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Alberto Brignoli è nella storia del calcio, Ermanno Brignoli nel cuore del ciclismo

Giovanni Battistuzzi

Il primo fa portiere, ha segnato di testa e regalato il primo punto in serie A al Benevento; il secondo invece pedalava e ha donato una carriera a Marco Pantani

Il portiere è l'ultima speranza, dietro di lui il vuoto del gol, davanti a lui il gioco. Se è perfetto è normalità, se è più che perfetto saracinesca, se sbaglia una pippa. Un portiere non ha attenuanti, non gli si concede nemmeno l'umanità dell'errore. E' per questo che Olivieri era il gatto, Cudicini e Yashin erano ragni, Canizares era il Dragone, Castellini era il giaguaro, più bestie da sacrificio che calciatori. Il portiere tira la carretta, è la parte nascosta della squadra, spicca per maglia, ma di lui si parla poco. Il portiere è il gregariato, di mille che passano solo in pochi rimangono nella memoria. Ma sono in buona compagnia. Almeno se si esce dagli stadi e ci si riversa a bordo strada, se ci si toglie gli scarpini coi tacchetti e si mettono le tacchette attaccate ai pedali di una bicicletta.

 

Il portiere para a ogni partita, ogni quasi mai segna. Il gregario si fa chilometri al vento a ogni corsa, ogni quasi mai vince. C'è un mondo di retrovie nelle loro vite. E così, se come scriveva Marco Pastonesi in Pantani era un dio, "quando vince un gregario vincono tutti", soprattutto il ciclismo, quando segna un portiere almeno si pareggia.

 

E' successo al novantacinquesimo minuto di Benevento-Milan. E' successo di testa, di tuffo, di fortuna, forse, di determinazione, sicuramente. E' successo perché prima o poi doveva succedere che il Benevento, quattordici sconfitte nelle prime quattordici partite, facesse un punto. E allora tanto vale farlo storico, perché primo della storia in serie A della squadra, perché di gol di un portiere nella massima divisione calcistica nazionale non si vedeva da Francesco Toldo in Inter-Juve del 2004 e poco importa se poi il gol l'hanno dato a Vieri. Prima di lui solo Rampulla e Taibi. Dopo solo Alberto Brignoli. Ed è storia di domenica, ed è storia un po' matta. Ed è storia punto.

 

 

Alberto Brignoli che è lombardo di provincia, che in provincia e solo in provincia ha giocato, nonostante il suo cartellino sia della Juventus, che nella provincia ogni tanto pedala. Alberto Brignoli che segna è un miracolo-miracolo, come scrive l'ottimo Gino Cervi, ma è miracolo-miracolo che ha un senso. Ed è un senso che sta nel nome, o meglio nel cognome. Un senso che è un destino, quello di tiratori di carrette, ma fatto a modo, fatto con il cuore. Perché Brignoli nel ciclismo è sinonimo di gregariato a regola d'arte, di trainate a inseguire e spirito enorme di sacrificio. Perché Brignoli è Ermanno, da Alzano, spalla e ombra di Marco Pantani da Cesenatico. Quattro anni alla Mercatone Uno con l'unico scopo di aiutare il capitano, faticare per il capitano, non mollare il capitano. Quattro anni e zero vittorie, perché chi dà tutto per qualcun altro non ha da dare per sé. Perché è il destino dei grandi gregari: essere il negativo delle vittorie altrui, essere la parte che non esce, che non appare.

 

Ermanno Brignoli si è dedicato alla causa, anche se la causa Marco Pantani dopo i fatti di Madonna di Campiglio al Giro d'Italia 1999 era sempre più faticosa da portare, sempre più fosca, sempre più un atto di fede. Ermanno Brignoli allora più che gregario divenne fedele, pellegrino dei picchi e degli sprofondi del Pirata. Non ebbe mai il suo gol del pareggio, solo gambe dure di chilometri di tirate e fiato sempre più corto.

 

Ermanno Brignoli però non c'è tifoso di Marco Pantani che non se lo ricordi. Come non ci sarà tifoso del Benevento che dimenticherà Alberto Brignoli. Stesso destino operaio finito in Paradiso.