Eugenio Albamonte (foto LaPresse)

Il capo dell'Anm contro i pm pavoni

Claudio Cerasa

“Il processo mediatico è un dramma. Un magistrato che si candida in un partito è un’anomalia. I giornalisti non devono essere i copia e incolla delle procure”. Tosta chiacchierata con Albamonte, successore di Davigo alla guida dell’Anm

Roma. “Lo dico senza problemi e senza nascondermi perché penso sia giusto mettere le cose in chiaro e provare a fare un po’ di chiarezza su quello che sta succedendo anche nel nostro mondo: in Italia abbiamo un mostro chiamato processo mediatico e credo sia giusto che si lavori seriamente per sgonfiare questa bolla pericolosa, che complica i processi, danneggia gli indagati e fa male anche alla credibilità della magistratura, e dunque a noi”. Abbiamo passato un’ora a chiacchierare con Eugenio Albamonte, classe 1967, successore di Piercamillo Davigo alla guida dell’Associazione nazionale dei magistrati italiani, e abbiamo scelto di farlo per far dialogare tra loro due posizioni diverse: quella di chi considera l’affermazione di una repubblica giudiziaria un grande dramma del nostro paese e quella di chi invece considera un dramma del nostro paese l’affermazione di una cultura che alimenta l’ostilità nei confronti della magistratura. Con Albamonte ci siamo confrontati su molti temi di attualità: dal caso Consip, a Trani, passando per la prescrizione, la corruzione, la politicizzazione della magistratura, l’eredità di tangentopoli. Ma la chicca sorprendente offerta dal nuovo capo dell’Anm arriva alla fine della nostra conversazione quando dopo molte sportellate – “Direttore, ma ci sta facendo un processo!” – Albamonte, veneziano, in magistratura dal ‘95, specializzato in indagini su crimini informatici e cyberterrorismo, da otto anni alla procura di Roma, appartenente al gruppo di Area, il cartello delle toghe di sinistra di Magistratura Democratica e Movimento per la giustizia – affronta un tema che i lettori di questo giornale conoscono a memoria: la barbarie del processo mediatico. E alle parole che avete letto tra virgolette all’inizio di questo articolo ne vanno aggiunte delle altre, non meno importanti. Cominciamo da qui.

 

Presidente, cosa si può fare per smetterla di alimentare questo mostro culturale che porta a considerare tutti colpevoli fino a sentenza definitiva? “Non mi nascondo. Esiste questo problema. E personalmente, come magistrato e come presidente dell’Anm, mi sembra giusto e corretto fare una riflessione seria su questo punto. Da una parte non c’è dubbio che i magistrati devono pensare di lavorare non per finire sui giornali ma per ottenere risultati nel dibattimento. Ma dall’altra parte bisogna dire che spesso il processo mediatico non è alimentato da chi si occupa del processo ma da chi si occupa del sistema mediatico e forse sarebbe il caso di concentrarsi qui”. Cosa intende presidente? Non ci vorrà mica dire che la difficoltà con cui l’opinione pubblica maneggia la presunzione di innocenza è legata esclusivamente a come si raccontano le indagini?

 

“Io penso che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sia perfettamente consapevole che un magistrato che si comporta in modo non istituzionale danneggia tutta la nostra categoria. Ma allo stesso tempo credo sia giusto far notare che se le indagini vengono trasformate in condanne definitive la responsabilità è di chi usa le inchieste per costruire battaglie politiche. Le indagini non sono e non possono mai essere delle condanne e se un’inchiesta non ancora arrivata al dibattimento ha delle conseguenze politiche il problema è di chi stressa la dialettica tra istituzioni. Di chi strumentalizza le inchieste non di chi le fa”. Non vorrà mica dire che per i magistrati è un problema avere una stampa che spesso si limita a essere la buca delle lettere delle veline delle procure. “Non capisco bene a cosa si riferisce”, dice con un sorriso Albamonte, “ma le posso dire che da magistrato, prima ancora che da lettore, noto che c’è un problema con i giornali e in particolare con il giornalismo di inchiesta. Il giornalismo di inchiesta, e spero che nessuno si offenda, non può limitarsi a essere il copia incolla di quello che dice un magistrato o un giudice. I magistrati che vogliono far rispettare la legge, e non affermare una propria verità, hanno bisogno del check and balance dei giornali e hanno bisogno anche di giornali che offrano spunti di riflessione e perché no anche piste da seguire. Purtroppo questo capita sempre di meno ed è fenomeno che credo sia giusto denunciare e mettere a fuoco”. 

