Paola Francesconi

Jacques Lacan, il velo che si squarcia

Davide D'Alessandro

Per Paola Francesconi, analista lacaniana, il Maestro francese è il più convincente poiché “ha saputo riconoscere i rischi e gli inganni di ciò che chiamiamo Io e che non costituisce l’essenza della nostra soggettività. È colui che ci ha messo in guardia dalle facili comprensioni, dalle pigrizie di ciò che crediamo e che ci sembra indiscutibile, mentre è solo ingannevole e può ritorcersi contro l’individuo, prima o poi. L’analisi porta, da un lato, a fare il lutto dei propri ideali, delle proprie fissazioni e, dall’altro, ad apprezzare il lato disincantato dell’esistenza. È l’approdo a un approccio tragicomico dell’esistenza”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

L’analisi è l’esperienza, inedita poiché impossibile da fare attraverso la sola introspezione, di entrata in contatto con la parte più intima di sé, quella che, però, ha il ruolo fondamentale nel decidere delle nostre scelte, del nostro modo di vedere ed affrontare la realtà. È un’esperienza “assistita”, effettuata con qualcuno, un analista, che sia formato a riconoscere e selezionare le componenti soggettive che fanno realmente parte dell’inconscio di quel soggetto e non di un immaginario più o meno ideale. Serve a trovare per il soggetto una via d’uscita quando egli si trovi in difficoltà, in stato di sofferenza, senza riuscire a superare i suoi impedimenti tramite mere rettifiche comportamentali o buoni propositi. Serve ad ingaggiare una sorta di trattativa con ciò che governa e determina l’agire dell’individuo.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Come tutti, per un disagio che mi fece percepire la presenza in me di qualcosa più forte di me ed in cui non riuscivo a riconoscermi completamente: una divisione causa di sofferenza.

Come scelse i suoi analisti?

Sulla base del transfert, evocativo di ciò che, nella mia storia, si era presentato come Altro di un buon o anche meno buono incontro.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Una lunga e rigorosa formazione, fatta di un’esperienza analitica personale condotta fino al suo vero termine, al di là dell’alleggerimento dai propri sintomi, e di un’esperienza regolare di supervisione dei propri casi che lo portino a riconoscere eventuali rischi di idealizzazione, o svalutazione, insomma componenti soggettive proprie che interferiscano con l’ascolto autentico dell’inconscio del paziente che viene guidato alla decifrazione ed al trattamento del suo inconscio.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Né l’uno né l’altro, esistono, è un dato di fatto, di cui occorre prendere atto cercando di interloquire e confrontarsi in modo dialettico, se possibile, con gli altri orientamenti e tenendo come bussola quello che ci sembra il più vicino a cogliere l’inconscio, il più efficace nel mobilizzarlo e trattarlo, nonché quello che abbiamo scelto come nostro orientamento e nostra formazione.

Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?

Perché, tra tutti, è stato quello che ha saputo togliere più veli possibili a ciò che si maschera nell’idea di realtà, di oggettività, rispetto a cui egli ha dimostrato che, spesso, quel che sembra evidente è ancora effetto di una visione fantasmatica, ovvero di una visione tramite occhiali individuali, o dell’ego di qualcuno. Ha saputo riconoscere i rischi e gli inganni di ciò che chiamiamo Io e che non costituisce l’essenza della nostra soggettività. È colui che ci ha messo in guardia dalle facili comprensioni, dalle pigrizie di ciò che crediamo e che ci sembra indiscutibile, mentre è solo ingannevole e può ritorcersi contro l’individuo, prima o poi.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

