All'assalto del sistema

Giovanni Fiandaca

Negli atti giudiziari si parla poco di reati specifici e sempre più di modelli criminali. Così i pm si illudono di difendere la democrazia a colpi di crociate

Dalla lettura di atti giudiziari (o di loro riassunti giornalistici) relativi a vicende di corruzione emerge – non siamo certo i primi a notarlo – un lessico magistratuale sempre più incline a parlare, più che di reati specifici, di sistemi o modelli criminali. Poiché la scelta delle parole non è casuale né innocente, vale forse la pena interrogarsi sulle possibili ragioni e implicazioni di questo ormai invalso uso linguistico.

 

Una prima ragione, di evidenza intuitiva, può essere questa. Pubblici ministeri e giudici cioè ritengono che quantomeno nei casi più rilevanti (grandi appalti, grandi commesse pubbliche ecc.) la corruzione, lungi dal manifestarsi in forma di reati singoli, sia un fenomeno tendenzialmente sistemico: come tale, per un verso, destinato a ripetersi nel tempo e, per altro verso, nascente dalla interazione tra più soggetti operanti sia con ruoli e a livelli diversi, sia in fasi temporali differenti. Sicché, vista così, la corruzione implicherebbe una struttura organizzativa non già eventuale, ma necessaria: cioè un sistema o una rete di relazioni interpersonali tra imprenditori, uomini politici, pubblici funzionari, intermediari cosiddetti facilitatori di contatti o trafficanti d’influenze, lobbisti ecc. (con l’aggiunta, nei casi più allarmanti, di eventuali criminali organizzati e di esponenti di servizi segreti più o meno deviati). Insomma, si tratta di quella concezione sistemica della corruzione che tende a configurarla quale fenomeno tipicamente figlio di alleanze politico-criminali-affaristiche; alleanze che a venticinque anni di distanza da Mani pulite, anziché in regressione, sarebbero addirittura in crescita anche a causa del far west subentrato al crollo del sistema politico-partitico tradizionale.

 

Orbene, v’è però innanzitutto da chiedersi: questa concezione sistemica presuppone, a sua volta, l’idea che esista un megasistema unitario della corruzione, una sorta di unica cabina di regia o, piuttosto, che si abbia a che fare con un insieme di sistemi criminali distinti per tipologie di affari, che possono operare in autonomia o – a seconda dei casi – in maniera collegata? Anche se le analisi giudiziarie non forniscono indicazioni esplicite in proposito, sembra più plausibile che si propenda implicitamente per la tesi pluralistica, indubbiamente più realistica. In secondo luogo, v’è da domandarsi se l’enfasi posta sul “sistema” criminale rappresenti davvero il risultato di rigorose e approfondite verifiche probatorie effettivamente compiute nell’ambito di numerosi processi a opera di magistrati di uffici giudiziari diversi – o nasca, invece, da una iniziale “precomprensione” sociologica utile quale ipotesi di lavoro per l’attività investigativa da sviluppare, ma ancora ben lontana dal poter acquisire il rango di verità giudiziaria assodata. In effetti, che non si tratti in tutti i casi di verità processualmente acquisita è confermato dal fatto che spesso l’accento sul sistema criminale cade già in fase di indagini preliminari, come dimostrano anche vicende assai recenti e ancora al centro dell’attenzione mediatica: ad esempio, nel caso dell’ipotizzata corruzione connessa agli appalti Consip, il gip di Roma ha ritenuto di non revocare la carcerazione preventiva dell’imprenditore Alfredo Romeo, facendo leva – come riportato dagli organi di stampa – sulla ritenuta pericolosità del sistema o modello criminale creato da questo imprenditore, che sarebbe cioè basato – secondo il giudice – sulla corruzione di pubblici ufficiali e sull’utilizzo di “facilitatori” politici. Ma è sicuro che si possa già parlare di vero e proprio sistema criminale, e non di attività di lobbying o di intermediazione pur sospettabile di voler eventualmente tentare di corrompere? Da studioso di diritto ancora legato a certi princìpi teorici, preferirei che i magistrati non indulgessero al vezzo sociologico di evocare sistemi criminali specie all’inizio di un’indagine, ma ne parlassero semmai a processo ultimato e dopo aver emesso una eventuale sentenza di condanna.

 

Dico “semmai” perché, come si può forse intuire, sempre da studioso penso (e non sono certo il solo a pensarlo) che la magistratura non possa ambire a contrastare sistemi o fenomeni criminali di ampia portata, ma abbia il compito – più confacente alle competenze che la Costituzione le assegna e più realisticamente compatibile con i suoi specifici poteri di intervento – di perseguire e reprimere singoli reati di corruzione, isolati o frequenti e diffusi che siano: e la corruzione, nelle diverse forme legali in cui è punita nell’ordinamento vigente, non è affatto un reato sistemico nel senso di indefettibilmente legato a cordate politico-criminali-affaristiche: la presenza di una struttura criminale organizzata, potenzialmente integrante un aggiuntivo reato di associazione per delinquere, è infatti una eventualità ulteriore che va autonomamente provata. Partire invece sempre dal pregiudizio che corruzione equivalga comunque a sistema criminale, significherebbe in realtà pretendere di anteporre un preliminare concetto socio-criminologico di corruzione dato a priori per scontato al corrispondente concetto legale. A ben vedere, questa preferenza per la diagnosi sociologica, piuttosto che per la fedeltà alla fattispecie normativa, potrebbe essere proprio la spia di una propensione a leggere gli episodi corruttivi secondo un’ottica pregiudiziale di tipo drammatizzante: secondo una visione a tinte fosche, cioè, che bene si sposa per l’appunto con quella concezione ideologica di fondo, oggi di fatto diffusa in larga parte della magistratura a dispetto della sua inaccettabilità in termini di principio, che assegna alla giustizia penale la duplice missione da un lato di muovere guerra ai poteri criminali (mafiosi, politico-amministrativi o politico-terroristici ecc.) e, dall’altro, di promuovere la moralizzazione pubblica e il rinnovamento politico. Infatti il magistrato che si autoinveste del ruolo di combattere non singoli atti corruttivi ma il sistema-corruzione, è anche il magistrato che percepisce se stesso come un difensore sistemico – passi il bisticcio – dell’intero sistema democratico. Che si tratti poi di illusione o realtà, è altro discorso.

Di più su questi argomenti: