Franco De Masi

Sigmund Freud, maestro incomparabile

Davide D'Alessandro

A colloquio con Franco De Masi, psichiatra e membro ordinario della Spi: “Il fondatore della psicoanalisi ha scoperto l’importanza della vita inconscia e della verità psichica che esiste dentro di noi, anche se continuamente la neghiamo. Da qui nasce gran parte della sofferenza dell’uomo. È stato paragonato a Colombo, che aveva pensato di aver trovato le Indie mentre aveva incontrato un immenso territorio ancora tutto da scoprire. Freud ha studiato solo una parte dell’inconscio. Le ricerche sulle funzioni inconsce e inconsapevoli della mente proseguono tuttora e si avvalgono  anche del contributo scientifico delle neuroscienze”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

L’analisi è una funzione della mente. Si tratta della capacità introspettiva che alcune persone posseggono naturalmente e altre meno. Come tale gli psicoanalisti cercano di sviluppare nelle persone che si rivolgono a loro questa funzione essenziale per capire sé stessi, per prevedere e comprendere le esperienze che la vita continuamente presenta e che richiedono di essere affrontate. La maggior parte delle persone che si rivolgono allo psicoanalista soffrono ma non conoscono le ragioni della loro sofferenza perché mancano di questa capacità. Comprendere non significa annullare, quanto piuttosto aumentare la capacità di tollerare.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Mi affidai al mio analista perché ero specializzando in psichiatria e al tempo presso l’Istituto di Milano fu aperta una selezione per le analisi di training. Fui scelto e quella occasione mi facilitò l’ingresso nell’analisi verso cui avevo, com’è naturale, alcune riserve.

Come scelse i suoi analisti?

Avevo stima per il mio analista che avevo visto operare nell’istituzione universitaria. Credeva nell’analisi e nel suo  potere curativo.   

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

L’analista deve essere prima di tutto una persona coerente e onesta. Deve avere avuto a sua volta una buona analisi personale. L’avere interiorizzato un buon oggetto analitico rende l’analista più determinato e sicuro nella terapia del paziente, che gli si affida e lo sostiene nei momenti difficili.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Non si può dire che esiste una sola scuola psicoanalitica. Molte di loro hanno qualcosa di buono. Il criterio discriminante è l’attenzione che ciascuna scuola pone alla clinica ossia all’esperienza  terapeutica. Alcune scuole nascono e si nutrono di ispirazioni che appartengono alla originalità filosofica, letteraria e poetica del fondatore ma sono lontane dalla clinica e dall’efficacia terapeutica. Con la sofferenza mentale non è possibile misurarsi con formule astratte.

Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?

Freud ha fondato la psicoanalisi. Ha scoperto l’importanza della vita inconscia e della verità psichica che esiste dentro di noi anche se continuamente la neghiamo. Da qui nasce gran parte della  sofferenza dell’uomo. Il suo contributo alla crescita della conoscenza dell’uomo sull’uomo non è comparabile a quello di altri “maestri”. Inoltre, ha aperto una strada immensa per una serie di allievi e continuatori che sono appartenuti e appartengono alla Società da lui fondata. È stato paragonato a Colombo che aveva pensato di aver trovato le Indie, mentre aveva incontrato un immenso territorio ancora tutto da scoprire. Freud ha studiato solo una parte dell’inconscio. Le ricerche sulle funzioni inconsce e inconsapevoli della mente proseguono tuttora e si avvalgono anche del contributo scientifico delle neuroscienze.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Credo che si può essere d’accordo con questa definizione se “fare anima” significa rendere vive le persone e permettere loro di trovare un significato della loro esistenza.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Decidono l’analista e il paziente insieme, anche se spesso questa decisione è complessa. Essendo l’analisi un processo di sviluppo, è difficile definire una fine anche se esistono ragioni pratiche ineludibili per deciderla.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Non è possibile dire all’inizio della terapia quale nevrosi o sofferenza sia più grave di un’altra. Esistono pazienti apparentemente gravi che evolvono positivamente. Altri invece, che io chiamo difficili e su cui ho scritto un libro, che presentano molte difficoltà nel corso dell’analisi pur non presentandosi come gravi. La difficoltà nella cura dipende molto dalla storia personale, dai traumi e dalla profondità delle distorsioni patologiche createsi nel corso dell’esistenza. Un altro elemento dipende anche dall’apparato terapeutico dell’analisi. Abbiamo una sufficiente dotazione per la terapia delle nevrosi, mentre gli stati borderline o le psicosi richiedono all’analista una competenza specifica.