L’anima è, per noi, la parte più nascosta del sintomo. Per noi si tratta, dunque, di fare una cosa sola, fare uno, per così dire, con esso, assumerlo. Si definisce, per noi lacaniani, identificazione al sintomo: siamo chiamati ad identificarci al nostro sintomo, il che vuol dire averne attraversato le componenti, le identificazioni che lo sostenevano, i traumatismi che lo avevano prodotto, fino ad estrarne la parte più ultima, di risorsa, perché di questa è anche fatta la natura del sintomo. C’è uno stato, per così dire, selvaggio, del sintomo che è quello che ci fa soffrire, ci causa impedimenti, difficoltà di vario genere, e c’è uno stato purificato, che ne è il nucleo nascosto, di cui non ci si deve disfare. Infatti esso costituisce il nostro modo di essere e, una volta liberato dei suoi involucri patologici, difensivi, fa affiorare la nostra singolarità di individui e ci pacifica con quello con cui, invece, nel sintomo, eravamo in conflitto ed in divisione. È una pacificazione con ciò che siamo, anche se l’esistenza non comporta mai l’armonia completa, con l’Altro e con il mondo, a causa di ciò che Lacan chiama il godimento, la modalità del soggetto di ottenere soddisfazione. È tale modalità che è responsabile, da un lato, del disaccordo, di un’inconciliabilità di fondo tra noi e il mondo, ma, dall’altro è, dopo un’esperienza analitica, una risorsa, il marchio potenzialmente creativo della propria singolarità, facilitatore, alla fine, di soluzioni ed invenzioni, insomma di qualcosa di nuovo rispetto a prima.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

La decisione è presa di comune accordo tra analista ed analizzante. Si produce quando l’individuo è divenuto capace di non farsi sopraffare da ciò che lo muove intimamente, ma si rivela in grado di trarne, per così dire, il maggior profitto soggettivo. Quando il prezzo pagato al sintomo per la propria soddisfazione non è più così alto, ma è da lui incorporato come accettazione di ciò che egli è, di ciò che la sua storia e le sue identificazioni hanno fatto di lui, suo malgrado. Quando ne scopre un versante altro dalla sofferenza e dall’ostacolo che costituiva per lui. Quando ciò che continua a sorprenderlo del proprio inconscio, che ora è più capace di cogliere, non è per lui solo traumatico, ma anche, a tratti, umoristico. L’analisi porta, da un lato, a fare il lutto dei propri ideali, delle proprie fissazioni, e dall’altro, ad apprezzare il lato disincantato dell’esistenza. È l’approdo ad un approccio tragicomico dell’esistenza.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Una nevrosi è tanto più grave non in sé, ma nella misura in cui si manifesta in una forma tale da avere prodotto nell’individuo un attaccamento irrinunciabile ad una sofferenza, come diceva Freud, al di là del piacere, ovvero, come dice Lacan, ad un godimento, che è dolore e piacere insieme. Districare questo intreccio è talvolta impedito da una tendenza alla mortificazione che in alcuni soggetti può essere particolarmente tenace. Dove la pulsione di morte, intesa in questo senso, fa particolarmente da cemento ad un godimento travestito da sofferenza ma potente nel tenere il soggetto fissato ad esso, questa è la forma più grave di nevrosi e più lungo il lavoro per spostarla e trattarla.

Curano di più le parole o i silenzi?

Dipende, è a seconda del momento in cui si rendono necessari gli uni o le altre. Lacan faceva una distinzione tra l’interpretazione, fatta di parole, anche se il meno discorsive possibile, spesso limitate ad una sola parola, ma enigmatica, più che esplicativa, e l’atto analitico, che spesso è fatto di silenzio, è un sospiro, un gesto dell’analista o un’impassibilità calcolata su qualcosa. Questa è, tra l’altro, la ragione per cui è imprescindibile che l’analista sia lì con il suo corpo e non in forme virtuali. L’analisi si fa in presenza perché i silenzi sono sempre modi della presenza, mai puramente assenza di parole.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

