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Il bandito e il campione. Il 2018 senza Voeckler e Contador

Giovanni Battistuzzi

Il 2017 è stato l'ultimo atto della carriera del francese e dello spagnolo. Una storia la loro che ripercorre, con molte eccezioni, quella di Sante Pollastri e Costante Girardengo

Quella era "una storia d'altri tempi, ancora prima del motore". Questa no. I tempi sono moderni, non passati, al più imperfetti e di motori ce ne sono e anche troppi in gruppo. Allora "si correva per rabbia e per amore". Oggi se l'amore ancora esiste, perché "una bicicletta è un atto d'amore" - almeno per Margherita Hack – indipendentemente dall'epoca nella quale scorrazza per la strada, di rabbia ce n'è poca, al massimo volontà di gloria e successo, forse di soldi. Eppure, nonostante i tempi mutati, nonostante il ciclismo sia cambiato che a volte si stenta a riconoscerlo, quella storia lì, quella musicata da Luigi Grechi e cantata da Francesco De Gregori si è ripresentata ancora, per finire un'altra volta. Si è conclusa mesi fa, almeno ufficiosamente, finirà il 31 dicembre 2017 e questa volta ufficialmente.

 

 

Quello era il racconto di Sante (o Santo) Pollastri (o Pollastro) e Costante Girardengo, un racconto musicale, forse non del tutto vero, ma quanto meno verosimile. Questo riguarda invece Thomas Voeckler e Alberto Contador, che rispetto a quei due sono altra cosa, ma che di quei due ne hanno rappresentato le parti, i personaggi, le sceneggiature. Senza armi in pugno e Milano-Sanremo conquistate, ma tant'è, è un'altra storia. Un bandito francese, Voeckler, anche se bandito non lo era, al più un brigante, probabilmente un corsaro se non fosse che di corsaro, o meglio di Pirata, ce n'è stato uno e uno soltanto. Un campione spagnolo, Contador. E su questo non c'è nulla da obiettare.

 

Il 2017 è stato per i due l'ultimo atto di una carriera che è stata lunga e mai banale, fatta di vette incredibili e sprofondi clamorosi, vissuta con l'idea di non voler mai essere un corridore come tanti. Il loro viaggio nel ciclismo è stato un lungo bruscello, un sipario alzato e un palcoscenico vuoto riempito dall'ingombro della loro bicicletta. Il loro spettacolo è stato un soliloquio in bicicletta.

 

Una tragedia – nel senso teatrale del termine – quella del Pistolero, svolta in un presente assoluto "hic et nunc", il tempo del dominio, prima, dell'improvvisazione quando a dominare erano altri e lo spagnolo ricercava la sua realtà alternativa, quella capace di far innamorare il pubblico perché pazza, molte volte scriteriata, basata su illuminazioni momentanee e difese estreme e a oltranza: espiazione e dannazione, sofferenza e mistero, resistenza e trionfo finale, sul Angliru, all'ultima recita.

  

Una farsa quella del francese, ma farsa burlesca non sportiva, messa in scena con sbuffi e facce contratte, linguacce, espressioni buffe. Una farsa solitaria perché Voeckler una cosa sapeva fare come pochi altri, partire e tentare la sorte, inserirsi nelle fughe e da avanguardista stare ore, giorni, settimane intere con l'unico obiettivo di dare spettacolo e provare l'assolo giusto, quello che passa alla storia, quello che può regalare gloria anche a uno come lui. "Non è male in tutto, ma non eccelle in niente, se non nella sfacciataggine", disse Bernard Hinault, se non in quell'arte che è l'eccesso scenico, la volontà di stravolgere tutto, anche l'evidenza di non essere un campione. Voeckler è stato un brigante, tendeva imboscate. Anticipava tutto e tutti, partiva che ancora era mattino per essere il primo ad arrivare, non centellinava le energie, le divorava. Ogni tanto scoppiava. Altre volte gli andava bene. Ed erano applausi, francesi ma non solo. Nel 2009 a Perpignan si fa 185 chilometri con altri cinque uomini, poi a sette dall'arrivo, usa una rotonda come trappola, scatta, lascia tutti i compagni di giornata, vince.

 

 

Nel 2011 ancor meglio. Verso Super-Besse Sancy entra nella fuga giusta, si fa beffare come un pollo da Luis-Leon Sanchez, ma conquista la Maglia Gialla, come nel 2004 la tiene dieci giorni, ma questa volta non scoppia e a Parigi termina quarto. Voecker non era gregario, non era capitano, non faceva classifica, non era veloce, neanche un gran scalatore, correva per se stesso, solo per se stesso, ma con una tigna unica. Infinita.

 

Thomas Voeckler stava antipatico a tutti. Un ex campione italiano lo descrisse così: "E' uno stronzo". Non ha mai fatto niente per piacere a qualcuno, è sempre rimasto se stesso, immutabile.

 

Alberto Contador invece è mutato mille volte senza però mai cambiare.

  

 

E' cambiato la prima volta nel 2004 quando rischiò di morire per un'aneurisma celebrale. Era forte ma insicuro, giovane e fragile. Ritornò consapevole del suo valore, voglioso di vincere. Ci riuscì. Il suo divenne un dominio. Ogni grande corsa che correva la finiva guardando tutti dal gradino più alto del podio. Conquistò il Tour nel 2007, il Giro e la Vuelta nel 2008, il Tour nel 2009 con la sua squadra schierata con Armstrong, il Giro (poi revocato) nel 2010. Poi iniziò a non vincere sempre, infine a non vincere quasi più. Ma proprio quando il suo dominio si incrinò il Pistolero si fece amare. Perché divenne indomito, divenne spettacolare, si trasformò in un corridore capace di qualsiasi cosa, di attaccare, provarci, tentare di scalfire l'inscalfibile. L'ultima metamorfosi ne esaltò il coraggio, trasformò il rispetto per un grandissimo corridore in passione per un campione. Sull'Angliru all'ultima Vuelta il canto del cigno. Un'azione vorace, pazzesca, un muoversi cadenzato e affamato in bicicletta, un'apoteosi solitaria in cima. Gli applausi della Spagna, ma non solo, di tutto il ciclismo. L'evidenza che quel giorno di settembre sarebbe stato l'ultimo atto di uno spettacolo stupendo e in un modo o nell'altro irripetibile.

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