Antonio Alberto Semi

Antonio Alberto Semi, i rischi dello psicoanalista

Davide D'Alessandro

Il problema è “pensare – inconsciamente – di essere un guru o un profeta o un caposcuola o di ‘aver capito davvero’ com’è fatto l’altro. In generale, il rischio appunto di perdere il gusto del mestiere. La psicoanalisi serve a comprendere la propria complessità e quella altrui e le rispettive soggettività. L’ottimo analista non esiste oppure è il risultato di una idealizzazione. Invece per fare bene il proprio mestiere occorre una buona dose di onestà intellettuale, di autocritica e autoironia, di comprensione dei propri stati d’animo”

Chi ha letto i libri di Antonio Alberto Semi sa delle sue pagine raffinate. Davanti alle nostre venti domande si è chiesto se rispondere a mo’ di trattato, che pure scrisse tanti anni fa, o a monosillabi. Ha risposto da par suo, da uomo intelligente, da analista che sa guardare fuori e dentro di sé.

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

È un metodo di indagine dell’attività psichica. In pratica alcune tecniche derivate e coerenti con il metodo consentono un’attività detta “clinica”. Dai dati ricavati tramite questa attività vengono costruite ipotesi teoriche e teorie generali. Metodo, clinica e teoria sono inscindibili. La psicoanalisi serve a comprendere la propria complessità e quella altrui e le rispettive soggettività.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?

Fatti miei. Cioè “fatti”- dunque qualcosa di preciso -  e “miei” dunque personali e che sarebbe inutile esibire.

Come scelse i suoi analisti?

Scelsi il mio analista dopo aver colloquiato con due-tre.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

L’ottimo analista non esiste oppure è il risultato di una idealizzazione. Invece per fare bene il proprio mestiere occorre una buona dose di onestà intellettuale, di autocritica e autoironia, di comprensione dei propri stati d’animo.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Tante scuole? Ce ne sono poche o pochissime, purtroppo la parola “psicoanalisi” è così prestigiosa che viene usata per qualsiasi altra attività “clinica”.

Perché ritiene Freud il più convincente dei maestri?

Freud non vuole convincere nessuno. Era davvero un laico. Le sue ipotesi cliniche, teoriche e di metodo sono sempre discusse da lui stesso e discutibili.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Penso che l’ “anima” sia una costruzione teorica pleonastica.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Come dice Danilo Toninelli, è una questione di rapporto tra costi e benefici. Umani, non economici.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Domanda mal posta. La nevrosi è sempre grave perché fa soffrire e fallire, fare gerarchie di sofferenze è estraneo all’analisi.

Curano di più le parole o i silenzi?

Mah! Le parole possono rappresentare un silenzio totale, si parla per non dire alcunché, il silenzio può rappresentare una disponibilità o una indifferenza. In ogni caso sono fenomeni coscienti che possono avere motivazioni inconsce diversissime.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

Ma no, sono modi di dire. E’ importante che in analisi sia possibile sperimentare la propria capacità e il proprio desiderio di uccidere – e che ci sia qualcuno che è in grado di affrontare assieme queste tendenze umane.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

Il problema è sempre quello di poter riconoscere – entrambi – quanto il pensiero conscio sia spesso e per lo più implichi qualcos’altro. Riconoscere che il proprio pensiero è “pilotato” da altro, ossia dall’inconscio, è sempre difficile ma anche entusiasmante e spesso divertente.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Siccome lavoro su ipotesi di origine freudiana, ritengo che il transfert sia quel che l’analizzando trasmette all’inconscio dell’analista. Il controtransfert è in primo luogo l’opposizione – per lo più narcisistica e inconscia – al riconoscere che il nostro pensiero (compresi gli affetti, ovviamente) è stato spossessato da un altro senza che noi abbiamo potuto far nulla per impedirlo. La forma che assume questa opposizione e che giunge alla coscienza dell’analista, è spesso utile per poter affrontare il transfert.

Per  Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Come no! Ma in genere non immediatamente, attraverso minimi e progressivi spostamenti d’accento. In ogni caso, la “buona” interpretazione riguarda il lavoro che l’apparato psichico ha compiuto per esprimere qualcosa di altrimenti inesprimibile. Anche per questo le interpretazioni “facili” o “evidenti” sono in generale delle bufale.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Perché non porre viceversa la domanda se abbia provato maggiore piacere a lavorare con il mio inconscio o con quello degli altri? La fatica c’è, beninteso, ma il piacere di comprendere – sé e gli altri – è certamente maggiore.

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Mah! Cosa vuol dire “breve”? Un’analisi o è tale o non è. Chi spaccia trattamenti brevi è un professionista delle fake news. In genere ha successo perché molte persone chiedono solo di rafforzare le proprie difese, non di capirsi: tanti auguri.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Mi piace pur che sia chiaro che il cammino si svolge tra il riconoscimento del proprio destino e quello delle proprie possibilità.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Tanti rischi. Pensare – inconsciamente – di essere un guru o un profeta o un caposcuola (vedi sopra sulle scuole) o di “aver capito davvero” com’è fatto l’altro. In generale, il rischio appunto di perdere il gusto del mestiere.

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Quella di Ogden è una banalità, lui è un bravissimo espositore ma cade spesso in formulette di quel genere. Il fatto drammatico dell’essere umano è che il pensiero proprio è sempre anche pensiero dell’altro, fin dalla nascita. Beninteso: il pensiero serve per vivere, dunque qualche modo di pensare verrebbe comunque elaborato, anche senza la presenza di un altro, ma di questo non sappiamo nulla. Poi quanti soggetti inconsci si costituiscano nell’animo di ciascuno è un elemento da scoprire durante l’analisi. Perciò la disidentificazione è ancor più importante della identificazione, che pure ci consente di pensare.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

La psicosessualità è sempre al centro dello sviluppo della soggettività dell’essere umano, dunque anche in analisi. C’è altro? Oh, c’è tanto altro. Tanto più oggi, allorché sembra diffondersi il divieto sociale e la paura conformistica conseguente di comprendere davvero cosa voglia dire la soggettività – con tutto il carico di tristezza ma anche di gioia, di limitata potenza ma anche di creatività – che essa comporta. L’orientamento della nostra cultura sembra essere quello di favorire le pecore, i sudditi anziché i cittadini, se si intende con questo termine indicare la meravigliosa differenza che esiste tra un essere umano e l’altro, differenza che chiede e promuove lo scambio fertile.