 

Ci vuole dire, presidente, che i magistrati rispettano alla lettera le norme relative all’obbligatorietà dell’azione penale e non scelgono mai le inchieste sulla base di ciò che li può rendere più famosi? “La sua è una provocazione che non posso accettare ma anche se volessi accettarla le direi che il problema non è l’obbligatorietà dell’azione penale: è il modo in cui un magistrato si muove quando gli capita di avere a che fare con un’inchiesta dall’alto profilo mediatico. I magistrati che si comportano in modo sobrio mi piacciono. I pavoni no”. Arriviamo all’attualità, presidente. Che cosa ha pensato quando ha visto che una procura della repubblica, quella di Roma, ha accusato un reparto dell’arma che lavora a stretto contatto con un’altra procura della repubblica, quella di Napoli, di aver manipolato una prova chiave di un’indagine importante? “Sul caso Consip non ho molto da dire e non vorrei avventurarmi in scenari complicati. La considerazione che mi viene in mente è che forse ora qualcuno la smetterà di dire che il pubblico ministero è il Torquemada dell’indagato e che lavora solo per metterlo sulla graticola. Qui, invece, grazie alla procura di Roma ci troviamo di fronte a un impegno di scrupolo che non è comune”.
Presidente, è proprio questo il problema: uno scrupolo che non è comune. Se l’indagato, Tiziano Renzi, non fosse stato il padre dell’ex presidente del Consiglio siamo sicuri che il check and balance avrebbe funzionato? “Avrebbe funzionato. Se il collega non avesse avuto la saggezza di andare a rivedere quell’intercettazione, tutto si sarebbe chiarito nel momento della consegna delle intercettazioni integrali ai difensori, che le avrebbero potute far ascoltare ai loro tecnici e sarebbero arrivati ugualmente alle medesime considerazioni”. E’ proprio sicuro che sia tutto normale? Che tutto funzioni perfettamente? “Non parlo delle singole procure, mi spiace”. E allora, ci consenta, ci può dire almeno se è normale un paese che trasforma in prove definitive le intercettazioni di un indagato? “Anche qui il problema non sono le intercettazioni, ma il modo in cui vengono utilizzate e strumentalizzate. E’ inutile prendersi in giro: nell’attività giudiziaria di oggi, senza intercettazioni molti reati non sarebbero dimostrabili e francamente non vedo alcun abuso da parte della magistratura”. E non è un abuso inserire nei fascicoli giudiziari nomi di persone terze, non indagate, che si ritrovano sputtanate senza essere neppure accusate di aver commesso un fatto?
“Questo è un discorso diverso e la risposta è sì, è un problema ed è un fatto grave che la privacy di persone estranee alle indagini venga messa a dura prova. Posso dire però che una parte dei procuratori d’Italia, a partire da Roma, ha scelto di affrontare il problema. Ma questo problema non si risolverà mai del tutto se il legislatore non troverà un modo per aiutare le procure a combattere davvero le fughe di notizie. Prima dell’udienza filtro, a mio parere, le intercettazioni non dovrebbero uscire da una procura. E per fare questo, meno persone hanno accesso alle carte più sarà facile capire ed eventualmente sanzionare chi tende a giocare con quelle intercettazioni che non dovrebbero né uscire da una procura né finire sui giornali”. Presidente, 25 anni fa, il 6 aprile del 1992, vi furono delle elezioni politiche importanti, significative e duramente condizionate da un’inchiesta che ha cambiato (a nostro giudizio in peggio) la storia d’Italia. Furono le ultime elezioni della Prima repubblica. Lei ai tempi di Tangentopoli aveva esattamente 25 anni. Concorda con noi che è stato in quel momento che si è innescata una pericolosa sovrapposizione nel nostro paese tra mondo della politica e mondo della magistratura?

 


Eugenio Albamonte con Edoardo Cilenti (foto LaPresse)


  

“Ho un approccio laico rispetto a quegli anni. Posso dire che la magistratura arrivò a quell’appuntamento in un quadro tutto da ricordare: aveva a disposizione un nuovo codice di procedura penale ed era nella pienezza dei poteri sia dal punto di vista dell’indipendenza sia dal punto di vista degli strumenti da adottare per attaccare la criminalità. Ho vissuto quella fase in maniera sobria, non da militante, e l’appunto che mi sento di fare oggi è che sì, nel 1992 c’è stato un cortocircuito”. In che senso? “Nel senso che la politica ha dato alla magistratura un potere enorme e la magistratura si è presa quel potere. Una parte del ceto politico anziché assumere su di se la guida morale del paese lo ha trasferito alla magistratura e credo che sia stato quello il vero errore, non l’inchiesta che ha aiutato il nostro paese a scoperchiare un sistema criminale”.