L’analista non è un padre e non ne segue il destino edipico, ovvero la morte, per metafora. L’edipo è solo una parte del lavoro analitico, ben più importante è quella che viene dopo, e che riguarda il rapporto con l’Altro, in tutte le sue valenze, identificatorie, di soddisfazione, di traumatismo. L’analista ne costituisce l’ultima forma, il condensato, per poi accompagnare il soggetto a prendere su di sé ciò che imputava all’Altro, nel bene e nel male. Di questo Altro residua qualcosa che è sì un’alterità, ma più di qualcosa che di qualcuno. L’analista va oltrepassato se si intende che, ad un certo punto, occorre separarsi da lui come da ciò che ha costituito quel che il soggetto credeva il suo destino immodificabile, l’Altro del suo destino. La separazione è il termine giusto, non l’uccisione né l’oltrepassamento.  

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Proporsi il crollo di qualcosa implica un atteggiamento di forzatura e di opposizione frontale, evoca una lotta tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Si tratta, invece, di far fronte alle resistenze in tutt’altro modo, intenderne appieno il tornaconto che veicolano, più tenaci sono e più occorre rispettarne il nucleo di verità per il soggetto. Vanno assottigliate con pazienza e tatto, fino a portare il soggetto stesso ad abbandonarle spontaneamente. Non è un lavoro facile, ma è intrinseco all’operare analitico. Inoltre, occorre dire che, in alcuni casi, proprio per i motivi suddetti, le resistenze vanno mantenute e trattate nel senso di trovarne una forma più vivibile. Il discrimine, per esempio tra nevrosi e psicosi si gioca su questo, in termini generali: nella nevrosi le resistenze vanno lavorate per stratificazione fino a raggiungerne l’assottigliamento che garantisca la minore difesa possibile verso l’imprevedibilità del reale e la capacità di estrarne una risorsa. Nella psicosi, invece, demolire le resistenze può precipitare il soggetto in uno scompenso peggiore di prima. Le difese sono spesso, in questo caso, una protezione da un reale che il soggetto non saprebbe come affrontare altrimenti. Prima di puntare alla loro caduta, occorre soppesare bene la struttura del soggetto e l’opportunità di sostituzione delle resistenze con qualcos’altro. Cosa mantenere delle resistenze e cosa cambiare, o quale forma migliore trovare ad esse nella psicosi.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Dipende dalla formazione dell’analista. Se la sua analisi non è stata portata al suo vero termine, ma rimane qualcosa di fantasmatico che, come tale, interferisce nelle cure che conduce, è più complicata la gestione del controtransfert. Se invece, è insufficiente, o non ben fatta, la sua esperienza di supervisione, di confronto con una terzietà cui sottoporre il suo modo di operare come psicoanalista, allora è più complicata la gestione del transfert.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

È così: se ben interpretato, altrimenti la via all’inconscio si chiude, anziché aprirsi. Invece, una buona interpretazione permette all’analizzante, cioè al paziente, di entrare in contatto con il suo inconscio e di capire a che punto si trova, se è vicino a riconoscere l’appartenenza a se stesso di ciò che affiora con il sogno. Una buona interpretazione di un sogno viene confermata dalla sorpresa, positiva, ma anche, talora, apparentemente negativa, nell’accogliere un altro senso da quello che egli pensava. In ogni caso, va detto che occorre che l’analizzante sia disposto ad acconsentire a farsi carico, riconoscendolo, ma anche denegandolo con la protesta, che sembra un no ma è un sì, alle formazioni dell’inconscio. A diventare, come diceva Nietzsche, ciò che si è.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Senz’altro il lavoro più faticoso è rispetto al proprio inconscio, perché comporta non fermarsi alla sensazione di avere fatto un buon lavoro su se stessi, ma di verificarlo, mettendolo alla prova di ciò che ancora ci risulta fastidioso, intollerabile, e di ciò che si oppone all’abbandono delle proprie identificazioni, almeno fino a conservarne il residuo ineliminabile. Il minimo di identificazione possibile consente all’analista di tenersi ben a distanza, nelle sue cure, dai propri fantasmi, evitando interferenze del suo inconscio con quello dell’analizzante. Se tale lavoro è stato ben fatto, lavorare con l’inconscio degli altri è assai meno faticoso. La fatica è spesso espressione di una resistenza dell’analista, prima ancora che del paziente.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