Curano di più le parole o i silenzi?

Quello che cura è il pensiero dell’analista che deve continuamente nutrire la mente del paziente. Nel silenzio il paziente si disorienta e si angoscia.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Credo che questa espressione sia stata molto enfatizzata. Lo sviluppo comporta la crescita e l’autonomia della persona, quindi il passaggio da un dipendenza passiva all’apprezzamento per quello che si è ricevuto e alla capacità di pensare con la propria testa.  

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Si lavora con la parte sana e consapevole che ogni paziente possiede. Occorre mostrare al paziente  che esiste una strada più remunerativa rispetto a quella che lo ha sempre limitato.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Oltre al transfert e al controtransfert esiste la relazione analitica, ossia la nuova relazione che si crea tra la mente del paziente e quella dell’analista. Questa relazione cresce e si sviluppa nella misura in cui l’analista comprende le comunicazioni del paziente, lo aiuta a interiorizzare un nuovo modo di pensare a sé stesso e lo fa sentire significativo. Naturalmente l’analista deve essere capace di affrontare la verità e non difendersi dietro silenzi o atteggiamenti stereotipati.

Per  Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

La conferma viene dal paziente. Bisogna essere attenti alle risposte che il paziente dà dopo ogni interpretazione, non solo quelle sui sogni. Se il paziente rimane in silenzio e non commenta quanto gli abbiamo detto, non possiamo conoscere l’esito della nostra interpretazione.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Mano a mano che la comprensione di me stesso e del mio inconscio è diventata più chiara, sono riuscito a comprendere meglio l’inconscio e  il modo interno dei miei pazienti.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Può esistere e si chiama psicoterapia analitica (meno sedute per un periodo breve). Ma la psicoterapia è indicata solo per problemi circoscritti o per situazioni emotivamente traumatiche. Lo scopo dell’analisi è quello di aprire nuove funzioni mentali bloccate da anni per angosce, desideri illusionali, traumi, etc. Si tratta di un lavoro complesso e necessario. È come preparare un campo per la semina. È possibile evitare di fare il necessario lavoro per un buon raccolto?

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Mi pare idonea; la libertà psichica non rende felici, ma contribuisce alla serenità e può dare un senso alla nostra esistenza.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

La ripetitività e l’arresto di sviluppo. La psicoanalisi è un universo in espansione che si amplia costantemente. È pericoloso arrestarsi al già conosciuto.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Il limite di certe concettualizzazioni psicoanalitiche è che restringono lo scambio analitico a due persone, analista e paziente, lasciando fuori la storia personale del paziente, il suo mondo relazionale e il mondo, spesso ostile, in cui si trova a vivere.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

Non lo è più perché il parametro della psicosessualità inaugurato da Freud è in gran parte superato e permane solo in alcuni modelli, specie francofoni. Si presta ora maggiore attenzione alle prime relazioni madre-bambino, cioè a quelle comunicazioni emotive che avvengono  prima dell’uso della parola. La capacità dell’adulto di dare risposte utili allo sviluppo psichico del bambino è ritenuta fondamentale. Prima viene lo sviluppo emotivo, poi la sessualità. Senza un idoneo sviluppo emotivo sarà difficile una buona sessualità relazionale e saranno evidenti distorsioni patologiche della sessualità.