Il pubblico ministero Woodcock (foto LaPresse)

Contro la gogna la soluzione c'è: smettere di pubblicare intercettazioni

Claudio Cerasa

La gogna si combatte non trasformando i giornali nella buca delle lettere delle procure. Perché il Foglio non pubblica intercettazioni

E se bastasse semplicemente chiudere il rubinetto? A due giorni dallo “scoop” del Fatto quotidiano – relativo alla pubblicazione di un’intercettazione (a) penalmente irrilevante diffusa (b) in modo probabilmente illegale e (c) registrata con modalità sospette dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico i quali, come ricordato ieri su Repubblica da Carlo Bonini, hanno appuntato le conversazioni tra Tiziano Renzi e Matteo Renzi nonostante il piccolo dettaglio che il reato per cui è indagato Tiziano non consenta l’utilizzo delle intercettazioni – il dato sconvolgente che emerge dalle cronache e dalle pagine dei giornali è che tutti sembrano essersi rassegnati al fatto che il mondo non possa che andare così e che in sostanza non ci sia nulla da fare per ricoprire la fogna dalla quale ogni giorno emergono schizzi di fango e puzza di gogna.

Sappiamo tutti come andrà a finire la storia della telefonata tra Matteo Renzi e Tiziano Renzi e in fondo il copione è una prassi perfettamente consolidata. Un giornalista riceve miracolosamente da un carabiniere o dalla cancelleria di una procura o da un altro qualsiasi San Gennaro giudiziario un’intercettazione considerata penalmente irrilevante dal magistrato che si occupa di quell’inchiesta. L’intercettazione, invece che essere infilata nel gabinetto, viene trascritta, conservata e allungata a un giornalista. Il giornalista, in nome della libertà di stampa e del dovere di cronaca, of course, accetta, a schiena dritta, di diventare la buca delle lettere dei professionisti del pizzino giudiziario e dà alle stampe quella notizia (“lo scoop”) sapendo però che pubblicare quella notizia costituisce reato, come previsto dall’articolo 326 del codice penale (rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio). Il giornalista, di solito, se la cava pagando un’oblazione (anche se per un’intercettazione non presente negli atti giudiziari la questione potrebbe essere molto più complicata) e il san Gennaro delle procure, di solito, se la cava sempre perché, in nome del principio canis canem non est, raramente un magistrato punisce chi lavora in altre procure. Tutto questo ormai è prassi. E’ prassi accettare la distruzione della vita degli altri attraverso la diffusione di intercettazioni irrilevanti. E’ prassi vedere partiti che in nome dell’onestà (tà-tà) costruiscono battaglie politiche sulla base di intercettazioni diffuse in modo probabilmente illegale. E’ prassi rassegnarsi al fatto che il giorno dopo la diffusione di intercettazioni che non dovrebbero essere diffuse si discuta del contenuto di quelle intercettazioni e si rinunci a discutere dell’orrore che fa la repubblica della gogna. Tutto questo, come detto, è prassi. Così come è prassi rassegnarsi al fatto che ogni volta che compare su un giornale (di solito è sempre lo stesso) un’intercettazione che “incastra” un potente paradossalmente si allontana la possibilità che venga approvata (o persino discussa (Giorgio Napolitano lo sa bene e anche per questo ieri si è indignato) una legge che possa regolare il meccanismo con cui vengono rese pubbliche le intercettazioni (l’ultima volta che un governo provò a metterci mano, 2007, una procura, con tempismo certamente casuale, indagò la moglie del ministro della Giustizia, e contribuì, in modo certamente casuale, a far cadere quel governo). Alla fine di questo ragionamento si potrebbe pensare, persino giustamente, che l’unica soluzione possibile per evitare di vomitare ogni giorno nell’Italia della melma sia quella di tapparsi il naso e convivere in modo più o meno sereno con quelle che sono le conseguenze della gogna.

 

Si potrebbe fare così e continuare a restare immobili di fronte alle balle di chi spaccia per libertà di stampa quella che in realtà è una semplice libertà di sputtanamento e augurarsi che un giorno un qualche governo modifichi la legge sulle intercettazioni. Oppure si potrebbe fare così e seguire semplicemente quello che ci permettiamo di definire il lodo Foglio: chiudere il rubinetto. Chiudere il rubinetto, al contrario di quello che potrebbe pensare Roberto Saviano e la Repubblica dei post-it, non significa imbavagliare l’informazione: tutte scemenze. Significa rifiutarsi di trasformare il giornalismo giudiziario in una grande buca delle lettere delle veline delle procure (lo ha riconosciuto persino il neo presidente dell’Anm, Eugenio Albamonte, che proprio su questo giornale ha denunciato la proliferazione di “un giornalismo di inchiesta che non può limitarsi a essere il copia incolla di quello che dice un magistrato o un giudice”).

 

Significa rifiutarsi di partecipare ogni giorno a una grande caccia alle streghe contro l’intercettato di turno. Significa rispettare i princìpi base di un paese democratico ed evitare così che la proliferazione della cultura del sospetto trasformi il nostro paese in una dittatura giudiziaria. Significa capire che quando c’è un’intercettazione che non dovrebbe essere pubblicata non si sta violando solo la privacy di una persona intercettata, ma si sta giocando con i princìpi di uno stato di diritto. Per fare tutto questo non serve una legge (al massimo serve rispettare la legge che già c’è non chiudendo gli occhi quando una procura gioca con la vita degli altri) ma serve solo un po’ di buona volontà. Basterebbe fare quello che da oggi in poi farà sempre il Foglio anche se un domani un san Gennaro di una procura dovesse offrirci una telefonata tra Matteo Messina Denaro e Luigi Di Maio: non pubblicare le intercettazioni durante le indagini preliminari e aspettare quantomeno il dibattimento per capire quali prove (e quali intercettazioni) sono risultate essere solide e quali invece no. Il mercato dell’indignazione, si sa, è un mercato la cui domanda è sempre in crescita e quando c’è la domanda è sempre complicato rivedere l’offerta. Ma se, come si dice, la volontà di pubblicare intercettazioni coincide con la volontà di ricercare la verità (e non di ricercare un modo spiccio per sputtanare qualcuno) non ci sarebbe nulla di male ad aspettare qualche mese prima di capire se ciò che si ha in mano è fuffa o è una prova che ha superato l’esame di un giudice. Permetterebbe di capire meglio se ciò che si ha in mano è una notizia, “uno scoop”, o se ciò che si ha in mano è solo un’operazione frutto di una sapiente manipolazione organizzata solo per distruggere la credibilità altrui. E permetterebbe di capire meglio chi spaccia per libertà di informazione la libertà di sputtanare il prossimo. Costerebbe qualche copia di giornale, e qualche punto di audience, ma ci guadagnerebbe la democrazia. Noi per quanto ci riguarda, anche in presenza di una chat tra Matteo Messina Denaro e Luigi Di Maio, nel nostro piccolo faremo sempre così. Chi ci sta?

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.