È un pensiero comune quello che l’analisi comporti un costo elevato a causa della sua lunghezza, tralasciando i costi enormi che può infliggere al soggetto la propria nevrosi, la propria sofferenza, i propri sintomi, che comportano spesso difficoltà nel lavoro, nella vita privata, nella capacità di progettarsi. Questo è il vero costo elevato. L’analisi breve è una contraddizione nei termini, poiché il lavoro analitico non può essere breve, esattamente come il processo di costituzione delle nevrosi, e delle psicosi, dal momento che tale processo affonda le sue radici nell’età infantile e giovanile. Così come si è andata costituendo lentamente, va analizzata, attraversata e risolta lentamente, o, diciamo meglio, perlomeno rispettando i tempi necessari alla sua risoluzione.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Mi piace. Ma la libertà non va intesa in assoluto, bensì occorre individuare qual è il tipo di prigione in cui è recluso il desiderio del soggetto, per liberarlo da essa. È liberazione dalla prigione che lo assoggettava e decideva di lui, e l’apertura delle sbarre  non è, di per sé sola, sufficiente, ma deve essere seguita dalla possibilità di mettersi in condizione, compatibilmente con le contingenze del reale, di condurre in modo più semplificato la propria esistenza. È il soggetto, ora, a proferire la “sentenza” su di sé, non più l’Altro o la legge di un’alterità che la fa da padrona su di lui.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Se ho bene inteso la domanda, è quello di avvalorare l’identificazione all’analista tramite l’idealizzazione di quest’ultimo. Il rischio dietro l’angolo, in una cura, è sempre quello implicato in un’analisi, la sua propria, che ha lasciato nell’analista qualcosa di inanalizzato, ad esempio, una sorta di infatuazione narcisistica della propria persona che lo porta a proporre, anche inconsapevolmente, i propri modelli o ideali al paziente, alias le proprie identificazioni, da cui non si è separato a sufficienza nella propria esperienza analitica personale.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Se si intende nel senso della presenza concreta, certamente, gli individui lì presenti sono due. Ma per metafora si può intendere sia che ce n’è una sola, sia che ce ne sono più di una o di due. Una sola, poiché c’è un solo soggetto lì, ed è quello dell’inconscio dell’analizzante. L’analisi non è un rapporto interpersonale, o intersoggettivo, perché l’analista non è lì come soggetto, ma come strumento al servizio dell’analisi stessa. L’analista è più, in questo senso, sul versante dell’oggetto che del soggetto che è lì, il che non vuol dire che debba stare passivo, anzi, il contrario. Sono più di una, e di due, nel senso che c’è un’istanza terza nel rapporto analitico che si segnala come alterità del soggetto a sé, il suo altro, l’altro che è in lui, e che può non limitarsi ad uno solo, ma più di uno, dal momento che l’identificazione è sempre molteplice, non è una sola, e tanto meno è un’identità.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

No, c’è altro, la libido del soggetto non è centrata solo sulla  sua sessualità, genitale o pulsionale. La libido è la forza motrice che spinge il soggetto a cercare l’oggetto della prima, perduta soddisfazione, qualcosa di un godimento originario che egli ha dovuto cedere per vivere attraverso il linguaggio e la parola. È qualcosa, come notava Freud, di irrimediabilmente perduto, di cui si cercano sostituti il più vicini possibile all’originale, per così dire; ciò può anche riguardare la scelta del partner, o varie forme di autoerotismo. C’è quindi il sessuale, ma c’è, altresì, anche qualcosa che non lo è, pur essendo profondamente intrinseco al godimento del corpo, alla pulsionalità. E anche di questa “parte”, occorre venirne a sapere qualcosa, attraverso la propria analisi.