Chris Froome davanti al percorso del Tour 2018 (foto LaPresse)

Bello e senz'anima. Così il Tour de France 2018 ha archiviato il Tour

Giovanni Battistuzzi

E' stato presentato il percorso dell'edizione 2018 della Grande Boucle. Ritorna il pavé, l'Alpe d'Huez e lo sterrato. Ma qualcosa non torna

Una matita, una mappa della Francia e un uomo che con un segno di graffite aveva il compito, l'obbligo e il vizio di decidere fatiche e sorti di un nutrito manipolo di esistenze. Dal 1903 al 1939 a stringere in mano quel lapis c'era un uomo d'una eleganza antica, legata a un mondo antico, che la bicicletta l'ha vista nascere, l'ha pedalata che ancora era considerata "attrezzo del dimonio", l'ha portata oltre ogni limite umanamente possibile. Quell'uomo era Henri Desgrange, per molti un illuminato, un demiurgo capace di plasmare le pedivelle e renderle epopea, per i più un sadico, devoto al culto della bicicletta a tal punto da fregarsene di chi la bicicletta la muoveva a forza di gambe, fiato e cuore. Desgrange era monsieur Tour de France, l'inventore e il despota della corsa a tappe più antica e famosa del mondo. Per Octave Lapize, prima pioniere e poi campione delle gare in bicicletta, un assassino perché far salire i corridori in cima al Tourmalet, su e giù per i Pirenei su mezzi a pedali da 16 chili e senza cambio era nient'altro che un tentato omicidio. Per Pierre Pierrard, uomo senza scrupoli morali e patron dell'Automoto, una delle squadre più importanti della Francia degli anni Venti, un "torturatore d'uomini, che gioiva delle altrui sofferenze". Fu lui a irrompere nello studio di Desgrange minacciando di non far partecipare la sua squadra se la corsa non fosse stata più umana e soprattutto adatta ai corridori francesi, più abili nelle tappe collinari dei belgi, allora paradossalmente popolo di faticatori di alta montagna. Era l'inverno del 1922 e Desgrange aveva davanti una mappa della Francia e una matita in mano. Era soprattutto dal 1912 che i belgi vincevano ininterrottamente la Grande Boucle (tra il 1915 e il 1918 la corsa non si disputò a causa della Prima guerra mondiale) e Pierrard chiedeva cambiamenti. "Mi guardò sorridente e mi fece accomodare", ricordò il boss dell'Automoto al giornalista Pierre Chany, quarantanove Tour seguiti per l'Equipe. "Mi disse: 'La vede questa matita? Questa matita segue una storia, quella del Tour, quindi quella del ciclismo. Cambiare il Tour vuol dire cambiare il ciclismo. Lei si sente in grado di prendere questa decisione? Se ne vada subito. E vada a frignare da qualche altra parte. Il Tour ha una sua anima e nulla potrà cambiarla. In nessun modo'". Pierrard se ne andò ammutolito. L'anno successivo brindò alla vittoria di Henri Pellissier, il ciclista francese più forte dell'epoca. Poi fece altrettanto per Ottavio Bottecchia, suo corridore, forse l'atleta più forte dell'epoca. Il Tour rimase uguale a se stesso per decenni, senz'altro sino a quando rimase in vita Henri Desgrange, abbastanza sino a quando le redini della corsa furono in mano soltanto a Jaques Goddet, discepolo e delfino del primo, ma di indole più mite. Poi iniziò a cambiare, tentando di cambiare il meno possibile.

 

 

Ora le matite non si usano più e neppure le mappe della Francia. Il tracciato è fatto a computer, le mappe sono quelle del satellite e soprattutto è deciso scrutando e valutando le offerte economiche di città e paesini che si offrono, paganti, di ospitare gli arrivi di tappa. Ora non è più "il Tour a fare la Francia", come amava ripetere Desgrange, è vero il contrario.

 

Ora il Tour de France edizione 2018 è pronto ed è stato presentato.

