e bello, crocevia di incontri più o meno raccomandabili, organizzatore di aperitivi gay domenicali e sfrenate notti chemsex. “Se osservati al microscopio o dietro il buco della serratura – mi aveva scritto – tutti noi abbiamo un lato oscuro più o meno morale, più o meno accettabile, il mio è semplicemente venuto a galla”. Marco era convinto che non esistessero perversioni ma soltanto “versioni differenti di umanità”. “Sì, mi drogavo ma non tanto. Sì, facevo sesso ma come un qualsiasi trentenne. Le richieste estreme, le più bizzarre, provenivano dagli uomini di cui mi circondavo, me le tiravano fuori, ho subìto volontariamente tanta violenza per assecondare maschi eterosessuali di cui ero invaghito e che mi facevano sentire femminile”. Immaginando il proprio congedo da questa terra, aveva confessato di desiderare un funerale laico e festoso sulle note di ‘Ciao amore ciao’ della sua adorata Dalida. “Guardare ogni giorno se piove o c’è il sole, per sapere se domani si vive o si muore. E un bel giorno dire basta e andare via”.   

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