Pantani, 20 anni dopo

Pantani e la lezione dello Zar

Giovanni Battistuzzi

Era il 3 giugno 1998 quando sull'Alpe di Pampeago Pavel Tonkov batteva il Pirata all'arrivo della 18esima tappa e ipotecava il Giro d'Italia. O almeno così sembrava

"Tamburi lontani / annuncian Pantani". C'era scritto su di un lenzuolone a un chilometro e mezzo dal traguardo dell'Alpe di Pampeago e quando il Pirata si palesò fu un boato. E anche lui aveva annunciato che ci sarebbe stato, che avrebbe attaccato. L'aveva fatto a parole che era mattina, l'aveva fatto a gesti che era appena iniziata la salita: aveva preso il cappellino, l'aveva gettato via, il segno che l'attacco era imminente. Era davanti a tutti, sui pedali, vestito di rosa, quel rosa che voleva portare sino a Milano, ma che fatica con quell'altro, il russo, che non si staccava di un metro. E sì che aveva accelerato almeno dieci volte, ma non se lo era levato di dosso. Marco Pantani ogni tanto si girava, guardava Pavel Tonkov, si rimetteva a guardare verso il cielo, verso quella striscia d'asfalto che chilometro dopo chilometro si inerpicava sempre più verticalmente sulla montagna. E ogni volta era uno sbuffo, quasi a dire "ancora li? quand'è che ti stacchi?". Non lo faceva il russo. Anzi, ogni tanto lo sorpassava, si metteva davanti e faceva l'andatura. Perché dietro c'erano Alex Zülle e Giuseppe Guerini che inseguivano e pure Nicola Miceli saliva forte quel giorno e non era mica tanto distante. Quindi avanti, pedalare che intanto non ci facciamo riprendere e poi pensiamo a chi vince.

 

Pantani pensava che quel russo lì era un vero cagnaccio da fatica, che più i chilometri passavano e più andava forte. Il giorno prima si era staccato, quel giorno invece non aveva neppure preso in considerazione di perdere la ruota giusta, la sua.

 

Tonkov pensava che quel romagnolo lì era un vero cagnaccio da fatica, che più i chilometri passavano e più andava forte. S'era fatto oltre quaranta chilometri in fuga ieri e oggi aveva le gambe ancora per salire così, forte, fortissimo.

 

"Quant'è bella la vita / quando c'è la salita". Un altro lezuolone, un altro boato. Pantani e Tonkov pedalavano più forte che potevano ed era un ritmo che si equivaleva e pensavano che la salita era bella per loro, che se ne stavano con una birra in mano a guardar faticare gli altri. Bella un corno la vita in salita. E accelerava Pantani e rispondeva Tonkov. E più indietro Zülle faticava e neppure Guerini se la passava tanto tanto meglio.

 

"C'è tutta la Romagna sulla tua sella". Il terzo lezuolone, l'ennesimo boato. Poche centinaia di metri al traguardo e Pantani che malediva tutti quelli che si erano messi sulla sella della bicicletta, perché lo rallentavano e il russo avanzava e lui non riusciva a stargli dietro. Uno, due, tre, dieci metri, quelli giusti per passare primo sotto il traguardo, quelli sufficienti anche per risedersi sul sellino, alzare le braccia al cielo, festeggiare come si confà per una gran vittoria.

 

 

"Non mi avete mai preso in considerazione in questo Giro, ma io ci sono. E non mi fermerò più", aveva detto il russo a tappa finita. E alle 17 di quel 3 giugno 1998 solo 27 secondi lo separavano dal primo posto. C'era davvero il russo e avrebbe dato anche l'anima pur di non lasciare la ruota del Pirata il giorno dopo. Lo sapeva bene che a Plan di Montecampione era l'ultima occasione per Pantani, l'unica per poter guadagnare qualcosa da difendere nella cronometro del penultimo giorno. "Se Pantani scatta io gli vado dietro. Ora so che Zülle in salita può pagare e voglio arrivare alla crono di Lugano con un buon vantaggio; un minuto e mezzo, almeno". E ancora: "Cosa fare lo so io, ma non vi dico nulla. Sarebbe come giocare ai cavalli sapendo prima come puntare".

 

Guerrigliero era Tonkov. Enigmatico Pantani. "Oggi così, domani chissà". E poi: "Quando si sale non si può mai sapere che cosa può accadere. In montagna si è come su di un filo a picco sul vuoto, un minimo errore e si cade giù. Io di cadere non ho voglia, ma magari giù dal filo cade qualcun altro".

 


 

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