Quando Fausto Coppi conquistò il mondo

Era il 30 agosto 1953, il giorno nel quale l'Airone a Lugano riuscì a vincere i Mondiali di ciclismo. Un racconto tratto da Alfabeto Fausto Coppi

Giovanni Battistuzzi

Il 30 agosto 1953 Fausto Coppi conquistò a Lugano i Campionati del mondo di ciclismo. Era l'ultima grande corsa che gli rimaneva da vincere in carriera.

 

Questo racconto (Iride) è tratto da "Alfabeto Fausto Coppi", il libro di Giovanni Battistuzzi e Gino Cervi (Ediciclo editore), che attraverso novantanove storie e una canzone racconta il Campionissimo.

 


 

Lugano, 30 agosto 1953

 

Quando toccò il tessuto di quella maglia, quella che sul petto portava i colori dell’iride, quella che gli mancava, che sentiva essere sua senza averla ancora mai indossata, si sentì stranamente leggero. Certo, era vero che una così l’aveva già stretta, se l’era già messa sulla pelle, ma non era la stessa cosa. Era un vessillo da riserva, da poter sfoggiare unicamente in luoghi recintati, su anelli di cemento o legno, lontano dalle strade di tutti i giorni.

 

Quella no, quella era diversa, una maglia lunga un anno, grande il mondo intero. Sentì le gambe rarefarsi, diventare aria. E tutto il vociare che aveva accanto silenziarsi piano piano, la gente che aveva attorno allontanarsi, diventare solo una macchia di colore mentre lui si alzava da quel palchetto nella tribuna.

 

Si sentì sollevare sopra tutto, sopra i palazzi della città, verso il cielo di Lugano. Là sotto la Svizzera diventava piccola e gli appariva per quello che era: un rincorrersi di valli tra le Alpi. L’Europa si schiacciava, le distanze si facevano brevi, mentre l’orizzonte diventava una curva che abbracciava pianure e montagne e mari e oceani e ancora pianure e ancora montagne, sino a diventare una biglia immersa nel nero del cosmo. La poteva toccare, osservarne la semplice complessità. Gli venne voglia di colpirla con l’indice, come aveva visto fare ai bambini al mare, come aveva fatto lui da bambino chissà quante volte, ma con i tappi. Lassù, mentre ai suoi piedi formicolava il solito trantran, si sentì libero, non mancante di niente, in pace con se stesso e con il mondo.

 

Chiuse gli occhi. Sorrise. Che altro poteva fare?

 

Quando li riaprì vide un mare di gente riversata in quella strada sulla quale era passato venti volte, le ultime due da solo. Occhi puntati su di lui, mani che lo applaudivano, erano lì, esattamente dove aveva alzato un pugno al cielo. E chissà perché l’aveva fatto. Proprio lui che al traguardo arrivava sempre talmente sfinito per aver dato tutto che solo l’idea di fare un movimento inutile gli sembrava una sciocca bestemmia. Quel giorno però gli era venuto naturale, come se la gioia che aveva dentro non potesse rimanere inespressa, dovesse per forza essere condivisa con chi lo guardava da bordo strada, con chi aveva addirittura pagato qualche franco per sedersi in tribuna. Ce l’aveva fatta. Era campione del mondo. Cosa altro poteva chiedere a se stesso?

 

Rimase con un sorrisetto inebetito a capire se era reale quanto stava accadendo, se era tutto vero. E neppure la visione di Giulia, al suo fianco sul palco delle premiazioni, lo disturbò. Le aveva detto di starsene in disparte, che la discrezione, la capacità di non apparire è quanto di più apprezzato in quel mondo. Che un altro scandaletto fotografico, come quello che
era venuto fuori a luglio al Tour de France, era meglio evitarlo. Lei, invece, si era messa in bella mostra e a lui non interessò più di tanto. Dio solo sapeva quanto aveva aspettato questo momento. Dio solo sapeva quanto aveva penato per arrivare lassù, in cima al mondo.

 

Un’estate intera a correre poco e ad allenarsi tanto, a rifiutare ingaggi nei velodromi che sarebbero bastati per riempire una stanza di soldi, a rinunciare a questo e a quello. Per poi rischiare di farsi sorprendere da Ferdi Kübler, affannarsi come un dannato per riprenderlo, affannarsi ancora di più per staccarlo e ritrovarsi quel belga, quel Germain Derijcke, attaccato alla ruota come una sanguisuga. Ma alla fine si era sbarazzato pure di quello, non poteva fare altrimenti. Non poteva deludere chi si era accollato un viaggio infinito pur di vederlo. Gli avevano detto che al confine con l’Italia c’erano chilometri di coda in entrata in Svizzera. Che ben dodici treni speciali erano partiti da Milano. E uno pure da Roma. Pensava esagerassero, ma quando pedalò sullo strappo della Crespera, capì che non erano balle: c’era tutta l’Italia lì. Un monte di dialetti che conosceva bene. 

 

Un monte di paisà.

 

Volle dedicare a loro lo scatto, l’ebbrezza della solitudine al comando. 

 

E una volta al traguardo si gettò tra le braccia enormi del Biasu, che quel giorno piangeva come un bambino. Proprio il Biasu, che non aveva mai visto piangere. “Bravo Fausto. Bravo. Ce l’hai fatta. Il mondo è tuo”.

 


 

Fausto Coppi partecipò a nove Mondiali su strada. Fu terzo nella rassegna iridata di Copenaghen 1949, vinse il suo primo e unico alloro nel 1953 a Lugano. Su pista conquistò due successi nell’Inseguimento individuale, nel 1947 e nel 1949.

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