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Arrestati a Lucca i dirigenti di un team dilettantistico, ma non c'è solo doping nel cielo del ciclismo italiano

Giovanni Battistuzzi

L'indagine è partita in seguito alla morte, avvenuta il 2 maggio 2017, del 21enne Linas Rumsas. Il ritorno del grande spettro, i motivi per non dubitare, ancora una volta, di questo sport 

Polizia, arresti, farmaci vietati e quello spettro che torna, che avvolge ancora uno sport che sembra non riuscire a fare i conti con un passato che è un macigno fatto di anni di sospetti, di inchieste, di paure che tutto fosse un bluff, che tutto fosse irrimediabilmente compromesso. All'alba la polizia di Lucca ha eseguito diverse perquisizioni in tutta la Toscana, ha tratto in arresto il proprietario di un team ciclistico, l'ex direttore sportivo e un farmacista. L'accusa è la solita: doping, anzi incoraggiamento all'assunzione di sostanze proibite e cessione di farmaci senza prescrizione medica. Il tutto è aggravato, se non per la legge, quanto meno per il senso comune, dal fatto che queste erano dirette non ai professionisti, ma a ciclisti dilettanti, cioè ragazzi, cioè quello che dovrebbe essere il futuro di questo sport.

 

L'indagine è partita in seguito alla morte, avvenuta il 2 maggio 2017, di Linas Rumsas. Aveva nemmeno 22 anni, era un promessa di questo sport, era il figlio di Raimondas Rumsas, ex professionista, un Giro di Lombardia e una squalifica per assunzione di sostanze dopanti nel suo palmares. Le cause non sono mai state chiarite, però il passato familiare (il fratello che porta il nome del padre, Raimondas, era stato squalificato dopo essere stato beccato positivo), avevano subito attribuito al decesso l'infamia più grande: doping.

 

L'indagine parla di quel mondo oscuro che continua a esistere al di là dello specchio nel quale cerca di specchiarsi un ciclismo che prova a dimenticare il suo volto passato. Quello del grande smascheramento, quello del grande inganno e della conseguente grande disillusione.

 

L'indagine parla di un presidente che spingeva i suoi atleti a doparsi, di un direttore sportivo che accettava il meccanismo, di un farmacista che sottobanco allungava quello che non avrebbe dovuto allungare.

 

Sembra una nuova apocalisse, la fine della speranza. Eppure non c'è nessuna apocalisse, c'è ancora speranza. Perché al di là di Lucca c'è altro, al di là di alcuni presunti farabutti – sempre che tutto sia vero, sempre che tutto si accertato, sempre che tutto non si risolva in un bluff –, c'è un movimento che cerca di esistere malgrado tutto, malgrado il marcio che ogni tanto risale in superficie.

 

  

Il ciclismo italiano non è Lucca, il doping nel ciclismo italiano può pure esserci, nessuno lo esclude così come nessuno lo può certificare, servono prove certe non illazioni, ma il cielo sotto il quale pedala non è più così fosco come qualche arresto può far pensare. Ci sono i truffatori, certo, come ci sono altrove. Ci sono le scorciatoie illecite, come ci sono altrove. Ci sono tante cose che non vanno, eppure non è tutto marcio quello che pedala su di una bicicletta. Il ciclismo deve completare il processo interno di pulizia, deve sforzarsi di fare scudo alle proprie debolezze, che sono le debolezze di ogni uomo che cerca una via più facile (e non sempre legale) per raggiungere i propri scopi, eppure prendere Lucca come esempio di qualcosa non solo sarebbe ingeneroso, rappresenterebbe soprattutto un errore. La caccia alle streghe degli anni passati non solo ha danneggiato questo sport, ha sputtanato anche professionisti onesti, ha dato l'idea che tutto fosse corrotto e nulla sano. Non c'è più bisogno di questo.

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