 

 

Le linee sinuose che colorano le strade sulle mappe per formare la planimetria e le spezzate arrabbiate che creano l'altimetria, sono pronte e sotto gli occhi di tutti. Sembrano bellissime, parlano di ricordi antichi, di pavé e grandi salite, raccontano scenari mai visti, novità altimetriche e paesaggistiche, rinverdiscono filmati d'antan di figure a cavalcioni di cavalli meccanici che pedalano tra sassi e polvere. Ritorna l'Alpe d'Huez, Roubaix e le sue pietre, lo sterrato. E' un colpo al cuore, alla storia del ciclismo che fu, già omaggiata dall'Italia, dall'Eroica in primis, poi dalla Strade Bianche e dal Giro. E' un sentimento che però è un passaggio in uno scenario più ampio, dove si scorge e si percepisce un'assenza maggiore, quella del Tour. Non è la Grande Boucle di Desgrange a mancare, quella fortunatamente per i corridori non c'è più, ma quel che è stato per decenni la corsa francese.

 

Diceva Laurent Fignon, campione di pedali e di intelligenza (non solo) sportiva, che "la magia del Tour sta nella sua insuperabile cattiveria", ché correre nel luglio francese, "sotto un sole che cuoce" e con l'acqua costantemente evaporata, "su salite lunghe e infinite, altro non è che una gara di resistenza, nella quale non sono le gambe a saltare, ma la testa".

 

Il Tour era estenuante, nonostante il percorso fosse uno spartito binario, ricorrente ad anni alterni. Prima la pianura, sempre, poi le Alpi e i Pirenei, oppure i Pirenei e le Alpi, con salite e discese che si conoscevano nelle quali le uniche variabili potevano essere gli scatti degli atleti.

 

Quella corsa non esiste più. Si è evoluta negli anni, ha presentato percorsi diversi, diventati racconti diversi, sempre speciali anche se forse meno entusiasmanti, in ogni caso godibili.

 

Nel 2018, tra poco meno di un anno, compirà la sua ultima e forse definitiva trasformazione. Tappe corte e mosse, muri che si trasformano in arrivi, montagne mai viste o di recente scoperta, vecchi templi del ciclismo francese messi in vetrina come vessilli di glorie passate ma cambiati in forma e dimensioni e ascese sempre più corte e più pendenti.

 

Il Tour cambia perché è cambiato il ciclismo, dopo oltre un secolo si è adeguato ai tempi. Era partito endurance, si era evoluto in maratona, si è trasformato in sprint. Ha una veste nuova, decisamente conturbante, probabilmente spettacolare, aperta a molte possibilità. E' una veste magnifica, da pin-up, bellezza che ha in sé la possibilità di sfondare lo schermo. Ma la videogenia poco o nulla ha a che fare con lo charme, nulla con la classe. Lo strizzare l'occhio al pubblico è dinamica buona per altri, facilitazione che usano i secondi per provare a occupare la casella di chi sta in cima e sta in cima per discendenza, blasone, capacità di essere il migliore. L'assenza di cronometro perché ormai le cronometro uccidono lo spettacolo, tesi tanto in voga, quanto indimostrabile, l'esistenza di microtappe (il 25 luglio si correrà la Bagnèrese de Luchon-Saint Lary Soulan, 65 chilometri) perché così si favorisce lo spettacolo, vero per prassi ma non verità assoluta, la ricerca esasperata della pendenza a discapito della lunghezza delle ascese perché così si agevola la selezione, altra tesi molto in voga ma confutata dagli eventi, lasciano un senso di velato di nostalgia. Perché è nelle grandi montagne che il ciclismo si è fatto storia. Perché è oltre i duemila metri che il ciclismo ha sempre dato il meglio di sé, ha rivelato la sua bellissima crudeltà, ha reso i campioni eterni, come certi ghiacciai alpini. E' lì che Coppi prendeva il volo, lì che Bottecchia e Bartali facevano rimpiangere gli altri di averli seguiti, è lì che Pantani arrembava, lì che Anquetil e Indurain soffrivano e diventavano per pochi minuti umani. Lì che Merckx faceva quello che faceva in ogni altro luogo, cannibalizzava tutto. Nella 105esima edizione due soltanto saranno le tappe nelle quale il Tour fa visita a quel che è stato: la dodicesima, che arriva in cima all'Alpe d'Huez e la diciannovesima, la Lourdes-Laruns.

Il Tour ha messo da parte le cronometro, archiviato ascese infinite e congelato i duemila (solo due salite superano questa altezza). Ha partorito tappe che potrebbero essere megnifiche, ma dove manca qualcosa, forse lo stesso Tour.