Giacomo Marramao

Giacomo Marramao, come mettere al mondo il mondo

Davide D'Alessandro

A colloquio con il filosofo calabrese, allievo di Garin. Da Schmitt all’Europa, da Hegel alla globalizzazione, dall’identità al potere, dal consumo all’autorità, dalla tecnica al compito della filosofia: “Siamo esecutori fallimentari delle promesse rivoluzionarie del Novecento. Occorre liberarsi dall’alibi dell’oggettività mettendo al centro noi stessi: il fattore oggettivo soggettività”

Leggi i libri di Giacomo Marramao e pensi: quest’uomo è troppo intelligente! Poi lo intervisti, ascolti le risposte e ne hai straordinaria conferma. I professori non nascono per insegnare, ma per essere interrogati, per fornire risposte, preferibilmente non banali, per aiutare a sbrogliare matasse sempre più intricate o, per dirla con Altan, persino senza bandolo. Marramao si lascia intervistare e il risultato finale, ovviamente, è merito delle risposte, non delle domande. È merito della sua intelligenza.

Dedicò il suo primo corso universitario, nel 1977, a Carl Schmitt. Lo rifarebbe?

Quello che tenni nell’anno accademico 1977-78 all’Università di Napoli “L’Orientale” non fu il mio primo corso universitario (dal 1975 al 1977 avevo già insegnato all’Università di Salerno e prima ancora tenuto lezioni all’Università di Francoforte), ma il primo corso del secondo dopoguerra dedicato a Schmitt in Italia. Se lo rifarei? Certamente. E in parte l’ho rifatto, ritornando su testi e temi schmittiani in altri miei corsi successivi, tanto all’Orientale quanto all’Università di Roma Tre, dove mi sono trasferito nel 1995. A quanti mi avevano criticato dal versante liberale o veteromarxista la replica era fin troppo agevole. Bastava ricordare l’attrazione esercitata su Walter Benjamin dai temi della teologia politica e dello “stato d’eccezione” e su intellettuali socialdemocratici come Otto Kirchheimer e Franz Neumann dal “concetto del Politico” come campo conflittuale segnato dalla famosa antitesi amico-nemico e dalla coppia decisione-norma come apertura di un campo di tensione tra legittimità e legalità. Una forbice che si apre nei momenti critici degli stessi sistemi liberaldemocratici, mettendo a nudo che la verità di ogni ordinamento giuridico non risiede nella normalità della norma ma nella decisione che la sospende. Detto ciò, tengo a precisare la mia posizione: il lato fecondo di Schmitt è per me rappresentato dalla diagnosi, non dalla terapia. Se il suo quadro diagnostico ci offre l’analisi più radicale delle trasformazioni della politica fra le due guerre (pari soltanto a quella del Gramsci dei Quaderni del carcere), il suo versante propositivo ricalca le solenni banalità di tutte le ricette reazionarie: a partire dalla visione del Volk, del Popolo, come blocco identitario precostituito, anziché come costrutto politico, soggetto da costruire politicamente. Si apre così una cesura, una dieresi abissale, nel corpo della concezione schmittiana tra l’assunto nichilistico della “decisione” – che egli definisce, sulla scorta di Nietzsche, “fondata sul nulla” – e il presupposto sostanzialista che sta alla base della sua idea di Popolo. Su questo aveva perfettamente ragione Kelsen nel contrapporre a Schmitt la sua visione antiessenzialista: sotto il profilo sociologico, il popolo è una “maschera totemica”, non possiede un’identità sostanziale ma è un agglomerato di differenze che prende forma – come aveva già argomentato Hobbes, che Kelsen legge qui molto più fedelmente di Schmitt – solo attraverso il sistema giuridico positivo istituito dallo Stato. Il popolo non è dunque un’identità sociale già-costituita ma una costruzione giuridica. E tuttavia… E tuttavia, con buona pace di Hobbes e di Kelsen, resta il fatto che, prima ancora di essere una costruzione giuridica, il popolo deve essere una costruzione politica – senza la quale il diritto perderebbe ogni efficacia. Ma c’è dell’altro nella posta in gioco intorno all’affaire Schmitt. In primo luogo la duplice valenza del criterio del politico e del campo di tensione tra legalità e legittimità, che viene così impiegata come chiave di lettura degli stessi eventi rivoluzionari. Di qui il riconoscimento a Lenin di avere genialmente tradotto la lotta di classe di Marx in antitesi prettamente politica. Un riconoscimento che equivale a un saluto delle armi. Ma che proprio per questo legittima noi, oggi, a rivolgere il nostro saluto delle armi a Carl Schmitt. In questa chiave avevo inserito la trattazione dei temi schmittiani, in rapporto alle vicende dei “marxismi” europei del periodo fra le due guerre, già nel mio libro del 1979 Il politico e le trasformazioni. Rispetto a quella fase, alla divisione tragica che ha segnato la lunga guerra civile europea del XX secolo, lo stato d’eccezione si è serializzato nelle nostre democrazie in una molteplicità di stati d’eccezione ‘formattati’, costruiti ad arte. Ma vengo, per non farla troppo lunga, all’altro aspetto: il lascito più fecondo di Schmitt, su cui mi sono soffermato in altri miei libri (Potere e secolarizzazione, Dopo il Leviatano, Passaggio a Occidente), è rappresentato, a partire da Il Nomos della Terra (1950), dalla straordinaria messinscena del nuovo assetto globale del mondo segnato dal passaggio dalla coppia terra-mare all’elemento dell’aria, su cui si installa l’egemonia americana. Oggi siamo tuttavia in presenza di un nuovo scenario, in cui in “grandi spazi” coincidono Stati-continente che contendono il primato agli Stati Uniti: dalla Cina all’India, dalla Russia al Brasile. E l’Europa?   