 

L’eredità di Tangentopoli

 

Il metodo di Tangentopoli, a venticinque anni di distanza, è un metodo replicabile, da cui prendere esempio? “Di quel metodo c’è molto che condivido ma c’è anche una cosa che credo sia alla radice dei problemi che esistono oggi in una parte della magistratura. Era sbagliata, nel 1992, l’idea che si stesse riscrivendo la storia del paese. I magistrati devono e possono trattare solo vicende specifiche: indagati e fatti. La pretesa di riscrivere la storia di un pezzo del paese è una pretesa velleitaria che non spetta a noi. Poi: quanto questo sia stato voluto dalla magistratura e quanto questo sia stata una conseguenza di quel momento storico non lo so. Fatto sta che invece dei fatti in alcuni casi si è finiti per approcciare fenomeni. E questo è sbagliato. Vale per ieri, vale per oggi”.

 

E’ questa la ragione per cui la categoria dei magistrati oggi non è più così popolare come all’epoca? “Io penso che la categoria dei magistrati abbia il dovere di sentirsi un’eccellenza del nostro paese ma da capo dell’Anm non posso che registrare che la percezione negativa esiste ed è giusto farci i conti. Come si risolve? Come si riacquista credibilità? Rimanendo ancorati ai fatti. Rinunciando alle pretese di generalizzazione”. E forse, insistiamo, andando anche un po’ meno in televisione? “Non nego che a volte ci sia un eccesso di sovraesposizione. Bisogna avere la capacità di scegliere le giuste sedi in cui un pm o un giudice può dare il suo contributo. Il magistrato non deve solo essere terzo ma deve anche apparire tale”. E non pensa che un singolo magistrato che si butta in politica sia un danno enorme per la magistratura? Il suo predecessore diceva che i magistrati non devono entrare in politica perché non sono capaci di fare politica. Lo pensa anche lei? “Io penso che insieme agli avvocati e professori di diritto i magistrati hanno avuto un ruolo importante nella formazione delle leggi di questo paese. Abbiamo una competenza tecnica che non vale la pena perdere e le posso assicurare che senza i magistrati spesso i legislatori avrebbero problemi a scrivere le leggi in modo corretto. Dopo di che, certo, ci sono modi e modi di fare politica. C’è la possibilità di concorrere per le cariche elettive alla Camera e al Senato. E poi c’è la possibilità di concorrere alla politica locale. Sul secondo punto, sinceramente, vedo il rischio di una opacizzazione dell’immagine del magistrato: il fatto di avere a che fare con spese, bilanci, modifiche di piani regolatori può creare ambiguità e non capisco i magistrati che si candidano a fare i sindaci o i governatori di regione. Sul primo punto, invece, fissando i giusti paletti, credo non ci sia nulla di male. Ho ripescato un vecchio discorso di Aldo Moro, bellissimo, in cui si sottolineava la differenza, per un magistrato, tra la partecipazione a un partito politico e l’iscrizione alle assemblee parlamentari. Il partito, diceva Moro, ha un vincolo gerarchico; quello che dice un segretario è legge, e un magistrato iscritto a un partito deve fare quello che chiede il segretario. L’incarico di parlamentare è invece diverso: la Costituzione prevede il divieto di vincolo di mandato e quindi il parlamentare ha una funzione diversa ed è a tutti gli effetti un soggetto libero”.

 

Ci vuole dire per caso qualcosa sul fatto che l’Italia festeggi i 25 anni di Tangentopoli con la presenza di un magistrato che si candida a guidare il più grande partito d’Italia? “Devo dire che questo è un fatto inedito, anomalo. E’ una cosa grave che crea un cortocircuito. Noi abbiamo una norma che prevede tassativamente il divieto di iscrizione di un magistrato a un partito politico e a meno che un partito non preveda che il proprio leader sia un non iscritto il divieto di iscrizione a partiti politici dovrebbe essere tassativo”.

