Il reato di omicidio stradale non renderà le strade più sicure: serve ripensare la mobilità

Giovanni Battistuzzi
Nel fine settimana in Italia cinque ciclisti hanno perso la vita e altri sette sono rimasti feriti. Perché l'introduzione di un nuovo reato non cambierà le cose. Servono meno regole e più responsabilizzazione degli automobilisti. Il paradosso di Mordeman: meno segnaletica e meno distinzioni tra spazi per auto e spazi per pedoni diminuisce gli incidenti.

Nell'ordine: un ciclista ucciso e uno ferito in provincia di Lecce dopo che un automobilista ha investito un gruppo di cicloamatori in seguito a un litigio; sei corridori della Giant-Alpecin, formazione professionista del WorldTour – la serie A del ciclismo mondiale – a terra dopo che sono stati investi da un auto in contromano vicino a Calpe, in Spagna; due ciclisti urbani morti e un ferito a Torino, tutti investiti da automobilisti che come una litania sostenevano di "non averli visti"; un ciclista è rimasto sull'asfalto a Parma, uno a Pordenone; e poi due feriti a Como, urtati e finiti stesi sulla strada, uno a Milano, uno a Napoli, uno a Prato: sempre per lo stesso motivo; infine Claudio Clarindo, ciclista brasiliano esperto in gare di endurance, investito da una macchina in Brasile, assieme a un compagno di squadra che ha subito la rottura del femore. Tutto questo nell'ultimo fine settimana.

 

Weekend nero per i ciclisti, hanno titolato diversi quotidiani che hanno riportato le singole notizie. Peccato che non sia un caso isolato di un fine settimana particolare, è l'esasperazione di una normalità, di un andazzo generale che negli ultimi anni ha fatto aumentare continuamente il numero di decessi: 249 nel 2014, più 8,8 per cento rispetto al 2013, un numero cresciuto ancora nel 2015 – sebbene manchino i dati ufficiali, l'Aci stima un aumento di oltre il 7 per cento. Stesso discorso per i pedoni: 578 morti nel 2014, ossia più 4,9 per cento rispetto l'anno precedente, con segno più anche per il 2015 secondo le stesse stime. Un incremento spiegabile non solo con l'aumento delle biciclette in strada, salita al 6 per cento tra i mezzi utilizzati in Italia nel 2014 – cinque anni fa era al 2,4 per cento –, ma anche e soprattutto con una diffusa ignoranza degli automobilisti rispetto alle normali pratiche di guida sicura e al rispetto delle regole del codice della strada.

 

Dati in controtendenza rispetto a quello relativo al numero totale di incidenti automobilistici: 177.031 incidenti con lesioni a persona, meno 2,5 per cento rispetto al 2013, 251.147 feriti, meno 2,7 per cento, e 3.381 decessi, meno 0,6 per cento. Un calo che rispecchia il calo del numero di spostamenti in automobile in Italia negli ultime tre anni. Dati comunque alti rispetto alla media europea: se nell'Unione europea muoiono una media di 51,4 persone ogni milione di abitanti, in Italia ce ne sono 56,2.

 

Per ovviare a questo il governo Renzi sta cercando di introdurre nel codice penale il reato di omicidio stradale e quello per lesioni personali stradali: da due a sette anni per chi provoca la morte di una persona guidando, da cinque a dieci anni per chi è in "stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psicofisica" sino a un tasso alcolemico di 0,8 grammi per litro, dagli otto ai dodici per chi supera l'1,5.

 

Una proposta che si avvicina alle pene adottate dai paesi del nord Europa: in Olanda, in caso di guidatore ubriaco o drogato al momento dell'incidente mortale, si arriva a 9 anni di reclusione; in Danimarca il codice penale prevedeva un massimo di 8 anni; In Inghilterra in caso di uccisione per guida pericolosa si rischia sino a 14 anni, la perdita definitiva del diritto di guidare e l'arresto senza mandato; e norme simili ci sono pure in Francia, Spagna e Germania.

 

[**Video_box_2**]Ma non è questo il punto. Perché sebbene il reato di omicidio stradale sia ampiamente diffuso in tutta Europa non è mai stato decisivo né per la diminuzione degli incidenti mortali, né per quella relativa al numero di decessi di ciclisti o pedoni. A far cambiare le cose, specialmente nei centri cittadini, è il numero di macchine in circolazioni. Hans Morderman, ingegnere civile e urbanista, che nei primi anni 2000 fu incaricato di ridisegnare la mobilità e l'arredamento urbano di Oudehaske e di altri tre paesi olandesi, disse già nel 2005 che "il sistema di punizione utilizzato dalla maggioranza dei paesi europei è completamente inutile per sistemare i disagi del traffico e la pericolosità delle strade". Quello che è necessario per l'urbanista olandese "è la consapevolezza di cosa si fa in strada e questa accresce alla diminuzione delle regole e dei segnali". Una strada senza segnaletica, senza barriere esterne, che si innesta direttamente nel tessuto urbano cittadino è paradossalmente più sicura per i pedoni e i ciclisti perché impone l'automatica diminuzione della velocità e l'aumento della concentrazione.

 

Un modello adottato con successo anche in altri paesi, dalla Danimarca, alla Germania, dalla Spagna alla Svezia, sino ad alcuni quartieri di Londra. Norrkopping in Svezia, 83 mila abitanti, è un caso emblematico. Da quando in gran parte della città sono stati introdotti spazi condivisi tra auto, biciclette e pedoni gli incidenti sono diminuiti del 75 per cento, le morti del 92 per cento.

 

E' a questo che dovrebbero ambire i nostri legislatori, un reato in più può diminuire i problemi per qualche tempo, ma non risolve la questione. Serve un intervento che vada a introdurre modifiche consistenti nella gestione complessiva della mobilità urbana, politiche che vadano a disincentivare l'uso entro i confini cittadini dell'automobile, un rafforzamento dei mezzi pubblici e un'aumento delle zone pedonali nei centri storici. Bisogna seguire il modello Londra, non aumentare pene e reati.

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