Qual è il nutrimento che manca all’Europa?

Elementare, Watson: la politica. Non le pare incredibile l’impotenza politica di un continente che ha inventato la politica con Platone e Aristotele, reinventandola agli inizi dell’età moderna con il nostro Machiavelli? 

Mi pare deprimente e incredibile. Per Hegel, la filosofia ha il compito di comprendere il proprio tempo nel pensiero. Per lei?

Una filosofia che non riesce a porre a tema il presente è destinata a restare un esercizio logico o retorico, subalterno per un verso a matematici e scienziati, per l’altro a linguisti e letterati. Territori che un filosofo deve sapere praticare, ma senza tuttavia demandare a essi la comprensione del presente. Ma qui occorre aggiungere che dopo Hegel e Marx, dopo Nietzsche e Freud, il presente non va confuso con l’attualità e il frastuono dei suoi quotidiani rumori, ma piuttosto colto nella sua piega inattuale – non “retrotopica” o rivolta al passato, ma piuttosto anticipatrice. Qui mi distacco da Hegel: la filosofia non è la “nottola di Minerva” che si leva in volo sul far del crepuscolo, ma coincide piuttosto con il coraggio della “prematurità” nel concepire, ossia mettere al mondo il mondo.

Dei tanti filosofi con i quali si è confrontato, di chi ne porta maggiormente il segno?

Molti, una moltitudine di voci, ma nessuna in particolare. Voci classiche: Aristotele, Maimonide, Duns Scoto, Machiavelli, La Boétie, Montaigne, Spinoza, Leibniz, Hume, Hegel, Marx, Nietzsche. Voci contemporanee: Wittgenstein, Heidegger, Apel, Adorno, Deleuze, Arendt, Habermas, Serres.   

È possibile tracciare un bilancio del passaggio a Occidente? Che passaggio è stato?

Un passaggio in cui non si trasformano soltanto le culture ‘altre’, ma la stessa forma di vita dell’Occidente.

Perché la globalizzazione è stata rappresentata come omologazione?

Perché siamo pigri, viziati dall’uniformità. Non abbiamo pertanto afferrato la doppia logica di questa globalizzazione: la compresenza e coabitazione conflittuale di uniformazione tecnologico-finanziaria e diaspora delle forme di vita.

L’identità esiste o è un’invenzione umana?

Dopo Hume, dopo Nietzsche, dopo Freud preferisco usare il termine identificazione. Identità è un concetto logico (A=A) che gli empiristi moderni hanno adoperato proprio per dimostrarne l’impossibilità. Quella che chiamiamo identità è sempre l’aggregazione di un complesso di eventi, circostanze e fattori che concorrono a determinare la biografia di ciascuno. L’identità di un singolo o di una comunità, di un individuo o di una nazione, è unica non perché garantita da un’origine o un’essenza, ma perché unica, irripetibile, non “clonabile”, è la sua storia.

Dall'esaltazione della differenza sente puzza di ritorno alla celebrazione dell’identità?

Le differenze culturali di cui discetta il mainstream multiculturalista sono di fatto l’anticamera delle politiche dell’identità e dei conflitti identitari che siamo soliti rubricare con etichette di comodo come “fondamentalismo”, “terrorismo” e simili. Ma il concetto di differenza cui tengo è altra cosa, e interagisce da decenni con il pensiero femminile della differenza. La differenza non è un soggetto ma un vertice ottico che riclassifica ogni coagulo identitario attraversandolo e destabilizzandolo. In questo senso nei miei lavori degli ultimi vent’anni ho avanzato la tesi di un universalismo della differenza: ponendo la differenza come trama ontologica dell’universale.  

Dall’esaltazione dell’era globale sente puzza di ritorno alla celebrazione della sovranità?

Gli Stati-continente di cui parlavo prima sono sovranissimi.

Che cosa c’è dopo il Leviatano?   