 

Corte Costituzionale, sentenza 17/07/2009 numero 224: “E’ la Costituzione stessa che consente al legislatore ordinario di introdurre a tutela e salvaguardia dell’imparzialità e dell’indipendenza dell'ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati…”. E’ il caso di Michele Emiliano, anche se il presidente dell’Anm non vuole fare nomi. Insistiamo: cosa bisogna fare per creare i giusti paletti in entrata e in uscita per un magistrato che vuole fare politica? “Non si può vietare a un magistrato di fare politica. Non lo dico io, lo dice un procedimento della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: il fatto di aver fatto esperienza politica parlamentare non costituisce di per sé causa di ricusazione né causa di sospetto di imparzialità, anche perché in Italia le sentenze sono motivate e si può capire se c’è una forzatura, un’interpretazione sbilanciata. Se seguiamo l’idea che il magistrato non possa essere un cittadino come gli altri, un magistrato non potrebbe neppure iscriversi a un circolo di bocciofila. Arriveremmo al paradosso che dovrebbe essere sganciato da tutto”. Dovrebbe essere un asceta, presidente. “Dovrebbe essere un cittadino come gli altri, con gli stessi diritti”. Provocazione: ma il problema della magistratura è rappresentato, più che dai magistrati che si affacciano alla vita politica e capiscono che quella è la loro vocazione, da quelli che fanno politica mentre stanno nella magistratura? “Sì, concordo. Andrebbe contrastata la partecipazione occulta, silente, opaca piuttosto che quella palese. Francamente, l’idea dell’intellettuale organico a un partito può andare bene per un avvocato, per un professore universitario, ma non per un magistrato. Per questo, dicevo che è importante ci siano paletti ben fissati sul terreno. Noi daremo a breve un parere su un ddl appena approvato sulla partecipazione dei magistrati in politica. Dobbiamo studiarla ancora ma a uno studio iniziale credo che vada apprezzato. Perché mette chiarezza a una serie di punti che anche noi stessi avevamo detto che andavano chiariti. I paletti sono alla distanza giusta e permettono a tutti noi di mantenere la dignità professionale sia in entrata sia in uscita, senza mortificazioni per nessuno”. Presidente, ma il magistrato davvero può essere considerato una persona come le altre? E non pensa che la politicizzazione della magistratura contribuisca a creare una delegittimazione della categoria? “A cosa si riferisce?”. Non si rende conto che le correnti della magistratura sono l’ indizio di un fatto potenzialmente grave? Ovvero che i magistrati trasferiscono le loro idee nell’approccio a un’indagine? “Il magistrato è una persona come le altre. Nel suo lavoro mette la sua cultura personale e le sue passioni, ovvio. Ma la politicizzazione della magistratura è una sciocchezza. Il magistrato fa rispettare le leggi e fa della Costituzione il suo punto di riferimento. Stop”. Ma quando la difesa della Costituzione diventa una battaglia politica, come la mettiamo? “La difesa della Costituzione non è mai politica. E’ la difesa di un principio. E’ la difesa della democrazia”. E quando un magistrato, penso a Ingroia, si butta in politica con un partito che si ispira alla resistenza costituzionale? “E’ un magistrato che sbaglia, e Ingroia ha sbagliato”.

 

Presidente, ancora due domande. Prima: il suo predecessore sosteneva che la prescrizione deve essere allungata. Noi diciamo che l’Italia non ha un problema di processi troppo corti, ma di processi troppo lunghi. Lei che ne pensa? “Noi siamo le prime vittime delle lungaggini dei processi. Lavori e non sai che fine farà quel lavoro lì. Non solo. Sai che gran parte della delegittimazione della giustizia dipende da quello. Se noi potessimo fare i processi nei tempi di oggi, saremo contenti. Ma la magistratura non ha soldi e forze per essere più veloce, e aumentare i tempi di prescrizione credo sia inevitabile”. Ma l’Italia è davvero un paese corrotto, allo sfascio, una anomalia nell’Europa? “E’ difficile per chi sta in mezzo ai fenomeni dargli una dimensione in termini di grandezza. Quanto sia estesa la corruzione è complicato dirlo. E dare un giudizio indiscriminato di corruzione o di potenziale corruzione a un’intera classe politica non è giusto”. Insistiamo: ma l’Italia è un paese più corrotto degli altri o no? “Non ci sono unità di misura, non è possibile dirlo. Direi di no. Almeno a me non risulta ci siano dei metri per poterla misurare. Il magistrato deve contribuire a far rispettare la legge, non delegittimare il paese in cui vive”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.