L'arte della Parigi-Roubaix. Crupelandt e il Velodrome di Metzinger

Giovanni Battistuzzi

Nel 1912 l'Inferno del Nord fu conquistato dall'unico ciclista di Roubaix a riuscire nell'impresa. Tra la folla c'era anche un pittore di Nantes che vide lo spazio scomporsi e appiattirsi, il tempo dilatarsi, diventare dinamico

C'era un uomo dai vestiti eleganti e dai modi raffinati che vagava per le campagne francesi. C'era un altro uomo che elegante non lo era mai stato e trascinava il suo corpo enorme senza grazia per quegli stessi luoghi. Il primo era in viaggio, uno dei tanti che faceva, il secondo no, quei luoghi erano casa sua da sempre, sebbene anche lui viaggiasse parecchio, ma in carrozze di terza classe. Entrambi avevano con loro i ferri del mestiere: tele e pennelli, qualche taccuino, per il primo, una bicicletta e un tascapane, per il secondo. Quel giorno a Roubaix si incrociarono senza sapere che i loro destini si sarebbero intrecciati per sempre, nonostante tra loro non ci sarebbe mai stato un incontro, un saluto, una cena o chissà cos'altro. D'altra parte Jean Metzinger era il rampollo artista di una ricca famiglia della Loira, Charles Crupelandt l'erede di un passato di stenti e schiene piegate su telai per tessere sacchi e vestiti di canapa.

 

Due mondi diversi che si sfiorarono il 7 aprile 1912 al Velodromo del parco Barbieux al termine della Parigi-Roubaix. Il pittore era sceso da una carrozza e sedeva in tribuna con un bicchiere di vino in mano, mentre il corridore si avvicinava pedalando.

  

Voleva arrivare da solo, aveva accelerato chissà quante volte sul pavé pur di staccarsi tutti di torno, ma Gustave Garrigou non aveva perso un metro. Anzi. Finite le pietre, aveva sfruttato una sua disattenzione e se ne era andato solo. Crupelandt aveva inseguito l'avanguardista, con l'altro suo compaesano Maurice Leturgie, e l'avevano ripreso a pochi metri dall'ingresso del velodromo mentre centomila persone incitavano i due corridori di casa. Centomila persone che si azzittirono quando un gruppetto di altri quattro uomini entrò a velocità tripla nell'ovale. Charles Deruyter davanti, lanciato a mille per riprendere i primi, Octave Lapize a ruota, pronto a cogliere il quarto successo consecutivo nella corsa. In quel silenzio Garrigou accelerò per evitare il rientro del grande nemico Lapize, Crupelandt gli prese la ruota e lo superò a un passo dall'arrivo. Fu un tripudio di urla e applausi, di cori e fiori lanciati in pista, un tripudio per l'uomo di casa, il primo corridore di Roubaix a vincere la Parigi-Roubaix. Ancora oggi l'unico corridore di Roubaix a vincere nell'Inferno del Nord.

 

Crupelandt rimase in silenzio a guardare gli spalti, incredulo, mentre Metzinger posava il bicchiere e su un quadernino disegnava qualcosa. Qualcosa che prese forma nei mesi successivi su una tela di 130,4 centimetri per 97,1. Lo chiamò Au velodrome o forse Le cycliste, anche se Peggy Guggenheim lo ha sempre chiamato At the Cycle-Race Track da quando lo acquistò nel 1945. Il quadro è esposto a Venezia nella Peggy Guggenheim Collection a Dorsoduro.

 

Metzinger, vedendo Crupelandt arrivare, vide lo spazio scomporsi e appiattirsi, il tempo dilatarsi, diventare dinamico. Il velodromo diventa una moltitudine di prospettive, di tempo simultaneo, soprattutto il primo quadro di carattere ciclistico dell'arte moderna, una testimonianza della nuova passione della cultura popolare francese: lo sport, o meglio, il ciclismo. Perché Metzinger in bici ci sapeva andare e andava anche forte, ma con quel gusto aristocratico per lo sport, fatto di prove massacranti e assoluto disinteresse per il professionismo e per l'economicità del gesto. Ore e ore in bicicletta, come quando partì da Nantes per finire dieci giorni dopo a Marsiglia, giusto in tempo per vedere, il 13 luglio, Octave Lapize conquistare l'ottava tappa del Tour de France, la sua ultima vittoria prima di imbracciare la cloche di un aereo da guerra e perdere la vita al fronte tre anni dopo, il 14 luglio 1917.