Se non vogliamo che ci sia Behemoth, ossia la guerra civile endemica, dobbiamo costruire un ordine mondiale che non sia architettato come un Superstato, un Mega-Leviathan, ma come una repubblica federale di nazioni autonome. Per questo il modello europeo, qualora per un evento miracoloso l’Unione Europea si trasformasse in un global player politico, potrebbe essere un tertium tra il modello individualistico-competitivo americano e quello comunitario-gerarchico cinese. Tertium, non Terza Via: poiché di terze vie sono lastricati i cimiteri europei del ventesimo secolo….

Che cos’è il potere?

È una relazione. Asimmetrica e conflittuale, ma pur sempre relazione: dunque fondata sulla possibilità del soggetto assoggettato di dire di no. Potere e libertà, dunque, scaturiscono dalla medesima fonte.

Sul potere ha detto di più e meglio Canetti, Foucault o Kafka?

Kafka, sicuramente: il solo a essere giunto all’impensato del potere, alla sua infondatezza, al punto cieco della mitologia e della giurisprudenza del vincitore. 

L’autorità è stata spesso combattuta e sembra essere perduta. Andrebbe recuperata?

La crisi della politica ha un carattere simbolico profondo, radicato nella divaricazione tra potere e autorità. Autorità nel senso di auctoritas, dalla radice indoeuropea aug- , da cui il verbo latino augere e termini come augurium, auctor: complesso semantico che rimanda alla simbolica dell’aumento, dell’incremento simbolico e “augurale”. Non dovrebbe tuttavia trattarsi di un semplice recupero, ma di una sottrazione alla verticalità della classica endiadi auctoritas-potestas nella direzione di una crescita di senso orizzontale delle relazioni interne a una società antitetica alle logiche di potere. Non mi soffermo oltre, avendo già dedicato al tema diverse pagine del mio libro Contro il potere.

Quanto bisogno di servitù volontaria trova in giro?

Molta e diffusa. A causa del bisogno di capi che ci esonerino dalle responsabilità della decisione. La libertà è faticosa, ma senza libertà non c’è vita.

La politica, per Aristotele, era un mezzo per il bene. Oggi?

Da Machiavelli in poi la politica non è più il viatico per il bene, come pensava Aristotele, e neanche per la società giusta, come pensano i contrattualisti, ma l’arte per la conquista e il mantenimento del potere. Da Machiavelli, però, abbiamo anche imparato che una lotta per il bene strategicamente attrezzata ha molte chances di vittoria. Savonarola perde perché era un profeta disarmato. Ma tutte le volte che i profeti si armarono, vinsero. 

Dalla vita al consumo. Quanto ha ancora da dirci l’opera di Adorno?

Amo spesso ricordare lo straordinario inizio dei Minima moralia: quella che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ormai ridotta alla sfera del puro consumo. Consumo di prodotti, di merci, di oggetti, ma anche di relazioni, di esseri umani. Non per nulla, come ha scritto una brava storica americana, il consumo è stata la chiave del consenso e dell’egemonia del modello statunitense: una chiave, come Adorno ebbe modo di verificare durante il suo esilio americano, di gran lunga più efficace di ogni ideologia.

Gianni Vattimo non vede né pensiero debole né forte, ma unico. Lei?

A dispetto delle performance algoritmiche, vedo molto disordine sotto il cielo. Dunque….

Tutti parlano della tecnica, pochi si concentrano sul suo impatto. Dobbiamo temerlo?

Stiamo per essere investiti da un’onda d’urto ancora più violenta della globalizzazione: la nuova robotica nata dall’intreccio di Intelligenza Artificiale e genetica. Stiamo per varcare una soglia destinata a determinare una mutazione antropologica di grande portata. Ma va affrontata solo in un modo: verificando, vagliando, elevando, non sminuendo o frenando, la qualità della tecnica.  

Perché ripetiamo che non c’è vita senza l’Altro, ma continuiamo a considerarlo una minaccia?

La paura dell’Altro fa tutt’uno con la logica identitaria del potere: dall’idea che l’altro sia una minaccia per me (o per noi) e che di conseguenza la morte fisica o la morte simbolica, ossia la mortificazione, dell’altro sia fonte di vita per me (o per noi). Al contrario, il mito dell’autoctonia e della “purificazione” identitaria ha sempre avuto come conseguenza l’impoverimento e il declino di una società o di una civiltà.   

Ha detto che serve una nuova rivoluzione culturale. In che senso?

Siamo esecutori fallimentari delle promesse rivoluzionarie del Novecento: affidate alla speranza che il cambiamento delle strutture avrebbe comportato anche una trasformazione dei soggetti. Ma ciò non è accaduto per la semplice ma decisiva ragione che le strutture di potere non cambiano se prima non è avvenuta una trasformazione dei soggetti. Occorre dunque liberarsi dall’alibi dell’oggettività mettendo al centro noi stessi: il fattore oggettivo soggettività.